“Dopo Buenos Aires, il primo posto nella Repubblica Argentina per importanza
commerciale è occupato certamente dalla città di Rosario, in provincia di
Santa Fe, che conta oggi circa mezzo milione di abitanti, e che ha raggiunto
dal 1852 -anno in cui fu elevata al rango di città- fino ad oggi un
elevatissimo grado di perfezione[.] in tutti i campi del commercio,
dell'industria e di qualunque altra umana attività, godendo di una ricchezza
e di una prosperità veramente straordinarie”.
Con queste parole si apre uno dei due articoli contenuti nella rivista
“L'illustrazione italiana” del 9 Ottobre 1927, dedicati agli italiani che,
con le loro “importantissime ditte industriali e commerciali”, contribuirono
“al meraviglioso progresso” della cittadina di Rosario, definita dal
giornale una “città italo-argentina”, una “colonia” in cui “la fiorente
collettività” italiana, “largamente ammirata e rispettata”, con le proprie
iniziative ravvivava “il culto della patria e delle nobili virtù di sua
gente”.
I toni sono quelli entusiastici della propaganda di regime fascista, intenta
a trasformare le “altre Italie” -le diaspore degli italiani che vivevano
all'estero- in colonie demografiche dell'Impero: Mussolini, infatti, più di
qualunque precedente governante italiano, cercò di sostenerle, diffondendone
un'immagine positiva e degna di rispetto, sebbene, allo stesso tempo e mai
come prima d'allora, si impegnasse a regolare e indirizzare rigidamente i
flussi migratori.
Nel periodo delle emigrazioni di massa lo stato italiano non si era
preoccupato molto di mantenere un legame tra gli emigranti e la madrepatria.
La prima legge articolata in materia di emigrazione venne promulgata solo
nel 1888, e in essa veniva confermato il carattere privato della decisione
di emigrare del singolo cittadino; la tutela del benessere dell'emigrante da
parte dello Stato ebbe riconoscimento formale solo nel 1901, quando, con una
seconda legge, si creò il Commissariato generale dell'Emigrazione, che nel
1907 convocò a Napoli una prima conferenza mondiale sugli italiani
all'estero. Sotto la spinta di una forte e crescente ondata nazionalista,
nel 1912 il Parlamento definì i parametri della cittadinanza italiana,
riconoscendo come cittadini italiani coloro che erano nati in Italia, ma
vivevano in altri Paesi, e i loro figli nati all'estero. Questa legge
stabilì pertanto che la discendenza e il sangue (jus sanguinis)
determinassero la nazionalità italiana, e non la residenza o il luogo di
nascita (jus soli): la nazione italiana veniva indicata come gruppo
biologico o stirpe. Nel 1920 gli emigrati italiani all'estero erano ben 9
milioni, molti di più contando i loro figli, e tale numero faceva salire del
25 per cento la popolazione italiana complessiva.
La politica mussoliniana incominciò con il tentativo di ridurre
l'emigrazione, e proseguì con un vivo interesse per le diaspore, che, nelle
intenzioni del governo, dovevano diventare ricche colonie da cui attingere
risorse per sostenere l'espansione dell'Italia, specialmente rivolta
all'Africa. Sospeso nel 1927 il Commissariato generale dell'Emigrazione, nel
1931 Mussolini creò, presso il ministero degli Esteri, la Commissione per la
migrazione e la colonizzazione interne, al fine di garantire che la
migrazione fosse utile agli scopi dell'imperialismo italiano. Per
consolidare ed estendere la sua influenza sugli emigranti, il Parlamento
incoraggiò l'organizzazione di associazioni fasciste all'estero. Vennero
pubblicate opere propagandistiche con titoli quali “L'Italia coloniale”
(1924-43) o “L'Italia e il mondo” (1927-1928) e, attraverso i consoli, si
diede vita ad una programmazione culturale tesa ad enfatizzare l'unità degli
italiani in ogni parte del globo.
Nell'articolo che racconta dei signori Furlan e Rondelli, titolari degli
omonimi panifici, “L'illustrazione italiana” non manca, infatti, di
sottolinearne l'intensa “attività sociale”, che vedeva in particolare il
Rondelli prendere “parte attiva a tutte le manifestazioni italiane della
città di Rosario: ma soprattutto a quelle che più strettamente hanno
relazione con la sua privilegiata fede di ex-combattente e di fascista. Fu
egli a fondare l'Associazione dei Reduci, della quale fu per vari periodi
presidente, segretario e tesoriere, e negli ultimi tempi partecipò con caldo
successo alla formazione della locale sezione fascista, energicamente
svegliando e guidando su più radiosi e fertili cammini la vitalità italiana
di Rosario”.
Se è chiaro che le notizie riguardanti gli italiani in Argentina, riportate
da “L'Illustrazione italiana” del 1927, risentivano del rigido controllo
esercitato dal duce sui media , che si traduceva in una stereotipata
rappresentazione -vincente e senza ombre- dei connazionali all'estero,
funzionale agli interessi del regime, è tuttavia innegabile che il lavoro di
questi emigrati contribuì non poco allo sviluppo economico della Repubblica
rioplatense, in particolare in quelle zone, come la provincia di Santa Fe,
in cui altissima era la loro concentrazione numerica. Proprio in questa
regione il commercio alimentare risultava in mano agli italiani e si
costituiva quale principale veicolo di ascesa sociale. Nel 1906 il
viceconsole di Rosario segnalava la presenza di ben 1623 commercianti tra i
26832 italiani al lavoro nella città, mentre a Cordoba tutta la rete degli
almacenes -i magazzini all'ingrosso di vini, oli, coloniali e generi
alimentari per lo più importati dall'Italia-, nonché le principali fabbriche
di calzature, di carri e carrozze, di dolciumi e pasta, le concerie, le
cappellerie, le tipografie e le sartorie erano di proprietà di emigrati
italiani. Il signor Furlan e il signor Rondelli rientrano a pieno titolo tra
questi lavoratori “di successo”. A pagina 9 si legge infatti come i
“Panifici della ditta Furlan & Rondelli, che sono giustamente ritenuti
presentemente tra i più importanti del Sudamerica [.] hanno avuto [.] umili
origini. Il loro fondatore Adriano Furlan, nativo di Levico in quel di
Trento [.] giunto a Rosario, [.] con tenacia profonda e grande sagacia
economica, riusciva in breve tempo a rendersi indipendente, installando un
modesto panificio con procedimenti pressoché primitivi, valendosi cioè del
solito lavoro manuale nelle ore notturne fatto da lui stesso, dedicandosi
poi all'alba alla vendita diretta al pubblico ed incaricandosi persino delle
consegne a domicilio. E la sua ferrea costanza gli fu premiata: poco a poco
riusciva a modernizzare il suo negozietto, e quindi, passando da
miglioramenti a miglioramenti, riusciva finalmente ad impiantare un vero
panificio [.]. Nell'anno 1920 si associò al Furlan il signor Rodolfo
Rondelli, bolognese, il quale apportò alla nuova Ditta [.] il cinquanta per
cento del nuovo capitale sociale[.]. Sposata la figliola del Furlan,
assumeva le direttive della Ditta, mentre il suocero andava a riposare nelle
sue terre [.]. Lo stabilimento, denominato 'Continental', è ricco del
materiale più moderno che una simile industria possa avere: è dotato di
forni di cinquanta metri quadrati di superficie riscaldati da un moderno
impianto a petrolio, tale da permettere la più scrupolosa ed assoluta
igiene, poiché detto combustibile evita gli inconvenienti causati invece
dalla legna, come la fuliggine, la cenere, il pericolo delle lesioni per gli
operai, ed infine l'invasione negli stabilimenti di quegli insetti che
accompagnano i vegetali e che sono la disgrazia dei panifici in genere.” E'
possibile notare, tra le righe di questa dettagliata descrizione,
l'interesse e l'ammirazione suscitati dall'applicazione di nuove tecniche
produttive, vessilli di quella mitizzata 'modernità' tutta da conquistare.
Anche il Signor Melchiade Benini, di cui si racconta a pagina 3, partecipò a
questa corsa rivolta al progresso e alla modernizzazione, essendo “il
promotore e primo organizzatore” della “magnifica Esposizione internazionale
d'igiene, d'arte e d'industria, tenutasi l'anno scorso [1926] nella città di
Rosario [.] in occasione del centenario di quella rigogliosissima metropoli
[.]. Riflettendo che l'Esposizione era per il paese una novità, si può
facilmente comprendere lo sforzo compiuto dal Benini, il quale dovette
direttamente lottare contro le mille difficoltà doganali, e con la
ostinazione dell'ambiente, riuscendo solamente a vincere per forza di
volontà.”
Iniziate in Francia nel 1789, le grandi esposizioni di merci mettevano a
confronto i progressi tecnici dei vari paesi e la loro potenza mercantile e
coloniale. Diventate internazionali a partire da quella londinese del 1851,
in occasione della quale fu edificato il Crystal Palace, davano la
possibilità ad un eterogeneo pubblico di osservare e conoscere i prodotti
nuovi presentati nei vari padiglioni.
All'Esposizione di Rosario, secondo quanto riportato dal giornale, ben il 70
per cento dei partecipanti era di origine italiana, “veri esponenti della
ricchezza locale e del progresso argentino. [.] Il Padiglione italiano è
stato uno dei più belli e, senza dubbio, il più interessante.”
Nel ricordare gli italiani di Rosario che lasciarono un segno nella storia
dell'Argentina (e non solo) non si può non accennare brevemente a Lucio
Fontana, nato nel 1899 da genitori di origine italiana. Trasferitosi all'età
di sei anni a Milano, ritornò a Rosario negli anni '20, iniziando la sua
attività di scultore nella bottega del padre, e tra il 1925 e il 1927 vinse
alcuni concorsi, realizzando, tra gli altri, il monumento a Juana Blanco.
Chissà, forse anche il giovane Fontana si trovò a passeggiare tra i
padiglioni dell'Esposizione internazionale organizzata dal Benini, come uno
dei tanti figli di emigranti nati dall'altra parte dell'oceano, ignaro del
successo e dell'importanza che le sue opere d'arte avrebbero avuto in tutto
il mondo.
Silvia Giovanna Rosa
Portale Lombardi nel Mondo
www.lombardinelmondo.org