L’Istituto nazionale per la Guardia d’ Onore alle Reali Tombe del Pantheon-Lazio in collaborazione con il
Comune di Viterbo ha ricordato la tragedia della Divisione Acqui a
Cefalonia e il 65esimo anniversario della morte del suo comandante gen.
MOAVM Antonio Gandin. Erano presenti il Comune con il Labaro cittadino
ed un picchetto armato della Scuola Marescialli che ha reso gli onori
militari e varie Associazioni d’Arma e combattentistiche. La cerimonia
si è tenuta mercoledì 24 settembre a Bagnaia, con il seguente
svolgimento:
– ore 16,45 deposizione fiori alla lapide sulla casa della
famiglia Gandin in piazza XX settembre 9;
– ore 17,30 celebrazione
Santa Messa in suffragio dei caduti nella chiesa di S. Giovanni;
– ore
18,30 conferenza dell’avv. Massimo Filippini sulla figura del generale
Gandin.
Sono intervenuti Enrico e Anna Gandin, nipoti del generale, e
il presidente dell’Istituto nazionale della Guardia del Pantheon, Ugo d’
Atri.
La conferenza dell'avv. Massimo Filippini orfano del magg.
Federico Filippini -anch'esso fucilato a Cefalonia- è stata seguita con
molta attenzione dai presenti ai quali l'oratore ha puntigliosamente e
dettagliatamente esposto i tanti lati oscuri della vicenda come dal
testo, che segue, della sua relazione.
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Didascalie foto:
Bagnaia 7 : L'avv. Filippini e
Bagnaia 1 : Gli
oratori: da sin. il Presidente dell' Istituto della Guardia d'Onore al
Pantheon cap. vasc. dr. Ugo D'Atri, l'avv. Massimo Filippini, l'ing.
Enrico Gandin, nipote del gen. Gandin e il responsabile della Guardia
d'Onore per il Lazio dr. Aldo Quadrani.
Bagnaia 3 : l'intervento
dell'ing. E. Gandin
Bagnaia 5 : l'intervento dell'avv. Filippini
Bagnaia 7 : l'avv. Filippini e il Presidente D'Atri
Bagnaia 8 : l'ing.
Gandin (a sin.) e il responsabile organizzativo dr. Quadrani
Bagnaia 9
: Onori Militari di un Reparto della scuola M. lli di VT
VITERBO 24 SETTEMBRE
Manifestazione in ricordo del sessantacinquesimo anniversario della morte del gen. Antonio Gandin, comandante della div. Acqui e della tragedia di Cefalonia.
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Ricordare oggi i fatti di Cefalonia e il gen. Antonio Gandin –ai cui familiari presenti porgo il mio affettuoso saluto- porta a conclusioni in parte diverse da quelle della memorialistica tradizionale per effetto delle novità contenute in Documenti -da me rinvenuti negli Archivi Militari- che mi hanno consentito una rilettura di alcuni aspetti per così dire ‘canonici’ della vicenda che anch’io avevo dato per scontati ma che oggi appaiono del tutto superati.
Ho conosciuto e sono venuto a trovare più volte il fratello del gen. Gandin, il compianto ing. Vittorio e posso dire che dai colloqui con lui avuti ho ricavato netta l’impressione che il fratello fosse tutt’altro che un fanatico fascista come taluni -per bassi fini ideologici e soprattutto per riabilitare la controversa figura di alcuni indegni personaggi- hanno cercato di mostrarlo; era un militare che faceva la guerra, e cercava di farla bene. Conosceva personalmente molti generali tedeschi, conosceva anche il loro temperamento, e cercò di salvare col suo prestigio i suoi “11mila figli di mamma” dopo quello che i Tedeschi considerarono –dal loro punto di vista- un tradimento dato che noi avevamo firmato il Patto d’Acciaio; ma sul punto non intendo addentrarmi perché ciò non rientra nei compiti dell’odierna rievocazione.
“Se perdiamo ci fucileranno tutti!”, questa fu la drammatica ossessione che –ben conoscendo i tedeschi- assillò il gen. Gandin durante le trattative avute con essi che, per tragica incoscienza, vennero prima sabotate e poi fatte fallire da alcuni personaggi su cui troppo spesso si sorvola o che, addirittura si tende a mostrare in veste di ‘eroi’ in antitesi alla sua nobile figura.
Ciò francamente è inaccettabile e pertanto ritengo che divulgare le novità emerse costituisca un mio preciso dovere per conferire dignità storica ai fatti di Cefalonia rilevando anzitutto che ciò non sarebbe stato necessario se molti documenti che ho scoperto non fossero stati ‘secretati’ dall’Autorità Militare per mezzo secolo come ad esempio oltre ad un Appunto del col. Broggi, Capo Ufficio Storico dell’Esercito indirizzato allo S. M. nel 1962 , la Relazione compilata dal t. col. Livio Picozzi addirittura nel 1948 la quale – se resa nota- avrebbe fin da allora chiarito i punti oscuri della vicenda evitando che essa con il tempo assumesse l’aspetto di un Mito assolutamente improbabile: dico questo pur comprendendo il desiderio allora avuto dalle FFAA di non voler rendere note alcune circostanze fondamentali che, influendo sull’alone mitico -se non addirittura mistico- conferito ai fatti in questione, ne avrebbero minato la credibilità di alcuni aspetti essenziali.
E’ un rispettoso rilievo che rivolgo alla superficialità mostrata nel ‘secretare’ detti documenti senza riflettere che prima o poi essi sarebbero tornati alla ribalta con il loro contenuto innovatore e in molti punti demolitore della vulgata creatasi negli anni confermando in pieno la riflessione gramsciana per cui nella storia è ‘la verità ad essere rivoluzionaria’.
Ciò premesso passo all’argomento che incentrerò su due punti oggi di stretta attualità, e cioè i dati numerici di quello che si è usi definire ”eccidio di Cefalonia” e le responsabilità avute nella vicenda dal Comandante della Acqui gen. Gandin.
Per quanto riguarda i primi ho accertato – alla luce di documenti rinvenuti negli Archivi militari – che a Cefalonia dopo la resa non ci fu lo sterminio quasi totale della ‘Acqui’ ma un’ infame rappresaglia diretta contro gli ufficiali e non anche contro la truppa analogamente a quanto accadde a Corfù e in altre zone dove i nostri militari opposero resistenza –a seguito di SPECIFICI ORDINI ricevuti- alle ingiunzioni tedesche di disarmo.
Tutto ciò è riportato nel mio ultimo libro ‘I Caduti di Cefalonia: fine di un Mito’ in cui ho provato che i Caduti e i Fucilati nei combattimenti dal 15 al 22 settembre furono circa 1300; i Fucilati dopo la resa del 22 settembre furono principalmente gli ufficiali, di cui 136 alla famigerata Casetta Rossa il 24 e il 25 settembre.
Aprì la schiera dei Martiri – il giorno 24- il gen. Antonio Gandin le cui ultime parole furono “Viva il Re ! Viva la Patria !” e fu poi la volta degli altri tra cui il giorno successivo mio Padre, il magg. Federico Filippini, Comandante del Genio Divisionale che con altri 6 sventurati Ufficiali -con lui ricoverati in Ospedale- venne prelevato e condotto al supplizio quale rappresaglia per la fuga avvenuta nottetempo di altri due ufficiali con loro ricoverati.
Uno di questi il cap. Pietro Bianchi –che in una lettera diretta al dr. Triolo, padre del s. ten. della GdF Lelio -uno dei 6 fucilati- definì il proprio com. te di rgt. t. col. Ernesto Cessari -fucilato appena catturato il 21 settembre dai tedeschi- come ‘un vigliacco e un tedescofilo’, dopo la fuga si unì ai partigiani comunisti greci e nel dopoguerra oltre alla ovvia qualifica di partigiano per i ‘meriti’ acquisiti a Cefalonia fu promosso generale.
Alla schiera dei Martiri sono da aggiungere anche quei militari uccisi isolatamente come i 17 marinai di cui i Tedeschi si servirono per trasportare i corpi degli ufficiali uccisi al mare ed altri sfortunati uccisi a caso qua e là che comunque non furono –come dalla documentazione consultata- né 4 o 5mila ma solo poche centinaia: un numero assai doloroso –se è vero come è vero che l’orrore non si valuta dal numero degli uccisi- ma di certo meno impressionante di quanto finora si è detto e caparbiamente si sostiene –anche in recentissime ed antistoriche dichiarazioni di studiosi e ricercatori ritenuti affidabili ma che tali hanno dimostrato di non essere.
Altri militari poi (circa 1300) perirono in mare nei giorni successivi durante il trasporto in continente per il siluramento –come è stato di recente accertato- da parte di sommergibili alleati e non per l’esplosione di fantomatiche mine da noi deposte in precedenza come di recente è stato accertato da seri ricercatori di cui a titolo di esempio cito Francesco Mattesini.
Comunque il totale dei fucilati dopo la resa del giorno 22 non superò le 350 – 400 unità, ben lontano quindi dalle migliaia e migliaia (9.000? 10.000? 11.000?) di cui da decenni si parla: tutto è minuziosamente descritto e documentato nel mio ultimo libro verso il quale non mi risulta siano pervenute smentite ma solo qualche rancorosa ed infondata critica da parte di chi ha visto crollare le proprie granitiche certezze fondate quasi esclusivamente su un apocalittico ma –fortunatamente- inesistente numero di Morti.
Ma c’è di più. Questi dati numerici, certificati da documenti ufficiali dell’Esercito, assumono un’importanza fondamentale non solo per far luce sulla ridda di cifre da sempre fatta sul punto ma anche –come ho accennato- per dimostrare l’insussistenza delle infami e farneticanti accuse che qualcuno ha mosso recentemente al gen. Gandin secondo cui egli avrebbe addirittura tradito (!) i suoi uomini provocando –oltre a quello degli Ufficiali- anche l’eccidio della truppa nelle colossali dimensioni sopra accennate.
A proposito di tali dati numerici ‘gonfiati’ a dismisura rilevo che anche il prof. Rochat, il noto storico che taluni -ma non io- ritengono un esperto in materia , a seguito della loro pubblicazione nel mio libro se ne è dissociato –dopo averli dati da sempre per certi- in un’intervista del 5 luglio 2006 al giornalista Roberto Beretta de “L’Avvenire”, definendoli come “invenzioni di gente che non ha senso storico e somma tutte le cifre possibili”.
Analogo risalto a tale novità emersa dalle mie ricerche è stato dato dal tg2 Rai della sera che il 15 novembre dello scorso anno ne ha trattato ampiamente e ciò non mi sembra da sottovalutare o da tenere in poco conto come taluni gendarmi di una memoria ormai obsoleta vorrebbero fare.
Ciò premesso, non mi soffermo sui fatti di cui per sommi capi quasi tutti sono al corrente e passo ad analizzare la questione della responsabilità che si vuole addossare ad una Medaglia d’Oro del nostro Esercito senza che, purtroppo, da quest’ultimo si sia levata, forte e chiara, una voce a difenderne la memoria oltraggiata dall’accusa più infamante per un militare: quella di tradimento.
Sissignori, ho detto e ripeto che il gen. Gandin, primo dei 136 ufficiali massacrati nell’infame rappresaglia, è accusato da qualcuno – assolutamente minoritario ma al quale però alcuni media in cerca di scoop hanno dato immeritato risalto – di aver addirittura tradito, trescando con i Tedeschi, i propri uomini provocandone – dopo la resa – l’eccidio quasi totale: ciò per aver scritto loro, il 14 settembre, di non poter attuare gli accordi per la cessione delle artiglierie e delle armi pesanti conclusi in osservanza dell’ordine del Comando dell’XI^ Armata italiana (cui tra l’altro le altre dipendenti Divisioni – meno la Pinerolo che finì massacrata dai partigiani comunisti greci – prontamente obbedirono), poiché la Acqui era restia a radunarsi nella zona di Sami per un successivo trasferimento concordato tra le parti.
Da tale lettera, rinvenuta nell’Archivio militare tedesco di Friburgo ma agevolmente leggibile nell’ Ufficio Storico Esercito di Roma, il qualcuno di cui sopra ha tratto la conclusione che Gandin abbia rivelato al nemico un segreto militare e cioè che la Divisione era in uno stato di rivolta, con ciò scatenando l’ira di Hitler che emanò uno specifico ordine (Sonderbefehl) di fucilare anche i soldati come rei di ammutinamento.
Questa tesi è del tutto infondata poiché Gandin non rivelò ai Tedeschi nulla che già non sapessero in quanto Italiani e Tedeschi erano stati frammischiati fino al 14 settembre e a questi ultimi non era certo sfuggita – a meno di ritenerli dei ritardati mentali – la sedizione che montava nella Divisione dove alcuni militari – aizzati da pochi ufficiali in sottordine – si resero autori di plateali atti di rivolta come il lancio di una bomba contro l’auto di Gandin compiuto da un carabiniere e addirittura dell’uccisione del cap. Pietro Gazzetti per mano di un M.llo della nostra Marina nella piazza di Argostoli da dove il poveretto venne inutilmente trasportato al vicino Ospedale addirittura da un motociclista tedesco. Il maresciallo – riferì il cappellano Formato – voleva che il capitano gli consegnasse il camion con cui stava adempiendo a un compito umanitario per ordine di Gandin, e all’ovvio rifiuto gli sparò gridando “Anche voi appartenete alla schiera vigliacca dei traditori!”, con chiaro riferimento al Comando di Divisione che da giorni trattava con i Tedeschi proprio per evitare la tragedia poi avvenuta.
Un cenno meritano anche le cannonate sparate dalla nostra artiglieria all’alba del 13 settembre – per autonoma iniziativa di tre comandanti di batteria – contro due motozattere tedesche in avvicinamento ad Argostoli le quali, vistesi prese di mira, lanciarono addirittura in aria razzi colorati per farsi riconoscere, mai pensando che in periodo di tregua gli Italiani si comportassero in tal modo.
Nell’occasione i Tedeschi subirono 5 morti, che indubbiamente pesarono sul loro crudele comportamento successivo, su cui certamente influì anche la rabbia per l’uccisione di un loro capitano del Genio durante l’attacco ad una casermetta compiuto subito dopo da alcuni artiglieri capeggiati dal ten. Apollonio, uno degli sparatori del mattino.
Del resto – è stato testimoniato da più parti ed è comunque notorio – si cercava da parte di alcuni esagitati- il “fattaccio compiuto” per far interrompere in modo definitivo le trattative intese ad evitare spargimento di sangue tra noi ed i tedeschi.
Di fronte a tale quadro c’è da chiedersi come si possa ragionevolmente sostenere che il gen. Gandin abbia rivelato ai Tedeschi chissà quale segreto militare, dal momento che essi erano perfettamente al corrente della situazione in continuo peggioramento e il loro comandante t. col. Barge ne informava in continuazione i propri Superiori.
E’ evidente quindi che l’ordine di Hitler di ‘non fare prigionieri’ (poi sostanzialmente disatteso per quanto riguardò la truppa) fu dato non sulla base della lettera di Gandin ma di tutti gli atti che precedettero lo scontro compiuti da una parte assolutamente minoritaria dei militari della Divisione.
Ciò consentì ai Tedeschi di agire – prima e dopo la nostra resa – facendosi addirittura forti, in assenza di una nostra dichiarazione di guerra – che presentammo solo il 13 ottobre successivo – delle Convenzioni Internazionali che consideravano ‘partigiani’ o ‘franchi tiratori’, e quindi passibili di fucilazione immediata, i soggetti che imbracciano armi senza avere la qualità di combattenti regolari: e proprio per tal motivo il 29 settembre ’43 durante un incontro nelle acque di Malta tra i nostri responsabili Badoglio ed Ambrosio e il gen. Eisenhower quest’ultimo sollecitò i predetti a dichiarare al più presto guerra ai Tedeschi onde evitare fucilazioni indiscriminate di nostri militari caduti nelle loro mani dopo l’armistizio.
A tali circostanze, più che sufficienti ad escludere l’insensata accusa di tradimento mossa a Gandin, fanno riscontro le elucubrazioni del qualcuno di prima (per chi non lo sappia il sedicente “ricercatore” Paolo Paoletti) il quale, assolutamente digiuno di regolamenti e di diritto penale militare, si è arrogato nei suoi scritti il diritto di stabilire come doveva comportarsi il gen. Gandin; senza tener conto che gli ordini di un Comandante, specie di una Grande Unità come la Acqui, dovevano essere eseguiti senza spiegare ai dipendenti – nessuno escluso – l’iter formativo degli stessi, a norma del Regolamento di Disciplina secondo cui l’obbedienza deve essere “pronta, rispettosa ed assoluta”.
In altri termini Gandin nell’ordinare ai suoi sottoposti di raccogliersi nella zona di Sami per il successivo rientro in Italia – come i Tedeschi, mentendo, gli avevano assicurato – non era tenuto a dare spiegazioni a chicchessia se non ai propri Superiori. A riprova della giustezza di ciò, tutti gli ufficiali di carriera compreso il col. Romagnoli comandante dell’artiglieria – falsamente inserito tra gli ufficiali ‘ribelli’ – erano pronti ad eseguire l’ordine, ben consapevoli delle spiacevoli conseguenze che un eventuale rifiuto d’obbedienza avrebbe comportato.
Malgrado ciò il ‘ricercatore’ di cui sopra, nelle vesti di un improbabile Pubblico Ministero, rivolge a Gandin l’accusa di “tradimento” perché dopo aver rivelato ai Tedeschi ciò che forse essi sapevano meglio di lui ordinò ai suoi uomini di raccogliersi a Sami, ben sapendo – egli sostiene – di non adempiere all’ordine del Comando Supremo di considerare i Tedeschi ‘come nemici’.
Ma proprio su questo punto la tesi crolla, poiché se un giudizio sotto il profilo morale sul comportamento di Gandin può essere sempre espresso da chiunque anche dopo 60 anni (come fa del resto egli stesso, sotto il profilo giuridico si deve osservare che tale ordine era insindacabile da parte dei suoi subordinati e gli unici a potersi pronunciare sulla sua rispondenza alle leggi e ai regolamenti militari erano, al momento, esclusivamente i suoi Superiori.
Da ciò consegue che – a guerra finita – qualora non fosse avvenuta la tragedia il gen. Gandin avrebbe potuto essere processato per il reato di “Inosservanza di un ordine” da un Tribunale Militare, ma i suoi giudici sarebbero stati quelli previsti dalla legge e non dei militari da lui dipendenti arrogatisi con la violenza, le minacce e l’insubordinazione il diritto di stabilire cosa dovesse fare il loro Comandante.
Questo sì che è inaudito; ed ancor più lo è il credito da taluni conferito alle sballatissime tesi sopra accennate mostrando di essere completamente digiuni oltre che di leggi e regolamenti militari anche della benché minima conoscenza dei fatti avvenuti all’epoca e nell’immediato dopoguerra, quando alcuni ufficiali generali che – in circostanze analoghe – non tennero in conto il suddetto ordine di Brindisi e nel dopoguerra vennero processati e tutti assolti.
Ecco quanto scrisse al dr. Roberto Triolo, un magistrato di Genova padre di un s. ten. della GdF Lelio –fucilato il 25 settembre 1943 con mio Padre- e promotore dei processi contro gli autori della rivolta contro Gandin, il gen. Antonio Basso:
“Roma 15 ottobre 1946 Egregio dottore…Anche io, in Sardegna, ebbi in quei tristi giorni dai Superiori dello Stato maggiore rifugiati in Brindisi, ordini feroci di azioni contro i Tedeschi, ordini ineseguibili che avrebbero portato a gravissime conseguenze per le mie truppe. Ebbi anch’io degli illusi e dei ribelli che volevano forzarmi la mano ma potei resistere e domarli, ottenendo in otto giorni la completa liberazione dell’isola. Ebbene, per questo, nell’ottobre 1944 fui arrestato per “Mancata esecuzione di ordini” (art. 100 cod. pen. mil. di guerra: fucilazione!), tenuto due anni in carcere in attesa di un processo volutamente ritardato e finalmente svolto nel giugno 1946, col palese risultato sancito nella Sentenza che non avrei potuto agire meglio nell’interesse del Paese. F. to gen. Antonio Basso”.
Analogamente si espressero i generali Vercellino e Castagna, anch’essi assolti con formula piena da ogni imputazione.
Concludo sul punto riportando le eloquenti parole del dr. Triolo contenute nella sua terza denunzia (del 23 agosto 1946) in cui – riferendosi alla testimonianza resa dal Maresciallo Giovanni Messe -futuro deputato monarchico nel dopoguerra- in occasione dei processi ai generali Basso e Castagna – egli scrisse: “Ora mi è piaciuto apprendere da persona amica che tale mia opinione di profano di cose militari è condivisa da un competentissimo, nientemeno che dal Maresciallo Messe, come si rileva indirettamente dalla testimonianza da lui resa nel processo a carico dei generali Basso e Castagna, alla assoluzione dei quali “perché il fatto loro ascritto non costituisce reato” ha fatto seguito subito dopo quella del gen. Dalmazzo. Leggesi infatti sul “Corriere del Popolo” di Genova del 27 giugno u.s. quanto segue: ‘Al processo contro i generali Basso e Castagna ha deposto stamane il gen. Messe, che ha descritto la vera situazione della Sardegna (e che, non foss’ altro per essere territorio nazionale, doveva essere ben diversa da quella di Cefalonia) alla data dell’armistizio, criticando le direttive di Brindisi come non attuabili in riferimento alle condizioni locali. Ha soggiunto che se il gen. Basso avesse potuto attaccare il combattimento avrebbe avuto molto probabilmente [a Cefalonia, aggiungo io, sicurissimamente] esito sfavorevole, ed ha concluso – per ciò che riguarda il Basso – approvandone l’operato. Quanto al Castagna, ha riconosciuto che la situazione delle truppe del XXX° Corpo d’Armata non consigliava di attaccare’.
In relazione a quest’ultimo punto, quale situazione peggiore di quella in cui si trovava l’8 settembre la Divisione Acqui, completamente isolata, senza un solo velivolo, senza una sola nave, con alle spalle 350.000 Tedeschi allenati, forniti di mezzi da trasporto, di ogni specie di armamento e soprattutto di Stukas, inferociti dall’armistizio?”
Alla luce di quanto sopra nulla resta, dunque, delle infami accuse contro il gen. Gandin se non che egli fu un Martire predestinato e addirittura consapevole, come evidenziato dal rifiuto che egli oppose ai Tedeschi di recarsi a Vienna per conferire con Mussolini appena liberato, (con un aereo tenuto invano a sua disposizione per l’intera giornata del 13 settembre), per cui dinanzi al suo netto diniego essi dovettero comunicare ai loro superiori che il ‘traditore’ (dei Tedeschi evidentemente, non dei suoi subordinati) Gandin si rifiutava di abbandonare la sua Divisione preferendo – aggiungo io – restare a condividere la sorte dei suoi uomini ed a morire eventualmente con essi come poi avvenne.
Credo che quanto ho detto basti a rievocare nella giusta luce chi, per il Martirio che – da più parti – dovette subire, fu meritatamente decorato della massima onorificenza militare.
Un’ultima considerazione, per finire, sulle cifre della vicenda che come ho detto in apertura furono – per fortuna – assai meno catastrofiche di quanto si è fino ad oggi narrato.
Di esse ho ampiamente trattato nel mio citato libro “I Caduti di Cefalonia: fine di un mito” cui mi riporto integralmente ribadendo quanto in esso ho scritto nella consapevolezza di aver compiuto per intero quanto la mia coscienza reclamava ch’io facessi.
Mi limiterò a far presente che i Tabulati contenenti i nomi dei Caduti, le circostanze e il luogo della morte, furono trasmessi all’Ufficio Storico dell’Esercito dalla Direzione Generale Leva del Ministero Difesa addirittura nel 1992, rimanendo lettera morta fino al 2006 poiché evidentemente il loro contenuto smentiva le enormi dimensioni della vicenda e mal si accordava con l’aspetto mitologico ad essa conseguentemente conferito fin dal suo verificarsi. Detto “Elenco dei Caduti della Divisione Acqui e Reparti Aggregati durante la guerra 1940-45” è stato da me analizzato con l’ausilio di riscontri di ogni genere e le conclusioni cui sono giunto, se da un lato smentiscono l’aspetto mitologico dall’altro arrecano sollievo per il limitato numero di Vittime che si verificarono.
Per finire contravvenendo a quanto mi ero ripromesso, non posso non accennare alle cifre dei Caduti tedeschi in tutta la campagna di Cefalonia: esse risultano -come da inoppugnabili risultati di studiosi della materia- incredibilmente basse e comunque non superiori al centinaio e, di recente, sono state addirittura quantificate nella INCREDIBILE misura di 40 morti a seguito delle risultanze provenienti dagli Archivi militari germanici. Non avrei voluto farne menzione perchè dal loro confronto con quelle italiane che, con la massima improntitudine, CONTINUANO AD ESSERE DIVULGATE NELLA MISURA DI 9/10.000, i nostri soldati o meglio il loro spirito combattivo uscirebbe totalmente ridimensionato al punto da far ritenere che se avessero combattuto con archi e frecce avrebbero senz'altro causato maggiori perdite ai tedeschi.
Naturalmente non fu così poichè chi pagò le conseguenze del dissennato ORDINE DI RESISTERE inviato al malcapitato Gandin furono, oltre ai Caduti nei combattimenti (circa 1300), gli Ufficiali contro DOPO LA RESA cui si abbattè la vile rappresaglia tedesca al cui verificarsi più che l'Ordine di Resistere su menzionato diede un notevole impulso il comportamento da Corte Marziale degli ufficiali che aprirono il fuoco -A TRADIMENTO- contro i tedeschi come i capitani Pampaloni ed Apollonio i quali -ironia della sorte- scampati alla vendetta tedesca collaborarono il primo con i partigiani comunisti greci ed il secondo -incredibile a dirsi- con gli stessi tedeschi che pochi giorni prima avevano massacrato i suoi colleghi ANCHE per sua responsabilità. Ma ciò sembra non essere gradito ai cultori della vulgata catastrofica fino ad oggi in auge. Me ne dispiaccio ma non posso farci niente. La storia, quella vera, ha la precedenza sulle ricostruzioni di fantasia e sui miti inesistenti e, soprattutto in essa c’è qualcosa di veramente rivoluzionario -come intuì mirabilmente Gramsci- ed è la Verità, quella, appunto, che ho cercato di illustrare.
Spero di esserci riuscito.
Grazie
Massimo Filippini
24 settembre 2008