di Carlo Mochi Sismondi
In un recente editoriale lamentavo che la PA digitale fosse ormai da aggiungere alle tante riforme perdute da far cercare a “Chi l’ha visto?”. Immediatamente ho avuto l’indignata reazione di molti che in questi anni ci hanno lavorato e creduto e che magari hanno anche ottenuto, nel loro settore o nel loro territorio, risultati apprezzabili. Per non incorrere in quello che Michele Serra ha magistralmente descritto come “pensiero sbrigativo”, che tanto successo ha ora nella politica, cerco di argomentare meglio il mio ragionamento dividendolo (Bacone insegna) in pars destruens e pars adstruens, insomma in criticità e proposte. Non è un elenco “sbrigativo” io ci ho lavorato un bel po’ di tempo, quindi altrettanto ve ne chiedo. Armatevi di un po’ di pazienza e prima di criticare leggetelo tutto.
A proposito il titolo è copiato da un appuntamento che si terrà la settimana prossima che si chiama appunto “Occasione perduta? La società dell’informazione e della conoscenza in un paese anormale” e che fa il punto sullo stato dell’arte dell’innovazione. Io ci vado, magari ci si incontra lì. Per saperne di più cliccate qui.
Elenco delle principali criticità che ci hanno impedito di raggiungere significativi e duraturi risultati
Drammatica confusione e sovrapposizione di ruoli e di competenze che, presente da almeno dieci anni, è ora peggiorata da continue dichiarazioni di incombenti rivoluzioni che, per ora, non hanno fatto altro che fermare i motori, per altro già non certo veloci, di enti come CNIPA o Formez, che comunque sia costano centinaia di migliaia di euro al giorno.
Incapacità da parte dei Governi di ripristinare corretti ruoli rispetto ai sistemi regionali. Il Governo che non riesce a dare certezze e regole dove dovrebbe, contemporaneamente lede continuamente l’autonomia dei governi territoriali, attraverso un vero centralismo della cassa (lo chiamerei il “centralismo del rubinetto” o la “dittatura della Ragioneria generale dello Stato”). Un esempio dell’incapacità di dare regole è, tra tanti, quello del DPCM sulla dematerializzazione che, atteso da oltre un anno e già formulato (si legge in bozza da quasi un anno sul sito del Ministro e sul sito del CNIPA), non è ancora stato promulgato e, quindi, non dà certezza a tutti i coraggiosi progetti di gestione documentale e dematerializzazione impostati a livello regionale. Un altro esempio potrebbe essere la commedia (Jonesco o Achille Campanile?) della carta di identità elettronica che ha trascinato in costose sperimentazioni centinaia di comuni che hanno “abboccato”. Di esempi di “lesa autonomia” sono piene le cronache: tra i più gravi lo sconcio costituzionale della riduzione prima e poi della quasi abolizione dell’ICI (sconcio di cui sono responsabili entrambi gli schieramenti) o, maggiormente inerente ai nostri temi, il blocco, per Decreto, del turn over e la conseguente impossibilità di assumere nuove e più utili professionalità.
Drammatica distanza tra centro e territorio: l’ottica di Palazzo Chigi (o di Palazzo Vidoni) è obnubilata da una reale ignoranza di quel che succede sul territorio. Non è che non lo considerano importante, è che non lo conoscono né si danno pena di conoscerlo tranne che attraverso irrilevanti bandi (tipo i 134 progetti e-Gov o ALI o Elisa) che hanno solo l’obiettivo, concordato in comunelle da condominio con le varie associazioni, di dividere i fondi tra comuni, regioni, province, piccoli comuni, ecc. badando che ce ne sia un po’ (poco ovviamente perché la torta è piccola) per tutti, ma senza chiedersi per far cosa.
Infine, e questo vale per l’e-Gov, ma anche per l’intero processo di riforma, è stato pernicioso il sistematico smantellamento della autonomia e responsabilità della dirigenza pubblica. Tale smantellamento e conseguente asservimento alla politica si è realizzato soprattutto negli ultimi sette anni (dalla famigerata legge 145 di Frattini) attraverso un mix diabolico di spoil system, di consociativismo sindacale – con conseguente azzeramento di discriminanti processi di valutazione – di ingerenza continua e incombente della Corte dei Conti, di scollamento tra assegnazione delle risorse e valutazione dei risultati, di incremento sconsiderato del numero dei dirigenti (specie nello Stato) e conseguente spoliazione delle funzioni e di aumento degli stipendi con una parte legata ai risultati ancora bassissima e comunque data a pioggia. Il risultato è stato la deresponsabilizzazione di un’intera classe dirigente che, cooptata più che scelta per merito, si è ben adattata nella sua larga parte ad uno status di passacarte. Su questo ultimo punto abbiamo svolto giovedì e venerdì scorso un seminario di grande interesse con una cinquantina di top manager pubblici centrato su scelta, autonomia, responsabilità e riconoscimento del merito per una dirigenza che sia veramente capace di dirigere. Tra breve riporteremo a tutti quanto lì elaborato per sottoporlo al vostro giudizio e alla vostra discussione che, specie su questi temi, mi è sembrata ben vivace.
Elenco, del tutto personale, di alcune piccole o grandi azioni per far ripartire il processo
Due mi sembrano gli assiomi su cui costruire qualsiasi politica:
1 – Da subito bisogna farsi una ragione del fatto che bisognerà investire una percentuale maggiore del PIL in innovazione tecnologica nella PA: sperare di fare l’innovazione finanziandola con i risparmi che essa stessa produrrà ricorda quello che voleva volare tirandosi su dalle stringhe delle scarpe. L’unico processo che può funzionare prevede prima di investire, poi di risparmiare (se si è bravi), poi di reinvestire in toto (meglio), o in parte, questo risparmio in nuova innovazione. L’outcome del processo non è il risparmio, ma un migliore e più diffuso servizio per tutti. Comunque questo investimento sarà come acqua in un colabrodo se non ci attiviamo per cambiare strategia.
2 – Mettere alla guida del processo personalità di indiscusso ed internazionale profilo scientifico che dettino linee guida e strategie; siamo di fronte a temi e obiettivi complessi che richiedono professionalità specifiche ed avanzate. Far fare il piano di e-Government a chi non abbia competenze alte nell’IT e esperienze anche internazionali di livello adeguato sarebbe come farsi operare da un maniscalco, chi di voi lo sceglierebbe?
Solo dopo aver metabolizzato queste due necessità possiamo prendere in considerazione le azioni di cui traccio un personale e certamente migliorabile decalogo:
1 – Riconoscere la dimensione dei sistemi regionali come la dimensione ottimale dell’innovazione e dell’e-Government e quindi ripartire dalle eccellenze che ci sono, appunto, nei sistemi regionali facendone un realistico e succinto (dieci items, non duecento) inventario (che per altro in gran parte già c’è).
2 – Individuare tra queste le cinque che sono considerate politicamente prioritarie e finanziarne una reale diffusione negli altri sistemi regionali.
3 – Individuare altri (pochi) obiettivi verticali che non sono coperti sufficientemente da queste eccellenze e avere il coraggio di proporre avvisi aperti alla progettazione da parte delle migliori aziende pubbliche e private, tendendo, però, saldamente in mano pubblica il timone. Non ci sarebbe nulla di male, ad esempio, a chiamare le cinque maggiori aziende che nel mondo hanno sviluppato progetti completi di sanità elettronica e chieder loro di proporre la loro visione della cartella clinica elettronica (il mitico “patient file” su cui si sono svolti qualche centinaio di convegni) prendendosi poi la responsabilità di scegliere la soluzione ritenuta migliore e di imporla in tutte le aziende ospedaliere italiane.
4 – Superare giudizi manichei tra aziende pubbliche e private e scegliere ogni volta il meglio e il più adeguato dove che sia. Ciascuno di noi conosce imprese private illuminate e altre costruite sul “mordi e fuggi” o, specularmente, imprese a capitale pubblico (ad esempio aziende strumentali di regioni o comuni) che sono carrozzoni e altre che sono vere agenzie di innovazione per le amministrazioni e per i sistemi regionali. Giudizi sommari sono sempre deleteri.
5 – Dare trasparenza al processo con un organigramma chiaro che definisca responsabilità e ruoli dei vari attori (Ministro, DIT, Formez, CNIPA, Governi territoriali, Conferenze, Tavoli tecnici, altri Ministri, ecc.).
6 – Consolidare ed estendere coraggiosamente la strategia del Sistema Pubblico di Connettività (SPC) come “insieme di regole condivise” piuttosto che come rete unica o, peggio, molto peggio, come elenco della spesa di servizi da comprare da aziende prefissate senza fare gare.
7 – Promuovere il “controllo sociale” sull’e-Government attraverso una reale presa d’atto del Codice dell’Amministrazione Digitale che dava linee chiare e condivise (una volta tanto realmente bipartisan) e che indicava scadenze, ormai ahimè trascorse da tempo senza effetti. Il CAD presenta già, infatti, un quadro di diritti e di strumenti del tutto adeguato basato sull’assunto che l’interazione tra cittadini (e imprese) con la PA deve sempre essere possibile per via telematica e che questa sia sempre e comunque la norma e che sia un diritto dei cittadini e delle imprese pretenderlo. Come abbiamo detto molti degli obiettivi lì indicati sono rimasti lettera morta e molti degli strumenti chiave sono, in effetti, non disponibili o comunque non utilizzati.
8 -Garantire l’effettiva disponibilità dei dati pubblici tra amministrazioni e l’istituzione delle “basi di dati di interesse nazionale” e la valorizzazione degli stessi dati come “bene comune” da mettere a disposizione della collettività.
Infine last but not least:
9 – Cominciare a porre le basi per ricostruire una classe dirigente pubblica orientata ad un’etica dell’autonomia, della responsabilità e della trasparenza, curando di assumere con procedure ad evidenza pubblica, professionalità tecniche di statura scientifica adeguata al compito.
10 -Aprire le amministrazioni ai giovani (digitali nativi) sbloccando il turn over e favorendo il pensionamento dei più anziani.
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