Con Obama ha vinto la democrazia

Dalas, Texas

La netta vittoria di Barack Obama in questa elezione presidenziale USA sta facendo versare fiumi d’inchiostro su tutte le pagine dei giornali, ciascuna delle quali vede l’evento non solo come straordinario, ma lo spiega talvolta con motivazioni spesso molto diverse o addirittura contrarie tra loro.

L’abilita’ e la capacita’ oratoria del senatore (ora presidente) Obama non sono messe in discussione da nessuno, quello che invece fa discutere e’ da un lato la complessita’ del programma con il quale ha conquistato la fiducia della maggioranza degli elettori (che qualcuno definisce troppo ampio per essere completamente realizzato), e dall’altro lato l’ampiezza del successo e l’apparente facilita’ con cui ha superato l’ostacolo della barriera razziale, che nonostante i sondaggi largamente favorevoli a lui, hanno lasciato fino all’ultimo la suspense di un possibile risultato a sorpresa.

Sorpresa pero’ che in tal caso (se Obama avesse perso) sarebbe stata solo in relazione alle cifre dei sondaggi, poiche’ subito ci avrebbero spiegato che l’azzardo era stato troppo forte, e che l’America non era ancora pronta ad eleggere un presidente nero.

Il rischio c’era concretamente. Infatti, analizzando un po’ piu’ a fondo le cose, nonostante la grande bravura di Obama, si puo’ immaginare che, se lui si fosse presentato (a parte l’eta’) nel 2000 o nel 2004, lui non avrebbe vinto. Anzi, probabilmente avrebbe perso piu’ nettamente che Gore e Kerry. Questo perche’ allora i temi dominanti erano altri. Nel 2000 era la voglia di cambiare dopo 8 anni di governo democratico e di Clintomania. Nel 2004 i temi dominanti erano due: la sicurezza nazionale e il “pericolo” dei matrimoni tra gay, temi sui quali i repubblicani sono riusciti a convincere l’elettorato meglio che i democratici.

Se Obama avesse trovato in questa campagna elettorale questi temi dominanti, egli avrebbe probabilmente perso anche peggio dei due raprresentanti democratici di allora, perche’ oltre ai motivi che hanno fatto perdere i democratici (contro un Bush per nulla esaltante) c’era anche il suo colore della pelle a giocargli a sfavore.

Stavolta invece il tema di gran lunga dominante nella tornata elettorale e’ stato la crisi economica, scoppiato nella sua fase piu’ acuta proprio nei mesi che precedevano la data delle elezioni.

Fin troppo facile per l’elettore anche non approfondito in materia economica individuare in Bush e nel suo governo (repubblicano) i maggiori responsabili della crisi, e quindi cercare nell’altro partito (i democratici) e nell’altro candidato (Obama) l’unica via che garantisse un effettivo cambiamento.

A mio parere gli elettori hanno visto giusto, poiche’ la causa principale della gravita’ di questa crisi (negli USA) e’ stata proprio il non aver previsto e saputo prendere per tempo i necessari provvedimenti ad evitarne la gravita’. L’ eccessiva fiducia degli amministratori repubblicani nella capacita’ del mercato di autoregolarsi ha portato la crisi ad allargarsi a dismisura fino a contagiare tutti i mercati. Solo allora il governo americano si e’ deciso ad intervenire risolutamente con la mano pubblica. Troppo tardi. Colpevolmente tardi.

A pagarne le conseguenze (in termini elettorali) e’ stato il povero Mc Cain, persona di rettitudine e serieta’ esemplare, che al momento della cocente, netta sconfitta elettorale, ha fatto un discorso storico di concessione della vittoria a Obama.

Qualche errore in campagna elettorale lo ha fatto, perche’ non ha saputo differenziarsi a sufficienza, nel programma, da quello del suo collega di partito cha ha occupato la Casa Bianca negli ultimi otto disastrosi anni. Questo errore pero’ potrebbe essere stato determinato dalla sua fedelta’ alla linea tradizionale del partito repubblicano. Quindi non un errore di strategia ma una debolezza intrinseca alla corrente linea del suo partito di cui lui non ha voluto (o potuto) farsi innovatore.

In questa situazione quindi Obama ha vinto la vera battaglia per la Casa Bianca non contro Mc Cain, ma contro la compagna democratica Hillary Rodham Clinton nelle primarie.

Contro Hillary non c’era il vantaggio della grave crisi economica a giocare a suo favore, poiche’ tra di loro era un tema neutrale. E’ quindi stato contro di lei che Obama ha dovuto sudare le proverbiali sette camicie. Con il risultato sempre in bilico fino alla fine. Ma non e’ stato un male, perche’ la lunga battaglia gli ha consentito di stare sulla ribalta molto a lungo, e di essere conosciuto anche dagli elettori repubblicani e da quelli che normalmente seguono poco la politica.

Nelle primarie Obama, oltre che al pressoche’ totale sostegno di tutti gli elettori di colore (maschi e femmine), ha potuto giocare anche la carta del suo indiscusso fascino personale, con il quale ha praticamente neutralizzato il favore dell’elettorato femminile, che teoricamente avrebbe dovuto premiare Hillary.

Tutti questi elementi concomitanti hanno portato alla svolta storica, epocale, della elezione del primo presidente americano di colore.

Non dimentichiamo pero’ un paio di cose altrettanto importanti.

Primo: e’ vero che Obama e’ mezzo nero, ma e’ vero anche il contrario, cioe’ che e’ mezzo bianco. Quindi e’ sbagliato parlare del primo presidente nero.

Secondo: la vittoria di Obama contro Mc Cain e’ stata sancita, come abbiamo visto, dalla terribile crisi economica che ha spostato l’ago della bilancia a favore dei democratici, ma non bisogna dimenticare che comunque il popolo americano e’ molto tradizionalista,. Numericamente e’ piu’ conservatore che liberale. Poco propenso a favorire cambiamenti radicali. Molto attaccato al proprio partito di cui e’ disposto generalmente a fare il tifo senza entrare troppo nel merito dei programmi.

Stavolta invece, probabimente spaventato dalla gravita’ della crisi, la gente ha abbandonato la consuetudine e ha fatto una scelta coraggiosa di grande cambiamento. Che non e’ solo quello di avere il primo presidente di colore, ma soprattutto quello di avere, almeno per i prossimi quattro anni, un radicale cambiamento di politica economica, con un deciso ritorno verso politiche sociali di tipo Keynesiano e con prospettive di robusto rilancio del welfare-state.

In questo caso non e’ semplicemente una vittoria dei democratici, e’ proprio una vittoria della democrazia nel senso completo del termine.

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