LA FELICITA’ DEI PRECARI

La nostra felicità non dipende soltanto
dalle gioie attuali ma anche dalle nostre
speranze e dai nostri ricordi.
Émilie du Châtelet,

Esercitare liberamente il proprio ingegno: ecco la vera felicità
Aristotele

Bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro che per dare l’esempio
Jacques Prevert

Vi racconto una storia. Piccola ma vera. Di quelle che non arrivano sulle pagine dei giornali ma costituiscono il nostro quotidiano. Una storia che parla di giovani e d’amore, o meglio, del diritto di ognuno a tentare di essere felice. Federica ha 29 anni. Da poco ha rotto con il fidanzato, con cui stava da dieci. Le amiche le dicono quello che si dice sempre in questi casi «chiusa una porta, si apre un portone», pensando, però, che spesso un porta chiusa porta con sé solo una musata. Il nervosismo di Federica dipende dal cuore, ma affonda le radici in tutt’altro concetto, che con il cuore condivide solo l’iniziale: il contratto. Federica non ha un lavoro fisso. Il fidanzato sì. Questa disparità la fa sentire “ospite” nella sua stessa vita, costretta ad appoggiarsi ad altri per ogni esigenza. Nello stesso periodo, Marcello, 28 anni, stagista in un ufficio di provincia, ha il primo contratto. Senza mandare un curriculum vitae. A dire il vero, senza cercare lavoro. Almeno, non personalmente. Il padre, uomo dai molti “agganci”, ha provveduto a tutto. Così Marcello, da un giorno all’altro, si è ritrovato alla scrivania di una nota azienda della Capitale con un contratto tagliato su misura per lui.
O quasi. Perché per quel posto, come per ogni posto, c’era una fila di candidati, tutti con più professionalità e anzianità, ma senza agganci. In particolare, quel posto era stato promesso a Celeste, 30 anni – due più di lui – , una storia che dura da quattro e cinque anni di apprezzatissimo lavoro in quella stessa azienda. Poi ci sono Serena, 40 anni, Andrea, 34, e Laura, 31, tutti con titolo di studio, riconosciuta professionalità e senza lavoro fisso. O forse dovremmo dire afflitti dalla virtù tanto decantata della “mobilità”: oggi lavori, domani non si sa, più mobili di così! Serena è in attesa della “promozione” al contratto a tempo indeterminato, Andrea, eterno praticante, aspetta di vedere il primo stipendio che possa definirsi tale e Laura non sa cosa succederà alla fine del contratto a progetto. In un anno, le cose possono cambiare.
E in effetti cambiano. Federica trova un nuovo lavoro, dove è apprezzata ma non assunta. Anzi. L’azienda, tanto importante da sembrare “sicura”, ad un certo punto, mette alla porta la quasi totalità degli impiegati senza preavviso, a meno che non si possa giudicare tale la frase «sta salendo il commercialista» conclusa mentre suona il citofono. Insieme a lei viene licenziata Serena, ufficiosamente “vice” da anni del capo, quello stesso che non si è preso neanche la briga di avvertirla di quanto stava accadendo. Con un minimo di tempo ti puoi organizzare o almeno hai modo di metabolizzare il colpo, ma così… Serena si è sposata – lui ha un lavoro vero – e ha messo da parte, con dolore, le ambizioni professionali, almeno ufficialmente.
Quando rimane sola, si domanda: «Dove vado alla mia età?». Perché a quarant’anni è troppo qualificata per le offerte di lavoro che fa il mercato e ha troppe poche raccomandazioni per quelle che meriterebbe. Federica è tornata sui suoi passi, sostenuta da un destino generoso che le ha concesso di riparare agli errori: si è sposata con l’ex. Perché lui era quello giusto dall’inizio, era il lavoro a essere sbagliato. Dopo un anno, può accettare di essere “gregaria” perché non vuole più aspettare, dice, per essere felice. Anche Marcello si è sposato, percorso obbligato: lavoro, matrimonio e presto figli. Non si è fatto domande. Ed ora si trova incastrato in una vita che non gli appartiene. Con un lavoro che non gli piace e un matrimonio che gli va stretto, continua a sperare e intanto sfoglia l’agenda di papà. Celeste non ha il contratto e neanche la sua storia: precario anche lui, con dieci anni di più, non era facile vivere un rapporto senza conoscerne le prospettive. Se glielo chiedi ti risponde che sì, forse, con la possibilità di costruire qualcosa, la storia sarebbe andata diversamente. Ma la possibilità non c’è. E non si vede neppure da lontano.
Andrea vive a casa con i suoi, perché lo stipendio vero non è arrivato e confessa: «C’è stato un periodo della mia vita, in cui se avessi avuto le disponibilità, mi sarei fatto una famiglia. Ora non ci credo più». «Pensavo mi sarei sposata a 25 anni, avevo il fidanzato ma non il lavoro – racconta Laura –. Volevo un figlio a 32. Ora che li ho compiuti, non ho un lavoro, non ho un figlio, non sono fidanzata. Ho imparato che non devo fare progetti, tanto non si realizzano». Ognuno è artefice della propria fortuna e il fato ci mette del suo. Sulla felicità dei precari, a dire l’ultima parola, però, è il datore di lavoro. Ma nei contratti di collaborazione o a progetto, la voce “felicità” non compare. Mai. Strano, perché la nostra costituzione all’articolo 3 tutela “il pieno sviluppo della persona umana”. Con esso, quindi, anche il diritto alla felicità. Sulla carta. La “mobilità” è una regola dettata dal mercato, dice chi ha il potere di determinarlo. In realtà, voluta dai mercanti, come sa ogni precario. E forse sarebbe davvero ora di cacciare i mercanti dal tempio… Ma questa è un’altra storia.

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