Crisi banche, sì alla ricetta Sarkozy

Una strada utile anche per l’Italia
Mirata e limitata nel tempo, sostiene la crisi di liquidità interbancaria

Ci sono due strade per uscire dalla crisi che sta mettendo in ginocchio le banche. Una ha i colori della bandiera Usa, l’altra le stelle dell’Unione Europea. Una volta tanto, quella più convincente è targata Ue. Ha ragione Lorenzo Bini Smaghi, il rappresentante italiano nel board della Bce: serve che i Governi scendano in campo ricapitalizzando le banche. Ed è la strada seguita in questi giorni dalla leadership più pragmatica del Vecchio Continente, quella del presidente francese Sarkozy, intervenuto di concerto con i governi del Benelux per salvare, nazionalizzandoli di fatto, i colossi Fortis e Dexia.

Lo “schema Sarkozy” è valido per almeno tre motivi: è mirato; è temporalmente limitato; aggredisce il problema nel suo punto principale, ovvero quello della crisi di liquidità interbancaria. E’ mirato perché non costituisce un intervento a pioggia come quello americano, né guarda a valle come la proposta Brown di istituire un fondo per le imprese. Ha un tempo di scadenza, perché lo Stato dovrà rimanere nel capitale di una banca solo il tempo strettamente necessario. Ma cosa più importante, sostiene le banche in un momento in cui queste non si fidano più nemmeno di loro stesse.

L’enorme massa di liquidità che la Bce ha immesso nel sistema finanziario – oltre 100 miliardi di euro, più di quanto non accadde dopo l’11 Settembre, solo nelle ultime settimane – invece che andare a lubrificare i mercati, rimane “in cascina” negli istituti di credito. I quali preferiscono utilizzarla in proprio, per operazioni di finanza straordinaria, con l’obiettivo di rimpolpare gli utili e dunque rinforzare i fondamentali e razionalizzare i ratios patrimoniali, cosa indispensabile in tempi di “assedio alla cittadella” come questi. Il risultato è un tasso Euribor (quello a cui le banche si prestano il denaro tra loro) schizzato al 5,34%, così come ai massimi di sempre (113 punti base) è un altro fondamentale indicatore, lo spread Libor-Ois che misura la scarsità di liquidità per gli istituti di credito.

Ma c’è dell’altro, di natura più domestica, per cui preferire la “ricetta Sarkozy”. Primo: l’Italia, per le caratteristiche del suo sistema produttivo (piccole imprese sottocapitalizzate e non quotate, dunque strettamente dipendenti dal credito bancario) non può permettersi il lusso di perdere il controllo delle banche più importanti. Secondo: il rischio di “credit crunch” e di contagio della crisi finanziaria all’economia reale che si era riusciti a tener fuori dalla porta nella prima fase della crisi (quella immobiliare) è rientrato dalla finestra. Tanto che gli imprenditori si sono già accorti che ottenere finanziamenti è diventato quasi impossibile. E non è solo un positivo meccanismo darwiniano, per cui l’asticella del merito di credito alzandosi consente una salutare scrematura: no, qui la selezione si sta trasformando in stretta monetaria, con conseguenze pesantissime visto che siamo già in piena “crescita zero”. E a rimetterci saranno anche le aziende sane, che hanno bisogno di fare investimenti.

Insomma, se non vogliamo entrare in una fase di recessione forte e prolungata, dobbiamo fare in modo che i rubinetti del credito si riaprano. E per farlo, le banche devono ripatrimonializzarsi. E se per ottenere questo decisivo obiettivo, bisogna utilizzare la Cassa Depositi e Prestiti, lo si faccia. Non si tratta di tornare alle banche d’interesse nazionale, ma applicare l’interesse nazionale alle banche.

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