Una testimonianza dal Centro Ospedaliero di Anyama, in Costa d’Avorio
di Pietro Iovenitti*
Abidjan, ottobre 2008
Il 2 gennaio del 1960 Fausto Coppi saluta per sempre il suo pubblico, l’uomo che pedalava più veloce del vento diviene una leggenda. Il suo corpo invaso dal Plasmodium cede di schianto, mal curato da alcuni medici. La malaria, più forte delle salite dello Stelvio, spezza come un fuscello l’invincibile Coppi. Nessuno aveva intuito che la febbre che lo aveva assalito una volta tornato dall’Alto Volta potesse dipendere dalla malaria. Da quarant’anni la malattia non è più endemica nel nostro paese dopo essere stata eradicata a cavallo tra gli anni ’40 e ’50. Oggi ritroviamo in Italia solo qualche centinaia di casi di malaria di “importazione”, turisti sfortunati e poveri immigrati. Tutto questo sta a significare che da qualche decennio la maggior parte dei medici del nostro paese non ha mai assistito, durante la pratica clinica, a un accesso palustre. Grazie al cielo abbiamo rimosso la malaria dalle nostre preoccupazioni e ne abbiamo cancellato ogni ricordo. Ma allo stesso tempo nei paesi del cosiddetto terzo mondo la malaria uccide ancora, lasciando dietro di sé una lunga scia di vittime. Per parlare di malaria c’è bisogno di avvicinarsi e guardare negli occhi questa malattia. Il termine “malaria” deriva dalla parola medievale “mal aria” e “paludismo” dal termine latino “palus, paludis” (palude) in quanto si credeva che la malattia potesse essere trasmessa dalla cattiva aria stagnante delle paludi. Soltanto a fine Ottocento si comprese che una specie di zanzara era responsabile della trasmissione della malattia all’uomo. Ma il concetto delle paludi e dell’aria stagnante c’entrano ancora qualcosa con la malaria. Infatti la zanzara, vettore della malaria, si sviluppa nelle sue prime tre fasi vitali proprio in ambiente acquatico ed ecco che le zone paludose, umide e stagnanti rappresentano un ambiente favorevole per la crescita e la sopravvivenza dell’insetto.
In poche parole la malaria è una malattia infettiva trasmessa all’uomo dalla zanzara femmina del genere Anopheles la cui puntura inocula nell’uomo il parassita Plasmodium – ne esistono quattro specie, tra cui la più pericolosa è il Plasmodium falciparum – responsabile del quadro clinico. La malaria ha un periodo di incubazione di 10-12 giorni. I plasmodi iniettati nell’uomo dalla zanzara raggiungono il fegato dove si riproducono molto rapidamente ritornando successivamente nella circolazione sanguigna dove invadono e distruggono una buona parte dei globuli rossi. A questo punto si manifestano i sintomi della malattia caratterizzati da febbre alta, cefalea, brividi, sudorazioni, dolori muscolari e addominali, vomito, diarrea, splenomegalia, allucinazioni e anemia. In alcuni casi la sintomatologia è così grave da portare alla morte (malaria cerebrale). In ogni caso la prognosi dipende molto da una tempestiva diagnosi e da una corretta terapia. Ancora oggi il 40% della popolazione del globo è esposta alla malaria. Ogni anno, nel mondo, si verificano circa 500 milioni di casi di malaria acuta, tra cui 2 milioni di decessi soprattutto bambini sotto i 5 anni di età e donne incinte. Si calcola che ogni 30 secondi un bambino muore a causa della malaria. In alcuni paesi la malattia provoca una notevole perdita economica e le spese per combatterla assorbono più del 40% del bilancio sanitario. Ancora una volta il sud del mondo è colpito da questo flagello, soprattutto l’Africa sub sahariana che “ospita” oltre il 60% dei casi di malaria e oltre il 90% delle morti ad essa attribuibili. Nonostante l’impiego delle zanzariere impregnate con insetticidi e dei farmaci anti-malarici (clorochina, chinino e derivati dell’artemisinina) la situazione resta ancora molto preoccupante.
Appena arrivati in Africa anche noi, come medici, ci siamo dovuti scontrare con questa terribile malattia che avevamo studiato superficialmente sui testi universitari. Abbiamo dovuto riprendere in mano un vecchio libro di malattie infettive e grazie ad internet e ai consigli di alcuni colleghi ivoriani abbiamo iniziato a capirci qualcosa. Nei paesi dove la malattia è endemica, e tra questi la Costa d’Avorio, quasi tutti sono colpiti almeno una volta dalla malaria. Nella maggior parte dei casi gli accessi palustri si ripetono nel corso del tempo minando l’integrità fisica delle persone. Se alla malaria si aggiunge la malnutrizione, il caldo insopportabile e alcune altre affezioni come la febbre tifoide, la tubercolosi e l’AIDS, allora la situazione diviene complicata. Un terzo delle consultazioni prenatali presso il nostro ospedale riguarda donne gravide affette da malaria. Ogni anno in Africa 30 milioni di donne gravide contraggono la malaria e circa 10.000 perdono la vita. Tale patologia, se contratta in gravidanza, oltre a provocare danni sulla madre aumenta considerevolmente il rischio di aborto, rottura prematura delle membrane, ritardo di crescita intrauterino, parto pretermine e morte in utero. Quando una donna gravida affetta da malaria si reca in consultazione riferisce una serie di sintomi utilizzando delle espressioni tipiche in un francese approssimativo, come ad esempio: “je suis fatiguée” (sono stanca), “je ne mange pas” (non riesco a mangiare), “ma tête me fait mal” (ho mal di testa), “je vomit” (vomito), “mon corps chauffe” (ho la febbre), “je pisse jaune” (la mia urina ha un colore giallo scuro).
Solo le più fortunate possono raggiungere un ospedale per essere curate. I casi lievi necessitano di una terapia orale a base di chinino e paracetamolo, mentre i casi più gravi richiedono l’ospedalizzazione e l’infusione di potenti antimalarici. Ma la maggior parte delle donne colpite non ha i mezzi per recarsi in ospedale e resta a casa in preda a crisi terribili. Una sensazione di freddo intenso invade il corpo, poi sale la temperatura e interviene una profusa sudorazione. Le forze vengono a mancare, si perde l’appetito, si è scossi da crampi addominali e si iniziano a vedere inesistenti animali che corrono sulle pareti. Quando si tratta poi di malaria cerebrale la donna perde la coscienza, entra in coma e se non riesce a curarsi immediatamente rischia la morte. I casi che vediamo ogni giorno sono centinaia, la terapia è ben codificata e sembra ottenere buoni risultati, ma non si assiste ad un arresto dell’endemia, ad una bonifica dei territori e all’eliminazione del vettore. Tristemente nell’Africa sub sahariana i risultati sono ancora marginali e la malaria continua ad andare a braccetto con la povertà e il degrado ambientale.
L’altra sera ho visto un documentario molto toccante sul genocidio consumatosi in Ruanda nell’aprile 1994. In quell’occasione furono massacrati a colpi di macete circa 800.000 tutsi e hutu moderati per mano di alcune frange di hutu estremisti. Tutti i capi di stato e i rappresentanti delle maggiori organizzazioni internazionali, rimasti immobili e indifferenti durante il massacro, giurarono sui propri figli che una tale barbarie non dovesse più ripetersi. Da allora in Palestina, in Irak, in Congo, in Sudan e in tante altre parti del mondo sono accadute più o meno le stesse cose. Non solo guerre e stermini, ma anche malaria e HIV, dissenteria e fame hanno decimato e continuano a farlo i più poveri, mentre il resto del mondo resta a debita distanza quasi facendo finta di non sapere. Tristemente un nuovo Ruanda, un'altra guerra mondiale, un altro olocausto si ripetono tutti i giorni.
*direttore del Centro Ospedaliero “San Luigi Orione”, Costa d’Avorio
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