LE IDEOLOGIE LEGATE ALL’ETICA E ALL’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

Deresponsabilizzazione, alienazione ed emancipazione

Il lavoro come luogo della perdita

Le due piste alle origini del mostruoso nel Novecento, la sproporzione e la macchinazione, si fondono in un punto essenziale, in quel luogo, non certo periferico, della modernità novecentesca quale il lavoro e la sua organizzazione.
Il lavoro, non quello artigianale, ma quello meccanizzato dove si consuma la separazione dell’opera dell’operaio. Così come è quel tipo di organizzazione del lavoro, fatta di divisioni e parcellizzazioni delle mansioni, il cui contesto si definisce la “geografia della parzialità” che domina il mondo ridotto a macchina.
Il tratto comune degli esempi fatti di eterogenesi di fini è che in qualche modo tutti i soggetti coinvolti lavorano: lavorano i capi dei campi di concentramento, gli scienziati dell’atomica e i piloti degli aerei che sganciano l’atomica e anche gli uomini dell’Unione Sovietica che credevano di edificare il mondo nuovo. Il lavoro sembra assorbire l’intero universo sociale, tutto sembra diventare impiego: la guerra, la politica, il pensiero. Il tratto fondamentale dell’organizzazione di questo tipo di lavoro è l’iperresponsabilizzazione rispetto ai singoli settori di competenza e, di contro, la deresponsabilizzazione rispetto agli esiti finali.

L’operaio totale

In Junger è presente il concetto di “lavoro sociale”, del lavoro cioè assunto come totalità dell’esistenza, che occupa ogni spazio sociale disponibile, ogni attività: il suo contrario non è l’ozio ed anzi non esiste alcuna condizione che non possa essere concepita come lavoro. Queste sono le modalità in cui una figura nuova, quella dell’operaio totale, comincia a penetrare nel mondo, divenendo una figura universale. L’operaio come figura perfettamente corrispondente alla forma dominante del nostro tempo: il lavoro. Avviene una fusione della eterogeneità sociale delle tre figure della tradizione indoeuropea (il guerriero, il sacerdote, il contadino) in un’unica figura, quella dell’operaio.
Per quel che riguarda Gramsci e il suo testo “Americanismo e fordismo” l’intuizione è come in realtà il fordismo non sia solo una tecnica di produzione, e neppure un semplice modello di fabbrica, ma un vero e proprio modello sociale che conduce una mutazione antropologica che porta alla generalizzazione delle relazioni umane ai metodi e ai valori della fabbrica: senza più una separazione fra uomo e operaio.
Gramsci evidenzia come il fordismo abbia travolto le precedenti forme di lavoro semi-artigianali, spezzando il nesso psico-fisico del lavoro qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza e della fantasia. Il fordismo tenta di creare un nuovo tipo di lavoratore e di uomo ed è in conseguenza della sua tendenza a uscire dalla fabbrica, che negli Stati Uniti verranno riconosciuti come storicamente necessari fenomeni come il proibizionismo, condizione necessaria per sviluppare il lavoratore “fordista”) e l’intero repertorio degli strumenti di controllo (spinti fino alla violazione dell’intimità) con cui l’impresa fordista tentava di ricostruire i comportamenti umani in conformità con gli standard imposti dal nuovo lavoro organizzato. L’americanismo, secondo Gramsci, domanda una condizione preliminare, che non esistano classi numerose senza una funzione produttiva, in cui si esprime l’esigenza di una sorta di tabula rasa sociale, di assenza di resistenze da parte di stratificazioni sociali precedenti, l’assenza di un passato sociale che sia da vincolo all’espansione “fordista”.
Céline coglie nella metamorfosi antropologica indotta dal fordismo la caduta di due barriere fondamentali, quella che separava la salute dalla malattia e quella che separava bios e techne. L’umanità nella sua totalità può essere messa al lavoro; le deformità operose di moncherini, arti atrofizzati, recuperati ad una sia pur parziale funzione produttiva. Fino ad ora solo la salute era entrata a far parte del ciclo produttivo, ora anche la malattia è una risorsa del lavoro. Inoltre Céline intuisce come la macchina abbia invaso la materia vivente: techne è penetrata nelle pieghe più intime del bios, per occuparlo e usarlo come materia prima.
Bataille cercava un qualche valore al di là dell’utile, un luogo nel quale potesse cessare la “cosalità” delle cose, dove gli oggetti potessero rivelare la propria intimità. Questo significa trovare un anfratto nel sociale in cui la dimensione del lavoro non sia ancora giunta, significa trovare un agire che nell’universo della razionalità strumentale appare come la porta maledetta. Bataille vuole proclamare un’altra verità, non quella che fa del produrre il destino dell’uomo, ma una verità che trova nella dissipazione, nel disordine, una nuova condizione dell’esistenza. Per questo inseguirà il filo contorto della parte maledetta lungo i meandri della storia: nel Messico dei sacrifici umani, rivisiterà la pratica del potlac presso gli indiani (l’esempio più clamoroso di spreco ostentato, di negazione dell’utilità), risalendo nell’esplorazione del Medioevo cristiano (spreco delle ricchezze accumulate tramite il lusso ostentatorio), arrivando a cercare tra le pieghe del conflitto sociale, nelle lotte degli operai, volte ad accrescere il salario e quindi a limitare la quota destinata all’accumulazione, la forma più moderna di dépense. Ma ogni volta l’oggetto perseguito si rovescerà nel proprio contrario, rivelando sempre il “volto osceno” delle cose: la stessa forma maledetta è ricondotta alla sua dimensione produttiva.
Colpa metafisica e caduta del legame sociale

Nel territorio del lavoro produttivo sembra affiorare il concetto di colpa metafisica con il significato attribuitogli da Jaspers come rottura della solidarietà esistente tra gli uomini, in quanto tali, facendo sì che ciascuno si senta corresponsabile per le ingiustizie che si verificano nel mondo.
La caduta della capacità originaria di vedere il sé nell’altro, di percepire la relazione che lega ogni altro a sé, attraverso l’esistenza di una zona comune, nella quale risiede l’essenza della nostra natura. Il lavoro è l’ambito in cui ogni cosa è ridotta all’uso che essa ha e dove le cose perdono l’intimità della vita, chiudendosi nella dimensione autistica dell’oggetto, questo è il luogo nel quale la relazionalità è perduta, in cui ogni aspetto diventa opaco e dove alla solidarietà si sostituisce l’interdipendenza funzionale. Alla base di questa profonda trasformazione dei meccanismi fondamentali della socialità, consta il processo dell’economizzazione del conflitto che ha spostato il terreno dello scontro sociale dalla questione dell’autonomia dei produttori a quella della distribuzione del surplus. Il passaggio cioè dalle ottocentesche modalità di lavoro all’interno della bottega artigiana (economie fondate sulla reciprocità, sul dovere da parte del datore di lavoro di assistere i suoi dipendenti) a una struttura lavorativa novecentesca fortemente de-socializzante (depurata dai nessi di relazionalità), un passaggio da una logica di legame a una logica di contratto.
Un ruolo fondamentale in questo processo lo ha avuto anche lo Stato attuando una metamorfosi funzionale che da strumento di produzione di ordine è divenuto garante della mercificazione del lavoro e del capitale. Questa inedita funzione dello Stato che garantisce i fattori primari del Capitalismo, comporta una dipendenza dell’essere sociale dal potere politico. L’effetto di questo doppio movimento di modernizzazione ha prodotto una rottura sistematica dei vincoli di reciprocità e mutua assistenza e il loro trasferimento dal corpo sociale, che fino ad allora le aveva custodite (vicinato, comunità) ai nascenti apparati amministrativi statali. Assistiamo ad una tenaglia tra Stato e Mercato riguardante la sfera autonoma della socialità: un processo di sradicamento delle consolidate abitudini di auto-produzione e di consumo comunitario delle forme di microcooperazione quotidiane. Un ruolo decisivo fu svolto dalla pubblicità, dal cinema, dalla stampa periodica, tutti coinvolti a sfondare le resistenze ed assumere nuovi standard di consumo e ad accettare pratiche non più gestite localmente, secondo processi produttivi incentrati sulle relazioni di parentela e vicinato, ma trasferitesi in qualche centro remoto.

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