Legge 104 ed emendamento Brunetta: due (diverse) chiavi di lettura

di Maria Di Paolo

Foto di Nicola
Per l’ambaradan che aveva scatenato è passata stranamente sotto silenzio l’approvazione in Parlamento dell’emendamento proposto dal Ministro Brunetta per la modifica della legge 104/92. Senza sottovalutare l’opzione “benaltrista” del nostro editoriale i commenti che nei giorni precedenti l’approvazione correvano in rete ci danno un quadro chiaro del problema dal punto di vista di associazioni di categoria e famiglie che assistono persone disabili: provvedimento insensato, al danno si aggiunge la beffa, venga Brunetta ad assistere mio figlio. È interessante capire da quanti punti di vista un intervento possa essere letto, per questo abbiamo provato a far chiarezza con qualcuno che ci parlasse dello “spirito” della legge, a partire da una domanda: ma questa norma era necessariamente la prima cosa da fare?

“C’è sempre un altro modo o un altro punto di partenza, ma il punto vero è cominciare ad intervenire”. Michel Martone è Professore Ordinario di Diritto del Lavoro all’Università di Teramo e, articolo 33 comma 3 alla mano, cerca di fare, con noi, chiarezza sulla differenza tra lo “spirito” della legge e lo “spirito” del legislatore. “Io credo che quella del Ministro Brunetta sia un’operazione che non siamo in grado di giudicare oggi, perché è solo una minima parte – il primo impulso, potremmo dire – di un lungo processo di riforma per razionalizzare l’ordinamento dello Stato, ma, in senso più ampio, anche modificare l’approccio culturale e i costumi degli italiani”.

Il problema nasce dalla prospettiva di lettura: l’idea che è sottesa a questo provvedimento è razionalizzare il ricorso ai permessi e limitare i riconoscimenti di invalidità fittizi, per evitare eccessi ed abusi. “Quello che sta cercando di fare il Ministro Brunetta, considerando il complesso delle sue azioni” – spiega Martone – “è riportare le persone al lavoro, limitare gli sprechi nella Pubblica amministrazione e reprimere i comportamenti scorretti. È intervenuto sulle assenze, adesso sta intervenendo sui permessi. Ma anche in questo caso, sarebbe semplicistico considerare la singola azione in sé: è un processo in corso, questo è il momento in cui, dopo aver privatizzato e aver fatto riforme di struttura, bisogna far funzionare la macchina”.

Accettabile in via teorica, questo principio è difficile da far passare se la lettura è dal punto di vista di chi, disabile, ha bisogno di assistenza continua. Il fatto che la ratio di questa norma non si appunti sulla persona disabile e che, nel merito, essa voglia solo chiarire quanti giorni di permesso a carico dello Stato – permessi mensili retribuiti – si possano concedere in un momento in cui una riforma – a costo zero – del pubblico impiego è una priorità assoluta nulla toglie al fatto che da oggi solo uno dei due genitori potrà disporre di 3 giorni di permesso retribuito al mese per assistere un figlio con disabilità. Una persona disabile che, in passato, poteva contare su un’assistenza quasi continuativa nel corso del mese perché più persone, della sua famiglia, potevano accedere ai permessi per assisterlo, oggi può contare su un numero di ore molto ridotto di assistenza in presenza. Su questo punto si sono scatenate associazioni di categoria e famiglie di persone con disabilità che criticano profondamente un emendamento non in linea con lo “spirito” della legge 104 nella quale i permessi lavorativi sono concepiti come misura a favore della persona con grave disabilità e non dei lavoratori.

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Come ha spiegato in una lettera aperta Pietro Barbieri, Presidente della Federazione per il superamento dell’handicap, i permessi non sono e non possono essere considerati un “risarcimento” o una “compensazione” per la presenza di una persona disabile in famiglia, ma un’opportunità in più per poter consentire a queste persone di vivere bene la propria quotidianità. Questo principio va tutelato e da questo principio derivano ricadute operative: se un lavoratore assiste effettivamente il familiare gravemente disabile i permessi gli vanno accordati, se, dimostratamene, non lo assiste i benefici gli vanno revocati. Ma questa sorta di “blindatura” dei permessi introdotta spara indiscriminatamente nel mucchio. “Il tentativo è quello di limitare ed evitare eccessi ed abusi.” – continua a spiegarci Martone – “Poi è ovvio che quando si restringe l’ambito di applicazione di un diritto c’è il rischio che si vada a colpire i comportamenti negativi ma anche i positivi. I controlli, in questo senso, sono una previsione indispensabile – esistevano anche prima, in via preventiva – ma non sono sufficienti, servono anche i comportamenti individuali. Ritorno al fatto che ogni azione non deve essere letta isolata ma nel contesto di un più vasto, e molto più lungo, processo di trasformazione al quale devono concorrere tutti gli attori sociali: è importante che il Ministro dia l’impulso, ma è importante anche che i sindacati comincino a farsi promotori di una diversa cultura più meritocratica piuttosto che difendere indiscriminatamente tutti; deve fare un salto culturale la magistratura che sarà chiamata ad applicare queste norme; ogni singolo lavoratore del pubblico impiego deve cominciare a volere e capire l’utilità di essere valutato ma anche i cittadini dovranno cominciare a sviluppare una cultura civica che non sia solamente quella della protesta generalizzata”.

Le parti sociali, proprio quelle che sentono di non essere chiamate in causa e di non poter contribuire ai processi di riforma. Ma l’ascolto delle parti sociali interessate non dovrebbe essere una condizione ineliminabile in un processo legislativo? “È sicuramente importante che si ascoltino le associazioni di categoria” – conclude Martone – “ma ho l’impressione che il nostro Paese sia quello in cui quasi sempre, a forza di sentire tutti, non si riesce mai a far niente. Il Ministro Brunetta ha dichiarato apertamente, in più occasioni, la sua intenzione di sentire tutti, ma si fa portatore del modello del “dialogo sociale” piuttosto che della concertazione: in altre parole ascoltare tutti e parlare con tutti ma assumendosi poi la responsabilità di procedere e non aspettare fin quando tutti non trovano un accordo. È una scelta di metodo che diventa, poi, anche una questione di sostanza. La valutazione che ha fatto il Ministro è quella di tre giorni, le associazioni dicono che sono troppo pochi. Probabilmente avrebbe potuto esserci una trattativa: ma qui non entra in campo il giurista, questa è una valutazione politica. Astrattamente mi piacerebbe che le persone con disabilità possano essere assistite un più alto numero di giorni: poi, però, dobbiamo scontrarci con altri obiettivi come, ad esempio, quello dell’efficienza della Pubblica Amministrazione”.

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