Come realizzare il federalismo fiscale

MAURIZIO LEO

IL FEDERALISMO

FISCALE SPIEGATO

IN MODO SEMPLICE

Ciò che c’è da sapere per capire la grande

riforma di cui si parla

AGOSTO 2008

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Il federalismo fiscale spiegato in modo semplice

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Premessa

Probabilmente non è scorretto ritenere che il federalismo fiscale rappresenti

la “cifra della Legislatura”. Gli italiani si aspettano dall’attuale maggioranza una

gestione molto diversa della politica economica in generale e della politica fiscale più

in particolare. Non dobbiamo dimenticare, oggi, quello che sostenevamo solo pochi

mesi fa, nel corso della campagna elettorale. Abbiamo continuato a dire che

occorreva “non mettere le mani nelle tasche degli italiani”, che era necessario invece

ridurre il peso dello Stato nella vita dei cittadini abbassando le imposte che debbono

essere versate. L’obiettivo che dobbiamo perseguire, se vogliamo presentarci agli

elettori come una classe dirigente credibile, è quello della razionalizzazione della

macchina – Stato, della eliminazione delle Sue inefficienze. Solo in questo modo le

imposte potranno essere ridotte in maniera durevole e si potrà ridare slancio al Paese.

L’Italia, oggi, ha l’immagine di un Paese stanco, in cui i troppi veti, le innumerevoli

duplicazioni di responsabilità, la diffusa sensazione di una pressoché totale incapacità

a decidere costituiscono un enorme freno alla crescita. Purtroppo cresciamo troppo

poco e questa situazione continua da troppo tempo. Occorre cambiare marcia,

riducendo le imposte. È difficile scegliere di iniziare una nuova attività produttiva

quando si sa che, oltre alle complicazioni burocratiche, occorre lavorare per quasi la

metà dell’anno solo per soddisfare lo Stato. Oggi, nel nostro Paese, il tax rate (la

percentuale dei guadagni da versare allo Stato a titolo di varie imposte) è vicino al

50%. Questo è uno dei problemi principali che abbiamo, una delle ragioni per cui

non cresciamo da troppo tempo.

Ma che cosa c’entra il federalismo fiscale con tutto ciò? Il federalismo

fiscale c’entra, perché si tratta della prima riforma “a portata di mano” con cui sarà

possibile razionalizzare la struttura dello Stato. Infatti, la devolution fiscale (dopo sitornerà sul concetto di devolution e sulle sue differenze con una riforma in senso

federale della Costituzione) rappresenta, ad oggi, il passaggio fondamentale per poter

arrivare a una riduzione stabile delle imposte e, per questa via, a un rilancio

dell’economia italiana.

Il federalismo fiscale, come tutte le riforme “epocali”, fa paura. Spaventa chi

si sente privilegiato e pensa che, attraverso questa riforma, vengano pesantemente

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ridotte le proprie risorse disponibili; spaventa, però, anche i potenziali beneficiari che

non sono in grado di comprenderne la reale portata innovativa. Ebbene una sfida che

la politica deve necessariamente raccogliere è quella di “spiegare” il federalismo, di

far comprendere a tutti – anche ai più scettici – che una riforma della fiscalità in

senso autonomistico non è un modo per far contenta una parte del Paese o, peggio

ancora, una compagine politica, ma è una esigenza insopprimibile.

Sappiamo tutti della importanza di ridurre le tasse (appena ribadita, peraltro).

Tuttavia, il contesto macroeconomico di riferimento, da questo punto di vista, non è

confortante:

l’Italia, lo sappiamo tutti, cresce poco e probabilmente continuerà a

crescere poco;

l’economia mondiale, e quella statunitense in primis, sta affrontando

un periodo di crisi di cui è difficile prevedere la durata e la stessa

intensità.

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1. Il quadro macroeconomico di riferimento

Riepiloghiamo, quindi, il quadro macroeconomico che si profila.

Distingueremo tra:

1) il contesto italiano;

2) il contesto internazionale.

1.1 Italia

Forse non è tutta colpa del Governo Prodi – che pure ha fatto del suo

peggio! – ma l’economia italiana sta attraversando un momento difficile sia dal punto

di vista congiunturale che da quello strutturale. Nel corso degli ultimi trimestri, la

crescita economica in Italia ha mostrato una tendenza al graduale affievolimento. Il

PIL è cresciuto dello 0,5% rispetto al trimestre precedente e “solo” dello 0,3%

rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Inoltre, va segnalato che tale tenue

crescita è seguita a una preoccupante contrazione del prodotto interno (- 0,4%)

registrata negli ultimi tre messi del 2007 rispetto al trimestre precedente. Peraltro – e

questo è l’aspetto che più preoccupa – è rimasto invariato il differenziale “negativo”

tra quanto cresce il Nostro Paese e quanto, invece, cresce l’area euro.

Si stima che il PIL italiano crescerà, nel 2008, “solo” dello 0,5% (previsione

del DPEF).

Negli ultimi documenti ufficiali il Fondo Monetario Internazionale ha stimato,

per l’Italia, una crescita del prodotto interno dello 0,3%. L’OCSE, invece, stima

una crescita dello 0,5%.

Altra dinamica preoccupante è quella dei prezzi. Nel primo trimestre del

2008, infatti, è proseguito l’aumento dei prezzi al consumo per effetto, soprattutto e

quasi esclusivamente, delle pressioni esterne (e, quindi, di variabili quasi

completamente incontrollabili).

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L’ISTAT, nella rilevazione del mese di luglio, ha comunicato che

l’inflazione si è attestata al 4,1%.

1.2. Scenario internazionale

In effetti, le stime di crescita dell’economia italiana “al ribasso” dipendono

anche dallo scenario internazionale. La crisi c.d. dei mutui sub-prime si sta rivelando

più seria del previsto. È sempre più evidente che vi saranno impatti significativi, inprimis

, sull’economia statunitense ma anche sull’economia europea. Anche altrifattori, oltre che la crisi dei mutui sub – prime, incide sulla crescita dell’economia:

1. i forti rincari dei prodotti petroliferi e delle materie prime non

energetiche;

2. l’apprezzamento dell’euro nei confronti delle principali valute tra cui

essenzialmente il dollaro, che non favorisce le nostre esportazioni.

Peraltro, un’analisi seria della congiuntura internazionale non può non

considerare il fatto che, ad oggi, gli scenari appaiono profondamente “incerti”.

Infatti:

non è da escludere un rallentamento più rilevante dell’economia

statunitense, con evidenti conseguenze sull’economia globale e su

quella italiana;

è incerta la durata e l’ampiezza della crisi;

preoccupa la dinamica dei prezzi, soprattutto quella del greggio.

In particolare, con riferimento a quest’ultimo punto, non può tacersi del fatto

che un ulteriore significativo incremento del prezzo del petrolio (che alcuni dicono

potrebbe arrivare a costare 200$/barile, nonostante il rallentamento dell’ultimo

periodo) sarebbe fortemente negativo per l’economia, contraendo pesantemente la

crescita reale della stessa.

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1.3 I vincoli che abbiamo e il rilievo del federalismo

È questo il contesto macroeconomico con cui inevitabilmente

dobbiamo confrontarci. Il Partito Democratico contesta la mancata riduzione

delle tasse. Chi muove questa critica mente sapendo di mentire. Una

riduzione significativa della pressione fiscale non può aversi nel contesto dato.

È necessaria un’ampia rivisitazione dello Stato e della sua struttura.

Tale situazione macroeconomica rende sempre più difficile ridurre le

imposte. Infatti, l’Italia ha stringenti vincoli di bilancio pubblico da rispettare. Il fatto

che il Paese cresca poco comporta una sempre maggiore difficoltà al rispetto dei

predetti vincoli. Meno si cresce e, a parità di aliquote, meno lo Stato “raccoglie”.

Conseguentemente, il rischio è che si potrebbe essere costretti addirittura a

aumentare l’imposizione per rispettare i vincoli comunitari.

L’impegno fondamentale, assunto dal precedente Governo, è quello del

pareggio di bilancio da realizzare nel 2011. “Nel complesso la politica di bilancio dovrà

recuperare risorse per un ammontare che si stima tra i 20 e i 30 miliardi nel triennio 2009 –

2011” (Relazione Unificata sull’Economia e la Finanza Pubblica elaborata dal

Governo Prodi e presentata in Parlamento il 18 marzo 2008).

Importo, questo, peraltro incrementato, in base alla due diligence

predisposta dalla Ragioneria Generale dello Stato.

Ciò che significa ai fini pratici? Che il Governo deve necessariamente

procedere a una politica di risanamento della finanza pubblica. Il risanamento, però,

può essere realizzato o con correzioni dal lato della spesa o – diversamente – con

correzioni dal lato delle entrate. In via di estrema sintesi, i problemi di bilancio si

possono risolvere solo in due modi (tertium non datur):

1. tagliando le spese;

2. aumentando le imposte.

Ci pare che non si possa che scegliere di tagliare le spese, partendo proprio da

quelle inutili. Non possiamo pensare di aumentare il peso della pressione fiscale. Non

lo capirebbero gli elettori, ma, prima ancora, ciò sarebbe deleterio per l’economia.

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Una correzione dei conti tutta fatta sul lato delle entrate non fa altro che “deprimere”

ulteriormente e forse irreparabilmente l’economia italiana. È il peccato originario che

venne commesso dal centro-sinistra che, sì ci ha portato in Europa, ma che ha

lasciato intatta l’area degli sprechi. Per entrare in Europa, l’Italia ha fatto molti sforzi.

Tuttavia, le risorse sono state reperite quasi esclusivamente chiedendo soldi ai

cittadini (in pratica, più tasse), con la conseguenza che è stata depressa la capacità di

spesa e, quindi, anche i consumi.

Con il decreto fiscale che ha anticipato la manovra 2009 (approvato in

via definitiva nei primi giorni di agosto) si è inteso perseguire proprio tale

strada, cioè quella della riduzione della spese, senza aumentare le

imposte.

Il federalismo, in questo momento storico, ha una importanza

fondamentale. È la prima grande riforma “strutturale” che la Politica può e

deve mettere in campo. È il passaggio obbligato per permettere:

1. il rispetto degli impegni assunti; e

2. in una seconda fase, la riduzione delle imposte.

Il federalismo fiscale è così importante perché proprio grazie ad esso

sarà possibile ridurre le spese, spesso improduttive, connesse alla gestione

della cosa pubblica.

Prima, però, è bene soffermarsi sul c.d. status quo. In altre parole, prima di

vedere cosa si può fare, cerchiamo di capire a che punto siamo. Abbiamo, infatti,

superato una visione centralista dello Stato, ma non abbiamo ancora una struttura

“virtuosamente” federalista dello stesso.

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2. Lo status quo

Oggi, come si è detto poco sopra, la Repubblica non ha affatto una

configurazione centralista. È necessario, però, un “colpo di reni”. Occorre perseguire

con caparbietà l’obiettivo del federalismo fiscale, la struttura portante di una nuova

visione dello Stato e dei suoi rapporti con gli Enti locali.

2.1 L’impianto costituzionale

Occorre partire da un esame della nostra Carta Costituzionale. Gli articoli di

riferimento sono i seguenti:

l’art. 114;

l’art. 117;

l’art. 119.L’art. 114 della Costituzione prevede che “La Repubblica è costituita dai Comuni,

dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città

metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi

fissati dalla Costituzione”. Il principio espresso dall’art. 114 della Costituzione è

fondamentale in quanto individua lo Stato – al pari di Regioni, Comuni e Province –

come una delle “parti di un tutto”, la Repubblica italiana.

L’art. 117 della Costituzione dispone che “La potestà legislativa è esercitata dallo

Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento

comunitario e dagli obblighi internazionali”. Anche tale norma è fondamentale. Essa,

infatti, stabilisce il rilevante principio secondo cui entrambi i soggetti, sia le Regioni

che lo Stato, hanno un potere legislativo “autonomo”. Gli ambiti di intervento dello

Stato, peraltro, sono individuati in maniera residuale: lo Stato interviene, per legge,

solo nelle materie non di stretta competenza delle Regioni.

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Sulla scorta dell’art. 117, lettera m) della Costituzione, lo Stato ha anche il

compito di predeterminare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti

fondamentali di carattere civile e sociale. Tali livelli essenziali vanno comunque

garantiti su tutto il territorio nazionale. L’art. 117, comma 2, lettera p), prevede la

necessità che lo Stato legiferi anche in materia di funzioni fondamentali attribuibili a

Comuni, Province e Città metropolitante.

L’art. 119, infine, prevede ch “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le

Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa. I Comuni, le Province, le Città

metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri,

in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del

sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro

territorio. La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i

territori con minore capacità fiscale per abitante. Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi

precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare

integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”. La norma citata stabilisce quali sono, in

linea teorica, le risorse che vengono attribuite a Comuni, Provincie e Città

Metropolitane:

1. tributi propri, vale a dire quelli autonomamente istituiti dai

predetti enti locali;

2. tributi devoluti dallo Stato e addizionali;

3. compartecipazioni al gettito;

4. perequazione.

Figura 1: le possibili modalità di finanziamento degli Enti locali – in generale

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In pratica, le Regioni hanno già oggi la possibilità, anche se solo sulla carta, di

istituire tributi propri, fatto salvo ex post l’intervento dello Stato mediante la c.d.

perequazione. In effetti, laddove volessimo definire in maniera a-tecnica la

perequazione si potrebbe parlare di quelle risorse, destinate dalle Regioni più ricche a

quelle più povere, necessarie per assicurare i livelli essenziali di alcuni servizi pubblici

che la Costituzione prevede vadano garantiti ai cittadini (sanità, istruzione e

assistenza).

Va poi ricordato che la perequazione può essere:

a) verticale, quando le risorse – provenienti dalle Regioni dotate di

maggiore capacità di prelievo – vengono raccolte dallo Stato che

funge da “camera di compensazione”;

b) orizzontale, quando le risorse – provenienti dalle Regioni dotate di

maggiore capacità di prelievo – si muovono direttamente da Regione

a Regione.

Un ulteriore problematica riguarda le modalità con cui la perequazione viene

effettuata. In particolare, il problema concerne l’individuazione dei livelli essenziali

dei servizi che è necessario garantire su tutto il territorio nazionale. L’attuale sistema

si basa, infatti, sul criterio c.d. della spesa storica che pregiudica notevolmente i

livelli di efficienza che dovranno essere mantenuti a livello degli Enti locali

In ogni caso, sul tema della perequazione si tornerà nel prosieguo.

Figura 2: perequazione, aspetti generali

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2.2 Le concrete modalità di finanziamento di Regioni e Comuni: evoluzione

storica e situazione attuale

La riforma fiscale dei primi anni ’70 (quella che ha introdotto l’IRPEG e

l’IRPEF e che ancora rappresenta la base del Nostro ordinamento fiscale) ha

impresso una svolta fortemente centralistica al finanziamento degli enti locali

abolendo le principali imposte dirette e indirette (tassa di famiglia, dazi interni,

prelievi sugli immobili), con cui essi si finanziavano in precedenza. Tali imposte sono

state sostituite con trasferimenti da parte dello Stato, anziché con altri tributi “a

gettito decentrato”.

A seguito di tale “innovazione”, negli anni ’80, si avviò un lento dibattito

teso a valorizzare la Periferia anche in termini di capacità/possibilità di raccolta delle

risorse. Gli esiti del dibattito sono stati, almeno inizialmente, assai scarsi.

All’inizio degli anni ’90 la quota di autofinanziamento tributario del totale

consolidato delle spese delle amministrazioni si aggirava ancora sul 10% o poco

più.

Una prima svolta si è avvertita nei primi anni ’90, con:

l’introduzione dell’Ici (a destinazione interamente comunale) in

sostituzione dell’Ilor sugli immobili;

l’istituzione dell’imposta sulle attività professionali (Iciap);

la devoluzione alle Regioni dei contributi sanitari (sia quelli pagati sui

redditi da lavoro dipendente che quelli sul reddito da lavoro

autonomo – cosiddetta tassa sulla salute);

la possibilità di introduzione di addizionali fiscali locali su alcuni

consumi energetici (elettricità, benzina) e la devoluzione di una

porzione degli introiti relativi alla tassazione degli autoveicoli (parte

dei proventi fiscali della benzina e del bollo).

Per effetto di questi introiti la quota di autofinanziamento delle spese

locali consolidate è arrivata ad attestarsi, alla metà degli anni ’90,

approssimativamente sul 25%.

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Negli anni più recenti (1996/1997) matura un’ulteriore svolta con

l’introduzione dell’Irap, che accorpa precedenti prelievi locali (contributi sanitari,

Iciap), ma anche consistenti prelievi in precedenza centrali (Ilor sulle imprese,

patrimoniale sulle imprese, tassa sulla partita Iva). La destinazione del gettito è alle

Regioni. All’Irap viene accompagnata la devoluzione di una quota dell’Irpef, nonché

la possibilità da parte degli enti locali (Regioni e Comuni) di introdurre una piccola

aliquota proporzionale sulla base imponibile di tale imposta (c.d. addizionale).

Il risultato è che alla fine degli anni ’90 l’autofinanziamento fiscale locale

sale a oltre il 40% delle spese consolidate.

A questo punto pare opportuno ricapitolare quali sono, oggi, le concrete

modalità di finanziamento di Regioni e Comuni.

Regioni

Le Regioni, oggi, si finanziano principalmente attraverso:

l’IRAP;

le addizionali IRPEF;

tasse automobilistiche;

addizionali sulle accise.

A queste fonti di natura tributaria, si accompagnano – come si è avuto modo

di specificare – le risorse attribuite per compartecipazione ai tributi statali e per

perequazione.

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ATTENZIONE

La situazione attuale non può reggere a lungo. Infatti, la gran parte delle

entrate regionali proviene dall’IRAP. L’IRAP presenta, però, numerosi

problemi:

il tributo in parola è poco accettato, a giusta ragione, da tutta la

comunità economica – basti pensare che, nella base imponibile del

tributo, rientrano anche le retribuzioni dei dipendenti – in pratica, più

si assume e più IRAP si paga;

la stessa legittimità costituzionale del tributo è in forse e si rimane in

attesa di una sentenza della Corte Costituzionale avente ad oggetto la

sua deducibilità dalle imposte sui redditi.

Comuni

I Comuni , oggi, si finanziano principalmente attraverso:

l’ICI (che peraltro è stata completamente eliminata sull’abitazione

principale);

le addizionali IRPEF

le tariffe sullo smaltimento dei rifiuti.

A queste fonti di natura “tributaria”, si accompagnano – come si è avuto

modo di specificare – le risorse attribuite per compartecipazioni e per perequazione.

Un ultima notazione è dovuta. Sebbene, la Carta Costituzionale pare

attribuire una capacità impositiva “propria” alle Regioni, può dirsi che non esistono,

ad oggi, dei veri e propri “tributi propri” (malgrado alcune risibili affermazioni

contenute nella Finanziaria 2008). Sono tali quei tributi che sono pensati a livello

locale e le cui regole applicative sono definite a tale medesimo livello. Il “nuovo”

modello di federalismo deve tenere conto di tutto ciò e deve aprire finalmente la

strada alla creazione di tributi propri.

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2.3 Come gli Enti locali gestiscono le risorse raccolte: il problema degli

attuali modelli di perequazione

Come abbiamo avuto modo di anticipare, il problema principale dell’attuale

struttura dei rapporti Stato – Enti locali si lega proprio alle modalità con cui questi

ultimi spendono le risorse che provengono loro dallo Stato. Gli Enti locali, infatti, in

non poche occasioni, hanno dimostrato una estrema imperizia nella gestione delle

risorse. Tale imperizia, come si avrà modo di illustrare nel prosieguo, dipende

essenzialmente da due fattori:

a) la scarsa preparazione delle risorse umane presenti a livello locale;

b) il sistema “assurdo” di perequazione su cui si basano oggi i rapporti

Stato – Enti locali.

Risorse locali inadeguate

Il settore pubblico italiano, oggi, ha sostanzialmente “due anime”:

lo Stato centrale;

gli Enti locali.

Tuttavia, la maggior parte dei dipendenti pubblici si trova concentrata a

livello centrale (quasi due milioni di dipendenti a tempo indeterminato), mentre a

livello periferico addirittura si assiste a una leggera flessione del numero degli addetti.

Colpisce soprattutto un dato:

a) gli enti locali “gestiscono” il 36/37% della spesa pubblica, ma in essi

si concentra solo il 42% del personale dello Stato;

b) lo Stato centrale spende “solo” il 24% delle risorse, ma il personale

dipendente a disposizione è il 52% del totale.

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Anche questi pochi dati dimostrano – ancora una volta – perché il nostro

Stato “non funziona”. Infatti:

a livello centrale, ci sono degli sprechi perché molte persone vengono

pagate per prendere poche decisioni;

a livello locale, si realizzano delle inefficienze perché poche persone –

spesso poco preparate – sono chiamate a prendere molte decisioni,

spesso complesse.

La spesa storica

In proposito, è importante tenere conto di una recente indagine (marzo 2008)

condotta da Unioncamere Veneto (Quaderno di ricerca n. 9). Essa evidenzia alcune

anomalie del Sistema Italia. Oggi, in effetti, l’azione redistributrice dello Stato abbatte

in maniera drastica i differenziali tra le aree del Paese. Un’analisi rigorosa evidenzia

come si realizzi una perequazione sostanzialmente “a senso unico” e, in particolare,

da Nord verso Sud.

Allora, se così è, perché il Sud non cresce? La ragione, va ricercata nella

modalità con cui tale perequazione si realizza: si prescinde quasi completamente dalle

reali esigenze manifestatesi nel territorio, per suddividere le risorse sulla base

dell’irresponsabile criterio della spesa storica. In via di estrema sintesi, può dirsi che

lo Stato ragiona così: più un Ente locale spende, maggiori sono le risorse che è

necessario attribuire per mezzo della perequazione. Insomma, si è creato una sorta di

premio all’inefficienza, al parassitismo e, di conseguenza, al clientelismo. La

situazione può e deve essere rovesciata. Occorre passare dall’attuale sistema ad uno

basato sul concetto di costi standard.

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3. La proposta Calderoli

Il Ministro per la semplificazione Calderoli ha presentato di recente uno

schema di disegno di legge delega teso a individuare una serie di principi-guida del

federalismo fiscale. Il DDL Calderoli è:

per molti aspetti, perfettamente condivisibile (si pensi, a mero titolo

esemplificativo, al superamento del criterio della spesa storica a favore

di quello dei costi standard);

per alcuni aspetti, non condivisibile (si pensi alla mancata attribuzione

ai Comuni di una autonomia impositiva, vale a dire della possibilità di

istituire propri tributi) ovvero non chiaro (non si comprende a quale

modello di perequazione si faccia riferimento, se a quella orizzontale

o a quella verticale).

Una considerazione ulteriore, però, è dovuta. Come detto, i criteri alla base

del “nuovo” federalismo stabiliti dal DDL Calderoli sono in gran parte condivisibili.

Tuttavia, adesso inizia la fase decisiva. Si può dire che la riforma del federalismo

fiscale si articolerà essenzialmente in due momenti:

a) un primo momento, in cui si stabiliranno i principi generali, contenuti

nella Legge delega;

b) un secondo momento, in cui si metteranno a punto più

dettagliatamente le caratteristiche del “nuovo” federalismo fiscale,

con i decreti legislativi di attuazione.

Tuttavia, nel caso della devolution fiscale, “il diavolo è nei dettagli”: le sole cose

che davvero contano in questa materia sono proprio i dettagli, vale dire le regole

specifiche che indicheranno analiticamente:

a) gli spazi di manovra attribuiti concretamente agli Enti locali;

b) le forme e le misure della perequazione;

c) l’individuazione concreta dei costi standard;

d) etc.

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Si diceva che è necessario “spiegare” il federalismo. Iniziamo, allora, da una

precisazione: una cosa è riformare la prima parte della Costituzione in senso federale,

una cosa ben diversa è dare maggiore autonomia di spesa e (è questo il punto) di

prelievo agli Enti locali.

La riforma da tutti auspicata e portata avanti nel DDL Calderoli è, a voler

essere rigorosi, una devolution fiscale. Per dirla in maniera semplice, l’obiettivo che ci si

pone è quello di prevedere che gli Enti locali ricorrano a “entrate proprie”. Solo

seguendo questa strada è possibile giungere a una maggiore efficienza nella gestione

della cosa pubblica.

3.1 Proviamo a rispondere a due domande: Perché il federalismo?

Quale Federalismo?

Per “spiegare” il federalismo occorre rispondere principalmente a due

domande: 1) Perché l’Italia ha bisogno del federalismo fiscale? 2) A quale modello di

federalismo fiscale occorre ispirarsi?

Iniziamo dal rispondere alla prima domanda. Si è scritto che se gli enti locali

vivono di proventi ricevuti ovvero rinunciati dallo Stato, manca l’orgoglio del vivere

del proprio sacrificio e sorge la psicologia del vivere a spese altrui. Chi scrive queste

illuminanti parole non è un ideologo contemporaneo del federalismo fiscale, ma il

mai troppo elogiato Luigi Einaudi (L. Einaudi, Che cosa rimarrebbe allo Stato?, Torino,

1959) che, nel lontano 1959, già prefigurava i tratti essenziali dell’attuale situazione

italiana di finanza pubblica. In effetti, è ormai opinione diffusa, presso gli addetti ai

lavori e non, che i problemi dei conti italiani derivano essenzialmente da un carico

fiscale eccessivamente elevato oltre che da una sperequata allocazione delle risorse

pubbliche. Risorse che, raccolte quasi esclusivamente a livello centrale, vengono

gestite in maniera, a dir poco inefficiente, a livello locale. Gli Enti locali italiani, quasi

completamente esclusi dalle politiche di entrata, hanno cominciato a soffrire della

sopra richiamata psicologia del “vivere a spese altrui”. Da questo punto di vista, basti

osservare i pletorici apparati clientelari che affollano le nostre Regioni. Procedere a

un decentramento politico, amministrativo e finanziario appare oggi una necessità.

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Occorre creare una maggiore vicinanza tra le politiche di entrata e le politiche di

spesa. Si tratta, in altri e più immediati termini, di “responsabilizzare” gli enti locali

permettendo loro di spendere, ma imponendo anche la raccolta delle risorse

necessarie per l’effettuazione delle medesime spese. L’esperienza del nostro Paese, in

effetti, insegna che una separazione delle politiche di spesa da quelle di entrata

determina, di fatto, un allargamento dell’area degli sprechi e delle disfunzioni. È

evidente, quindi, come la devoluzione fiscale di cui si è detto rappresenti il primo

indispensabile pilastro per un duraturo risanamento dei conti pubblici italiani.

È più difficile rispondere alla seconda delle domande sopra prospettate: a

quale modello di federalismo fiscale occorre ispirarsi? Certo è che la scelta

dell’autonomia impositiva non può che muoversi nel quadro della unità nazionale e

non può che tenere in debito conto che l’Italia è ancora un Paese che viaggia a due

velocità. Come ha avuto modo di affermare il Presidente Fini, in una recente

intervista televisiva (puntata di “La Storia siamo noi” in onda il 5 giugno scorso), “seil federalismo fiscale dovesse essere egoista e non rispettoso della unità nazionale, ci sarebbero rischi”.

Occorre, quindi, che vengano individuati adeguati strumenti di perequazione delle

risorse disponibili. In pratica, si tratta di “costruire” una modalità per ripartire le

risorse complessivamente raccolte in maniera opportuna tra i territori più ricchi, e

quindi più dotati di capacità di prelievo, e quelli più poveri, dotati di una minore

capacità di prelievo. In pratica, per essere ancora più chiari, bisogna trovare il modo

per impedire, che nelle diverse zone del Paese, non vi sia una perfetta uniformità dei

servizi prestati. Il compito di cui la politica deve farsi carico è, in questo caso, allo

stesso modo impegnativo e stimolante: trovare quel giusto equilibrio che coniughi

l’efficienza e la trasparenza nella prestazione dei servizi con il principio della

solidarietà.

3.2 Una nuova perequazione: dalla spesa storica ai costi standard

Il primo fondamentale passaggio è quello di una attenta e risolutiva riforma

della c.d. perequazione. Per riformare il sistema, occorre partire da quello attuale.

Come abbiamo detto, oggi, il sistema è tutto basato sull’assurdo criterio della spesa

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storica. Tale criterio è assolutamente inadeguato perché non fa altro che stimolare le

inefficienze, i costi inutili, la formazione di apparati clientelari (infra).

La situazione può e deve essere rovesciata. Occorre passare dall’attuale

sistema ad uno basato sul concetto dei costi standard. Si tratta della somma dei costi

diretti e indiretti, oggettivamente determinati, necessari a garantire il livello essenziale

dei servizi. Un esempio potrebbe essere utile per meglio comprendere che cosa si

intenda per costi standard. Consideriamo il caso di una operazione di appendicite che

è sicuramente inquadrabile tra i servizi sanitari essenziali da rendere ai cittadini. Per

valutare il costo standard sarà necessario tenere conto:

a) dei costi diretti: la retribuzione del medico e del personale ospedaliero

per l’effettuazione della operazione, etc.;

b) dei costi indiretti: le spese ulteriori da sostenere (deperimento

macchinari utilizzati, etc.).

In buona sostanza, il costo standard è un po’ quello che, in economia

aziendale, viene definito come il costo di produzione.

Tale costo deve tener conto anche del c.d. fattore territoriale. In pratica, esso

deve essere incrementato o decrementato in relazione a quegli elementi specifici di

ciascuna Regione. Per intenderci, il costo standard della operazione di appendicite

dell’Emilia Romagna non può trovare applicazione tout court anche per la Valle

d’Aosta. Occorrerà, infatti, aumentarlo, tenendo conto che in quella specifica

Regione (Valle d’Aosta) l’ambulanza che porta il paziente in ospedale ha un

deperimento più rapido in relazione alla particolare morfologia del Territorio.

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Figura 3: costo standard – componenti

La riallocazione delle risorse dai territori ricchi ai territori più poveri, quindi,

deve avvenire non premiando le inefficienze ma, al contrario, le efficienze. In termini

semplici, se per un dato servizio, sono in media necessarie risorse (per garantire i

livelli essenziali di assistenza) per 100 e un dato Ente può raccoglierne (data la sua

capacità impositiva, costituita da tributi propri, tributi devoluti e addizionali nonché

compartecipazione al gettito di tributi erariali) 80, sarà possibile, per perequazione,

attribuire “solo” i restanti 20. Si crea, in definitiva, un incentivo a che l’Ente locale si

adegui alla best practice nazionale.

Con questo sistema si creerà un forte stimolo a che l’Ente locale persegua due

obiettivi ad oggi sconosciuti: l’efficacia e l’efficienza. In sostanza, tornando

all’esempio svolto, l’Ente è incentivato a spendere non più di 100 e, quindi, a essere

più efficiente.

Il DDL Calderoli recepisce in pieno queste considerazioni. Ci si è resi conto

che la spesa storica non è altro che la sommatoria della c.d. spesa standard (quanto si

dovrebbe spendere per quel dato servizio) e delle inefficienze che si formano a livello

locale.

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Figura 4: costi standard e spesa storica

L’art. 2, comma 2, lettera c), del citato DDL prevede, infatti, la necessità di un

“superamento graduale, per tutti i livelli istituzionali, del criterio della spesa storica a favore del

fabbisogno standard per il finanziamento dei livelli essenziali di cui all’art. 117, comma secondo,

lettera m), della Costituzione e delle funzioni fondamentali di cui all’art. 117, secondo comma,

lettera p), della Costituzione, e della capacità fiscale per le altre funzioni”.

In pratica si garantirà:

il finanziamento pieno del costo standard necessario per i servizi

essenziali;

il finanziamento degli altri servizi in proporzione della capacità fiscale

dei singoli Enti locali.

3.2.1 Riflessioni critiche sulla “nuova” perequazione

Come anticipato, quando si parla di federalismo, occorre sempre tener conto

che “il diavolo è nei dettagli”. Ebbene, da questo punto di vista, va segnalato che il

DDL Calderoli non contiene alcun accenno alle modalità con cui si articolerà

concretamente la perequazione.

In primo luogo, non si chiarisce se la perequazione sarà verticale ovvero

orizzontale. La soluzione migliore, con tutta evidenza, è quella della perequazione

verticale. Deve essere lo Stato a fungere da “camera di compensazione” per orientare

SPESA STANDARD + INEFFICIENZE

SPESA “STORICA”

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le risorse raccolte presso le Regioni più ricche verso quelle più povere e, quindi,

dotate di minore capacità di prelievo. È questa l’unica versione della perequazione in

grado di essere coerente con un quadro di unità nazionale e pienamente rispondente

al principio della solidarietà. L’alternativa, in effetti, sarebbe quella di realizzare forme

di perequazione orizzontale, con conseguente trasferimento di risorse da Regione a

Regione.

Occorre perorare, nelle sedi opportune, la causa della perequazione verticale.

È uno dei modi per cercare di coniugare la devolution fiscale con la necessità di

preservare, comunque e a ogni costo, l’unità dello Stato. È impensabile che i

passaggi di risorse da Regione a Regione avvengano senza che lo Stato possa

esercitare un’adeguata regia. In effetti, come abbiamo già precisato, attuare il

federalismo fiscale non può e non deve significare bypassare la fondamentali funzioni

dello Stato, tra cui spicca quella di favorire una crescita di tutte le diverse componenti

territoriali che dello stesso fanno parte.

Figura 5: La perequazione verticale

Figura 6: la perequazione orizzontale: lo Stato è escluso

RISORSE REGIONI

“RICCHE”

STATO

REGIONI

“POVERE”

RISORSE RISORSE

REGIONI

“RICCHE”

STATO

REGIONI

“POVERE”

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3.3 Attribuzione di una capacità impositiva propria agli Enti locali

Fino a questo punto ci si è soffermati sulle modalità con cui declinare, in

concreto, il principio di solidarietà. Ma fare il federalismo fiscale significa di più,

significa anche, come si è avuto modo di osservare in precedenza, far vedere al

cittadino che paga le tasse gran parte dei beni e dei servizi che quelle stesse tasse

hanno contribuito finanziare. La strada da seguire è chiara: attribuire agli Enti locali

un’autonoma ed esclusiva capacità impositiva in relazione a determinati cespiti. In

pratica, si tratta di dare a essi la possibilità di istituire tributi, di verificarne la

riscossione, di controllare che i cittadini/contribuenti adempiano correttamente alla

obbligazione tributaria. È il caso d

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