di Maria Di Paolo
In trent’anni di Servizio Sanitario Nazionale molto è cambiato: la relazione di apertura dell’Assemblea 2008 di Farmindustria ci conferma dati impressionanti in questo senso. La vita media è aumentata di sette anni, la sua qualità è migliorata sensibilmente – i settantenni di oggi sono dinamici, fanno sport, viaggiano; la mortalità infantile è diminuita dell’80%, quella nelle malattie dell’apparato circolatorio del 50%, del 9% in quelle tumorali. A questo, insieme con i progressi della società, della cultura, della medicina e della chirurgia, molto ha contribuito l’Industria Farmaceutica, che si è sviluppata in Italia di pari passo con l’evolversi del SSN: i farmaci e il loro uso appropriato possono rendere non necessari interventi chirurgici, accorciare i tempi di ospedalizzazione, rallentare la degenerazione o attenuare la sintomatologia di malattie tipiche dell’invecchiamento; non di rado evitano i ricoveri ospedalieri. Per non parlare della funzione preventiva dei vaccini. Ma l’industria farmaceutica non è solo “farmaco”: essa rappresenta anche un valore scientifico e industriale importante: il settore conta più di 200 imprese del farmaco, occupa più di 70.000 addetti, ha una produzione pari a 22,6 miliardi di euro, vanta un indotto a monte che dà lavoro a 61.000 addetti. E ha una spiccata vocazione internazionale, soprattutto nella produzione. Eppure questo valore non è sempre riconosciuto.
Ne parliamo con Sergio Dompé, Presidente Farmindustria.
Nella relazione introduttiva all’Assemblea Farmindustria 2008 Lei parla dei trent’anni appena trascorsi come tre decenni difficili per le imprese del farmaco, con politiche farmaceutiche poco lungimiranti. A cosa si riferisce?
Il nostro sistema Paese ha una scarsissima capacità, a tutti i livelli compreso il farmaceutico ma non è certamente l’unico, di fare una programmazione coerente con quello che succederà nel mondo e, qualche volta, nella stessa Italia. Non c’è la capacità di vedere oltre. Il nostro è un Paese che ha difficoltà ad andare avanti e ha la consuetudine di organizzarsi sulla spinta emotiva di discorsi che hanno radici spesso nel passato, magari anche molto recente, ma pur sempre passato. Siamo un Paese tutto sommato populista, che ama discutere molte volte per il gusto della discussione senza poi ben vedere quello che c’è dietro: tipico il nostro prendere posizione sulla base di concetti, qualche volta sbandierati in nome di principi etici, senza vedere poi la conseguenza pratica. Manca una ricognizione dei modelli che pagano per il Paese. Ripeto, questo è valido per molti altri settori del nostro sistema produttivo. Un caso tipico è quello del turismo: se siamo un Paese che deve fare del turismo d’elite un certo tipo di driver, in automatico dovremmo assumere certi modelli. Questo non avviene. Riportando il discorso nel settore scientifico, il problema è amplificato perché questi temi più di altri hanno la necessità di identificare i modelli che saranno validi nei dieci anni successivi, così da programmare di conseguenza: se pure oggi si va in perdita, si devono avere per il futuro presupposti seri e realistici su cui convergere gli sforzi. L’esempio del farmaceutico non ha colore politico: quando è stato smontato il modello di industria farmaceutica che c’era ai tempi di Farmitalia semplicemente perché c’era l’inflazione al 7-8% e non si potevano dare adeguamenti di nessun genere all’industria farmaceutica, nessuno ha pensato di verificare cosa fosse conveniente fare, non solo per l’industria, ma per il Paese; si è stabilito che sarebbe stato assolutamente inappropriato aumentare i prezzi, ma nessuno ha misurato le conseguenze. Questo è un Paese che per risparmiare il 10% va a perdere il 60% del valore.
L’industria farmaceutica è, da sempre, associata unicamente alla produzione di farmaci: eppure rappresenta anche un valore scientifico e industriale. Perché questo ruolo stenta ancora ad essere riconosciuto?
Questo è verissimo, in particolare per il nostro Paese che ha una buona energia di tipo scientifico-qualitativo connessa con i giovani e con i centri di eccellenza; ma abbiamo poca capacità, soprattutto a livello imprenditoriale, di capitalizzare questa energia per fare quella che sontuosamente chiamano la “catena del valore”, in definitiva per fare in modo che 1+1+1 faccia 10. Se c’è un modello che trasferisce valore al sistema è quello farmaceutico, perché si basa sull’innovazione, si basa sull’indagine relativa alle malattie, e quindi relativa ai bisogni sociali veri, e sviluppa ricerca, produzione, esportazione, internazionalizzazione. Solo adesso ci si rende conto che nonostante le difficoltà pazzesche che abbiamo avuto in questi anni l’industria farmaceutica dal ’91 ad oggi è stata capace di portare il suo indice di export dal 10% al 53%.
Ci dà un’idea, in pochi dati essenziali, del contributo dell’industria farmaceutica all’economia italiana?
Diciamo che 11 miliardi e mezzo di export, 6300 ricercatori diretti e almeno altrettanti indiretti, la metà dei quali donne, il 90% delle persone impiegate che sono laureate o diplomate danno un senso di uno dei pochi settori che possono avere una compatibilità tecnologica internazionale. Non dico che siamo i migliori: ma in una famiglia numerosa, se si hanno solo due o tre fonti di reddito, quelle due o tre fonti devono essere salvaguardate al 100%
Un quadro capace di ridurre la burocrazia, le leggi e la tassazione: questa è la richiesta dell’industria farmaceutica per una politica del farmaco sostenibile. Quale deve essere il ruolo dello Stato e quale quello delle Regioni?
Cominciamo dalle positività. Il nostro è uno Stato generoso, che offre ai cittadini italiani una tra le più ampie coperture sanitarie al mondo e un rapporto accessibilità/servizi che è considerato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità tra i primi due o tre dei grandi Paesi. Siamo abituati a stracciarci le vesti, ma il nostro è un sistema che è riconosciuto a livello internazionale. Oggi questo non basta, gli interlocutori istituzionali devono prendere coscienza che bisogna fare in modo che i valori produttivi di ricerca, di impiego, di proiezione che sono in questa industria servano a quelli che sono collaterali – il mondo delle università, della ricerca – per sviluppare le isole di eccellenza che oggi esistono e consolidarle a sistema.
Non è semplice conciliare le diverse esigenze di pazienti, aziende farmaceutiche e servizio sanitario pubblico: che tipo di rapporto esiste tra industria farmaceutica e SSN e in che cosa si potrebbe migliorare?
Questo è l’esercizio che non possiamo permetterci di fallire. L’industria farmaceutica è prima di ogni altra cosa impresa, è vero, ma è anche vero che la sua attività, che tocca profondamente la Salute e le speranze delle persone, ha e deve avere implicazioni etiche chiare. Se le nostre debolezze, ancora molto presenti, possono affidarsi ad un sistema forte è perché questo sistema si basa sulla solidarietà che non possiamo perdere. L’ottica è sempre la stessa: occorre sviluppare e capitalizzare le eccellenze che non fanno fallire il sistema.