Fini e il fascismo

Si può, in Italia, essere democratici senza essere antifascisti?

di Paolo Bagnoli *)

Le recenti dichiarazioni di Gianfranco Fini sul fascismo salotino in risposta a quanto dichiarato da Gianni Alemanno ed Ignazio La Russa, al di là del merito della partita apertasi all’interno della destra un tempo missina, pongono una questione di notevole rilevanza su cui occorre porre attenzione. La questione in oggetto è la seguente: si può, in Italia, essere democratici senza essere antifascisti? Naturalmente, per noi, no; ma mentre Fini, le cui affermazioni peraltro non sono state niente di eclatante avendo richiamato i valori della Costituzione definendoli “antifascisti” e, quindi, è per via indiretta che ha collegato la Carta della Repubblica all’antifascismo. Visto, tuttavia, qual è il dibattito nel suo partito si tratta, sicuramente, di un atto che riveste un significato politico da non trascurare. Infatti, sia Alemanno che La Russa ritengono che per essere democratici non occorra il presupposto dell’antifascismo.
L’intento dei due è chiaro: fascismo ed antifascismo hanno pari dignità storica, morale, culturale e civile; si può essere fedeli alla Costituzione, e quindi democratici, senza dover passare per l’antifascismo. Ergo: della Costituzione, e quindi della democrazia italiana, si deve dare una lettura “afascista”. Non solo, ma Alemanno propone che nella Costituzione vi sia anche l’anticomunismo: trattandosi di una furbesca scemenza è anche difficile dare una risposta seria. Non è un caso che la vedova di Giorgio Almirante abbia ricordato come suo marito “diceva sempre: non rinnegare e non restaurare. ”Ed il sindaco di Roma ed il ministro della difesa non vogliono rinnegare, là dove Fini sembra, invece, intenzionato a recidere una volta per tutte i legami tra Salò ed il suo partito. A fronte della bacchettata ricevuta sulle mani i due hanno imbastito goffe ed imbarazzate correzioni che non hanno corretto niente: il problema è ancora lì, sul tavolo della politica e su quello della storia e che – ma il solo doverlo ricordare è fastidioso – il passato non passa mai, per niente e per nessuno. Rispetto ad esso, tuttavia, si possono cambiare i giudizi e l’atteggiarsi, ma ciò che è stato non può cambiare.
Dentro la ratio profonda e genetica del passato che non passa sta l’insopprimibile motivo politico delle radici antifasciste della democrazia italiana. Se questo passato dovesse passare ciò significherebbe che avremmo un’Italia senza ragione di riconoscere come antifascisti quei motivi che Fini ha additato caratterizzanti come tali la Costituzione repubblicana. Vorrebbe dire disperdere il senso della Repubblica, di questa Repubblica che rappresenta, anche per la lunga coeva stagione di miseria della politica, la conquista civile più alta e moderna che l’Italia abbia realizzato nella sua storia dopo il Risorgimento; ma, possiamo dire, una conquista per molti aspetti di ben altro significato rispetto a quello, di grande rilevanza s’intende, rappresentato dall’unità ed indipendenza nazionale, perché dalla soluzione sabauda nacque il fascismo, dalla caduta del fascismo e dalla cacciata della monarchia, è nata la democrazia e quindi un popolo finalmente sovrano.
Con la Repubblica l’Italia ha agguantato quella modernità che, nonostante tutte le gobbe del Paese, le ha permesso di crescere, svilupparsi, diventare europea; essere ciò che prima non era mai riuscita ad essere. E certo che non sono mancati i momenti difficili – solo alcuni riferimenti: la discriminazione politica e religiosa, i tentativi di colpo di Stato, il terrorismo assassino, l’aspro disagio meridionale – ed oggi questi continuano solo si pensi alla forza sul territorio della malavita organizzata ed agli attacchi di cui è oggetto lo Stato laico, ma ciò è consegnato, come ogni altra questione legalitaria, economica o civile che sia, alla lotta politica ed alla capacità dei soggetti della politica democratica di essere all’altezza del loro compito. La loro endemica debolezza mette certo a rischio la capacità di tenuta della Repubblica di cui il fenomeno Berlusconi costituisce il marchio certificante; una crisi che lascia intravedere già il percorso di un processo che un eventuale passaggio dall’antifascismo all’afascismo agevolerebbe, ossia la nascita di una “repubblica presidenziale” di profilo populista e mediatico. Vale a dire l’esatto contrario del fondamento, appunto antifascista, della Repubblica nata dalla Resistenza.
Non è quindi vero che, almeno in Italia, si possa essere democratici, ma non antifascisti. Può essere vero il contrario; diciamolo con un paradosso volutamente provocatorio: le Brigate Rosse erano e sono certamente antifasciste, ma non democratiche!Comunque nel costituendo nuovo partito della destra che nasce intorno a Berlusconi, La Russa ed Alemanno potranno gloriare con il presidente del consiglio quanto fatto da Italo Balbo in Libia – già, ma allora perché, è stato promesso a Gheddafi un assegno risarcitorio tanto grande? – e, nella maggioranza governativa, trovarsi in buone e cordiali relazioni con la nipote del duce e Mario Borghezio che non ha perso l’occasione per difendere la Rsi.
Vedremo come andrà a finire, ma la vicenda non ci sembra al termine. Perché, magari, non attendersi anche un nuovo libro da Giampaolo Pansa?
Qualcuno storicamente autorevole ha, intanto, già detto la sua. Il professor Roberto Vivarelli (“La Stampa, 9 settembre 2008), autore qualche anno orsono di un libretto critico-memorialistico, in cui rivendicava la scelta di Salò che compì in età giovanissima incoronandola di senso dell’onore e di amore verso la patria, ha rilanciato la propria tesi: il rispetto verso coloro che aderirono alla chiamata repubblicana di Mussolini in buona fede e che non si sono macchiati di episodi criminali personali. Il problema, tuttavia, non è questo: è il giudizio storico-politico su cosa ha rappresentato Salò, cosa ha prodotto e quale idea d’Italia fosse al servizio. E’ questo giudizio che vorremmo sentire: in fondo anche Fini non lo ha espresso in maniera esplicita pur se è oggettivo riconoscergli un cammino significativo. Il presidente della Camera potrebbe affermarlo, al limite, anche senza parole andando a rendere omaggio alla bandiera del CVL decorata di medaglia d’oro al valor militare in memoria di tutti coloro che sono caduti nella lotta al nazifascismo. Il ragionamento che il professor Vivarelli ripropone di Salò con come “epitome del fascismo ma suo epifenomeno” convince fino ad un certo punto; può essere o non essere così, i giudizi sono liberi ed egli ha sicuramente ragione quando afferma che il fascismo non nasce con l’8 settembre e che “dietro c’è la responsabilità di quasi l’intera comunità nazionale”; ma ci pare giustificativo ed auto assolutorio affermare che il “trauma dell’8 settembre riguarda una certa tradizione italiana per cui il valore da difendere era molto più una certa idea di fedeltà alla patria, che non il fascismo in se stesso. ” Guarda caso, però, che qualcuno ci dovrebbe dimostrare come si poteva andare a Salò prescindendo dal fascismo. Il professor Vivarelli porta l’esempio di Valerio Borghese, “mai stato fascista”; ebbene, se così è, non perse l’occasione per rifarsi!
Il tempo dirà come le cose evolveranno, ma riteniamo che a Fini non basti più bacchettare; ora deve accelerare il passo se non vuole che i fantasmi in camicia nera continuino ad inseguirlo. Essendo un praticante del diving dovrebbe avere i polmoni capaci di resistere.

*) Ordinario Dottrine Politiche all'Università di Firenze, direttore dell'Istituto Storico della Resistenza in Toscana, già senatore della Repubblica nelle fila del PSI

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