"Più mercato, più Stato"

Attenti ai rischi cui siamo esposti

Occorre uno Stato decisore che sia in grado dare un indirizzo strategico allo sviluppo del Paese

Se quelli che si strappano le vesti per il ritorno dello statalismo – non senza fondati motivi di preoccupazione – avessero evitato ieri di avere un approccio ideologico a favore di privatizzazioni e liberalizzazioni, forse oggi non correremmo il pericolo di eccessi di segno opposto e di una difesa dell’italianità fuori tempo massimo. Personalmente, non mi scandalizzava ieri e non mi scandalizza ora la difesa del sistema bancario o l’ipotesi di rendere più difficili le scalate di alcune società quotate. Ma siccome non ho mai considerato le opa, le stock options, i rating o l’ansia da prestazione dei bilanci trimestrali necessariamente come segno della modernità di un capitalismo, così come ho sempre pensato che i campioni nazionali fossero cosa buona e giusta e che l’antitrust dovesse essere un mezzo (da usare cum grano salis) e non un fine, cioè non ho mai avuto pulsioni liberiste, proprio per questo adesso mi permetto di segnalare almeno due grossi rischi che stiamo correndo.

Il primo riguarda un clamoroso misunderstanding relativo al concetto di politica industriale. Di essa c’è grande bisogno, ma non vuol dire, per esempio, entrare nel capitale della Fiat o sovvenzionare questa o quest’altra impresa. Al contrario, significa da parte della Politica assumersi la responsabilità di dare un indirizzo strategico allo sviluppo del Paese, individuando le linee guida lungo le quali far camminare l’economia. Ergo, la politica dei settori oltre che quella dei fattori della produzione. Ergo, utilizzo della leva fiscale come incentivi e disincentivi che indirizzino gli imprenditori verso scelte di utilità generale (aziende più grandi e più capitalizzate, comparti produttivi a maggiore valore aggiunto e intensità di innovazione tecnologica).

Insomma, no allo Stato padrone –specie se a scopo di salvataggio – sì allo Stato decisore, che sceglie sia il quadro strategico entro il quale l’economia è opportuno che si muova, sia le regole che sovrintendono il funzionamento del libero mercato. Altra questione è l’eventuale intervento nel capitale delle banche – strategiche per il funzionamento dell’intero sistema, come si vede oggi con il credit crunch strisciante – che comunque dovrà essere temporaneo, privo di diritto di voto e tale da non poter decidere degli assetti manageriali. Così come altra cosa sono gli investimenti, specie in infrastrutture, che o si fanno con soldi pubblici o non si fanno (sarebbe ora di trasformare una bella fetta di spesa pubblica corrente in spesa per investimenti).

Secondo pericolo: un’eccessiva concentrazione di potere in capo al Governo. Un esempio? La norma, già passata alla Camera e ora al vaglio del Senato relativa alle società pubbliche, che subiscono un vero e proprio commissariamento con l’abolizione della figura del vicepresidente, la sterilizzazione di quella del presidente (niente deleghe se non lo decide l’assemblea, cioè il Tesoro) e la totalità dei poteri in capo all’amministratore delegato. A parte l’eventuale eccezione di incostituzionalità (scommettiamo?), è davvero troppo, specie se si parla di aziende di grandissime dimensioni e con logiche di governance complesse. Dunque, risolviamo una volta per tutte lo scontro statalismo-liberismo con la formula “più mercato, più Stato”, ma intendiamoci su cosa significa concretamente. (Terza Repubblica)

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