di Giovanni Longu
Trovo stupefacenti le dichiarazioni di numerosi politici che si sono espressi recentemente sul voto agli immigrati in Italia. Capisco l’opposizione della Lega Nord da quando Umberto Bossi avvertiva che «cosche malavitose extracomunitarie stanno trasformando l’Italia in un grande bordello». Ma le altre forze politiche no!
La Lega era pronta al ricatto fin da quando Gianfranco Fini nel 2003 aveva non già proposto di concedere il diritto di voto agli stranieri, ma semplicemente di discuterne: «I tempi sono maturi, aveva detto da vicepresidente del Consiglio, per discutere del diritto di voto amministrativo per immigrati che vivono, lavorano, pagano le tasse in Italia e hanno ottenuto la carta di soggiorno. […] Integrazione significa parità di diritti e di doveri ed è un obiettivo che il Governo di centrodestra ha sempre tenuto presente insieme a quello della legalità, del giusto rigore verso i clandestini. Spero che la Lega dimostri di esserne cosciente: non avere la nazionalità italiana non può voler dire essere cittadini di serie B…». Per tutta risposta la Lega ribatté: «Se Fini insiste, il governo va a casa».
La Lega resta intransigente e Bossi, divenuto nel frattempo influente ministro della Repubblica, considera dal suo punto di vista il diritto di voto agli immigrati una follia, qualcosa che non s’ha da fare in alcun modo. Tenta con una logica un po’ strampalata di argomentare («La legge è chiara, solo i cittadini italiani possono votare; gli immigrati senza cittadinanza non possono […] e nemmeno il voto amministrativo è possibile perché prima bisognerebbe cambiare la legge») ma non argomenta perché non si possa cambiare la legge e addirittura non se ne possa nemmeno discutere.
In realtà Bossi un argomento ce l’ha e pericoloso a tal punto da indurre lo stesso Berlusconi a bloccare la discussione con un pretesto più che un argomento: il diritto di voto agli stranieri «non è nel nostro programma» né un intervento di legge in merito è all’ordine del giorno in Parlamento. Ma qual è l’argomento di Bossi e della Lega? Il più semplice e apparentemente più democratico che ci sia: «Lasciamo che la gente decida, magari con un referendum e vedrete come risponderà. La gente vuole comandare a casa sua».
Sembra di sentire, sia pure in un contesto assai diverso, alcuni esponenti della destra populista svizzera da sempre schierata contro il diritto di voto degli stranieri, persino di quelli della seconda e terza generazione. Anch’essi, a corto di argomenti, ogniqualvolta se ne presenta l’occasione ricorrono facilmente alla minaccia del referendum, puntando sulla paura dei cittadini nei confronti di presunti o potenziali criminali e presunti o potenziali usurpatori del diritto di «comandare a casa propria».
Quel che è strano è che, gli stessi argomenti o meglio gli stessi richiami alla paura dell’invasione degli stranieri e la sollecitazione di una sorta di orgoglio nazionale nella difesa delle proprie tradizioni e dei propri diritti lo dicevano qui in Svizzera anche cento anni fa quanti cercavano di opporti a quella legge naturale che spinge i poveri a cercare la sopravvivenza dove c’è il benessere. Con la differenza, tuttavia, che allora c’erano anche coloro che obiettavano che il benessere si alimenta pure col contributo degli stranieri e questi è preferibile averli come concittadini che come perennemente estranei (stranieri). Queste persone, soprattutto intellettuali e politici illuminati, erano persino arrivate, nel 1903, a far approvare una legge che consentiva ai Cantoni svizzeri di concedere agli stranieri addirittura la cittadinanza in maniera molto facilitata e persino automatica a chi nasceva in territorio svizzero.
Altri tempi, si dirà, tanto è vero che quella legge venne in seguito modificata. Ma nulla vieta che, in Svizzera come in Italia, si possa discutere serenamente della questione, tenendo conto anche di qualche buon argomento di allora. Perché non chiedersi se sia più conveniente tentare, faticosamente, di amministrare una massa crescente di stranieri (estranei) oppure legiferare e responsabilizzare «stranieri» solo sulla carta (perché da lungo tempo residenti e integrati nel tessuto sociale) magari facilitandone la naturalizzazione e comunque dando loro la possibilità di votare e contare almeno sulle questioni amministrative?
Probabilmente la soluzione del problema non sta nel concedere tutto o niente, ma nel concedere almeno qualcosa, cominciando magari dalla partecipazione all’elezione dei consigli di quartiere e dei consigli comunali. La politica dei piccoli passi in questo campo potrebbe dare migliori risultati in Italia che in Svizzera.
Come primo passo andrebbe in ogni caso distinto chiaramente il voto amministrativo, attivo e passivo, dal voto politico. Che la distinzione e la separazione siano possibili lo dimostra la realtà svizzera dove gli stranieri non possono votare a livello federale, ma possono esercitare il diritto di voto attivo in alcuni Cantoni e in numerosi Comuni, in alcuni dei quali possono anche essere eletti. Per chi osserva la questione italiana dalla Svizzera non è pertanto condivisibile né la posizione della Lega, né la reazione di alcuni esponenti dell’UDC italiana secondo cui «è improponibile il diritto di voto agli immigrati slegato dalla cittadinanza», né il rifiuto del Partito della libertà (Pdl) di entrare in materia perché l’argomento non figura nel programma.
Nella stessa ottica, tuttavia, anche la proposta Veltroni (per quanto è possibile desumere dalla stampa quotidiana) di concedere «il diritto di voto alle amministrative per eleggere sindaci e presidenti di Provincia e Regione» appare inadeguata e contraddittoria. Un conto infatti è il voto attivo (o anche passivo) per le amministrative locali e un altro il voto politico. Non so se l’elezione provinciale e soprattutto quella regionale può essere considerata puramente amministrativa, soprattutto se il diritto di voto è inteso sia attivo che passivo.
Trovo invece del tutto condivisibile quanto ha scritto Veltroni nella sua recente lettera indirizzata al Presidente della Camere Fini: «Non è più tempo di pregiudizi dettati da ideologie o da semplificazioni» e occorre impedire «il diffondersi di un virus pericoloso, nocivo socialmente, fatto di intolleranza, di pulsioni xenofobe, chiusura, ostilità, fino alla tentazione aberrante del farsi giustizia da sé».
Liquidare la questione risollevata da Veltroni e Fini col fatto che non figura nel programma di governo dell’attuale maggioranza non mi pare un buon argomento. Un programma si può sempre migliorare e integrare. Del resto, come osserva Gianfranco Rotondi (Pdl), «solo una politica responsabile e che non fa polemiche speciose può trovare dei punti di confronto seri e non strumentali su temi delicati come quello del voto agli immigrati». Probabilmente, affrontato in modo pacato e adeguato, il tema del voto agli immigrati indurrebbe a migliori consigli anche la Lega di Bossi.