di Marco Lombardi
A margine dell’articolo sull’Italia dei divieti pubblicato dall’Independent
L’articolo sull’Italia dei divieti pubblicato dall’Independent invita a guardarci allo specchio. Bastano infatti poche norme campione citate dai recenti regolamenti comunali in materia di ordine pubblico, ad offrire lo spaccato di un paese in piena crisi creativa. Solo la mancanza di creatività può eleggere a mezzo di governo una variopinta gamma di restrizioni comportamentali. Un pessimo albeggiare per la stagione del concreto decentramento dei poteri statali, che i leader delle grandi città sembrano affrontare schiacciati in partenza da nuove ed inedite responsabilità.
I governi locali, retti da una classe dirigente spesso in età avanzata – inclusi i giovani sindaci per lo più ostaggio delle vecchie oligarchie che li hanno partoriti -, si trovano a gestire sfide enormi in contesti incomprensibili per la loro formazione. Una carenza di adeguati mezzi culturali (e materiali) che può paralizzarli, spingerli a cercare certezze nel paterno richiamo del vincolo, del punire per educare. Ricorrere così al divieto in una concezione pedagogica della politica che guarda dall’alto in basso, generando forme asimmetriche di legalità che non toccano i potenti principi. Si sanziona chi non cede il posto agli anziani, non mangia parcamente nei luoghi pubblici, siede in modo scomposto sulle gradinate. Tutto ciò nella speranza di ottenere per legge ciò che le agenzie di socializzazione non riescono più a garantire: la buona educazione.
E’ vano lo sforzo del principe di ripristinare il civismo nei sudditi con il selvaggio ricorso al divieto, ma può essere comunque illusione che ne placa i sensi di colpa, gli rinvia esami di coscienza. Se per i sindaci di centro-destra e della lega si può parlare di ritorno a nostalgici tempi o di uso strumentale di colpi ad affetto, è soprattutto nel centro-sinistra che tale illusione attecchisce, nelle realtà urbane dove i cittadini tradiscono nei comportamenti le aspettative nobili del modello solidale socialista e cattolico. Qui i sindaci sentono di più i morsi di una colpa che li spinge a concludere, facilmente, di aver dispensato troppe carote e poche bastonate. Colpa fatta scivolare sulla testa degli educandi.
Torna la supremazia del frustino, con l’immediata schizofrenia di un paese che vieta tutto senza punire nessuno. Ancor più grigie le prospettive per uno Stato democratico che rinuncia alla funzione di promozione civica, sposando uno stile di sottrazione che allunga la lista delle ordinanze e taglia quella degli stanziamenti al sociale, alla scuola, alla cultura. Le nuove generazioni cresceranno assetate di una sicurezza esistenziale mal placata dal morso dei vincoli individuali, private del necessario sostegno materiale lungo quel percorso di emancipazione che si chiama libertà. Un percorso costellato di scontri e mediazioni con la dimensione adulta delle regole, che finirà per appiattirsi sulle mode e contro-mode e prevarrà il vincolo più forte: il divieto ad essere diversi.
Delle riflessioni che André Gidé riportò di ritorno dall’URSS impressiona la preoccupazione per il danno civico causato dall’abolizione del volontariato nel sistema di prestazioni sociali e dalla ferrea propaganda di Stato. Un danno grave per la gioventù sovietica, che Gidé trovava già allora incapace di produrre alternative di rinnovamento sociale. Era il 1936 e ci vollero i fatti del ’56 per capire la nocività di un sistema così rigido di intromissione pubblica nel privato, di solidarietà imposta per legge.
Dopo l’ondata di sguaiato liberismo degli anni ’80, assistiamo al ritorno di un modello per certi versi simile. Non è la prima volta che i gruppi al potere affrontano mutamenti sociali rafforzando la pressione dell’autorità pubblica sulla collettività, unendovi poi l’ideale del domani migliore ed un nemico chiaro. E’ l’intramontabile mito dei guardiani maschi che conducono la massa femminea, in un rapporto di forza bruta e caldi sentimenti di cui non si conservano che tristi ricordi.