Intervista a Giuseppe Montesano
Giuseppe Montesano, è nato a Napoli. Scrittore di successo. Ha tradotto e curato opere di autori come La Fontane, Gautier, Beudelaire, Flaubert, Villiers de l’Isle-Adam. Collabora a “Il Messaggero”, “Il Mattino”, il “Diario della settimana” e “Lo Straniero.
“Di questa vita menzognera” Universale economica. I Narratori, Premio letterario Viareggio-Repaci, è un romanzo sulla rapacità, la follia, la volgarità della “nuova” classe dirigente. Il delirio di una potente famiglia senza più dignità o vergogna
Quando l’ignaro Roberto, stanco di ritrovarsi disoccupato per il suo ostinato rifiuto di assoggettarsi alla corruzione che impera nel mondo del lavoro, decide di rispondere ad un curioso annuncio che ricerca una persona «che ancora ami il sudario della bellezza», certo non può immaginare la realtà che lo attende.
Prelevato da un’auto di lusso, è letteralmente fagocitato dall’universo della famiglia Negromonte, quintessenza dell’arroganza e della volgarità di chi con i soldi compra il diritto di comandare e dettare legge.
Proprietari di fatto di Napoli, i Negromonte hanno creato un mondo alla rovescia. La vita di Napoli viene rivoluzionata dalla geniale idea di uno dei Negromonte: trasformare l’intera città in un museo a cielo aperto, nel quale far rivivere ai visitatori le varie epoche storiche della città, con gli abitanti trasformati in attori, «la casa sarà la bottega e la bottega sarà la casa», in quello che viene presentato come l’affare del secolo. Così mentre fervono i preparativi, con le opere d’arte dei musei acquistate dai vari fratelli Negromonte per abbellire le proprie case e rabbonire le proprie spose, con gli edifici rasi al suolo, i monumenti spostati, il sottosuolo trivellato in barba a qualsiasi mappa geologica, i cittadini rintronati da una propaganda che mira a convincerli dell’avvento di una nuova era di libertà in cui tutto sarà di tutti, poco a poco i rapporti famigliari esplodono, le tensioni si accumulano e tra la popolazione emergono alcuni oppositori di quello che ormai si configura come un vero e proprio regime dittatoriale.
Il libro si chiude su una fuga dagli sgherri pronti ad eliminare qualsiasi contestatore, ma soprattutto fuga dall’incubo di un mondo completamente sovvertito, dove i più elementari valori sono stati travolti e affogati dal torrente in piena del denaro dei Negromonte.
Nel suo libro “Di questa vita menzognera”, la famiglia di potenti dei Negromonte, oggi definiremmo camorristi, ce ne sono veramente o no?
Sì, ce ne sono molte di famiglie che io non chiamerei soltanto camorristiche ma famiglie legate o a criminalità illegali o a criminalità “legali” che somigliano abbastanza ai Negromonte del libro, con la sola differenza che i Negromonte vanno un tantino oltre, hanno l’ambizione di diventare anche dei politici. In genere i camorristi vivono all’ombra della politica, però, quelle abitudini, quelle smanie di apparire nel modo più volgare e più vistoso possibile, mi sembra proprio appartenere ad una realtà di fatto. Faccio un esempio pratico, la famosa conchiglia, la famosa vasca da bagno a Forcella nella quale si è bagnato anche Maratona, quello era un tipico arredamento kitch da Negromonte. Il camorrista dà l’idea di qualcosa di troppo piccolo, tutto sommato, in confronto a quello che io volevo rappresentare.
Ha mai incontrato, nella vita tali tipi di personaggi? Dove abitavo a Napoli, c’era una villa dalla quale sentivo ruggire i leoni, i discorsi di quella gente che si sentivano nei bar erano molto simili ai dialoghi del libro: “smargiasseria”, “squarcioneria”, ostentazione. Il lettore Milanese può avere una lettura diversa del libro da quella di un napoletano?
Mi fa una domanda veramente difficile, può darsi, dipende da come uno legge. Il concetto è sempre lo stesso. I Negromonte sono un po’ il padrino ma credono di essere il Gattopardo. Questa è un po’ la chiave per cui somigliano un po’ a tutti i “parvenu” di tutta la terra con in più il fatto che sono dei criminali e quindi, probabilmente, questo può sconcertare un lettore non napoletano, o meglio, può restare estraneo. Per un napoletano, questa cosa è evidente perché c’è anche tutta quella mimica, quella vistosità esterna che, in un omologo dei Negromonte del nord, sarebbe un po’ più attutita. Solo che la sostanza, per me, è la stessa. Un esempio banale: la mafia russa mi sembrava incredibilmente simile a quello che avevo raccontato, cioè l’idea che, ad un certo punto, l’arricchimento facile doveva manifestarsi anche agli occhi degli altri e quindi, quello che lei chiama “squarcioneria”, “smargiasseria”, è comune a tutte quelle situazioni nelle quali c’è bisogno anche di ostentare in maniera anche incolta, ineducata, ecc…di chi possiede potere, denaro. Simboli di uno status.
Lo spreco e lo sfarzo della mensa, è una caratteristica fissa della domenica anche nei “bassi” di Napoli. Mangiare il pesce è un segno distintivo anche se il capofamiglia è disoccupato. I napoletani sono divisi in “Cardano” personaggio dandy nullafacente artista-filosofo e nei Negromonte. Se c’è una classe intermedia tra le due tipologie, a questo punto, non sembra la peggiore?
Questa è sicuramente un po’ la mia ossessione. In fondo, Cardano finisce con l’essere una vittima, sarei un tantino più indulgente con lui. Non esisterebbero i Negromonte ed il loro potere se non ci fosse tutta una enorme quantità di persone che permette loro di esistere. I miei libri sono stati definiti antropologici nel senso che quello che mi interessa di più non è tanto la politica, ciò che scrivo nel mio libro è specchio del periodo storico che mi rappresenta, se l’avessi scritto 20 anni fa o tra 10 anni, sarebbe del tutto diverso ciononostante non cambierebbe l’antropologia. Non cambierebbe, cioè, quella cosa più profonda della politica, il fatto che non esiste una classe dei cittadini. Oltre le classi tradizionali, quella del cittadino non è ancora concepita come, per esempio, avviene in Francia anche se con tanti problemi. Lì però è cittadino, una persona cosciente dei propri diritti, cosciente anche dei propri doveri e che collabora in sintonia con tutto il meccanismo sociale. Credo l’Italia, ed in maniera esplosiva, un certo meridione, sia sostanzialmente indeciso tra una forma di anarchia ed una visione piccolo-borghese chiamata classe “media” innamorata dell’apparenza e non della sostanza. E’ una cosa diversa dalla borghesia. La Francia, per esempio, ha una borghesia che è cosa molto più seria, per quanto criticabile, ma lì “il cittadino” c’è. In Italia, il cittadino è abbastanza latitante sia numericamente parlando che come classe. In questo modello di vita i Negromonte, di qualsiasi genere siano, hanno una vita facilissima. Possono speculare proprio sul fatto che le persone sono propense allo “scialo” anche non potendoselo permettere, all’indebitamento per apparire.
Nel suo libro, inutile sottolinearlo, schizza in abbondanza tutta la fantasia partenopea di uno scrittore di genio quando suppone la vendita della città, Eternatoli, ai privati affinché ne godano i cittadini ed i proprietari di opere d’arte, i soli a potersele permettere. Ma questa non è una tentazione masochista già in atto in Campania da un punto di vista metaforico?
Assolutamente sì, perché altrimenti non l’avrei scritto. Non amo la fantasticheria fine a sé stessa, è una cosa, anzi, che detesto l’idea che lo scrittore fantastichi. Deve usare l’immaginazione e la fantasia ma deve comunque attenersi a parlare della realtà, di quello che succede, diversamente, siamo nel campo della saggistica. Sì, è vero, credo sia già in atto, mentalmente le cose sono già così, la porta è aperta a questo tipo di visione del mondo: da un lato l’idea, un po’ scioccherella, uso apposta un termine infantile, che privatizzare tutto sia la salvezza dell’umanità. Scioccherella perché nemmeno un serio pensiero liberale o addirittura liberista crede più in una cosa del genere. Dall’altro canto, l’idea che non esista nulla che non sia vendibile è, in tutta franchezza, terribile. Lasciamo stare l’ipotesi, di per sé terribile, di abolire la realtà sostituendola con una sorta di Luna Park soprattutto per una città vissuta come Napoli. Essa non è interessante per i suoi monumenti nudi e crudi, ma per la loro mescolanza, per gli esseri umani, per le tradizioni ed anche un pizzico di follia. Distruggere questo e far diventare il tutto una specie di museo a cielo aperto, sarebbe distruggere definitivamente una singolarità che è abbastanza unica o, almeno, lo era. Se si potesse svuotare tutta Napoli del centro, così come previsto in un progetto, e mandare via la gente dei “quartieri spagnoli” sostituendola con negozi di grandi firme, con presenza di creativi, scrittori, registi, avremmo fatto una città moderna. Ma mi sembra discutibile. I centri storici puliti delle grandi capitali, mi sembrano morti, certo Napoli non va bene nemmeno così com’è. Però rifiuto l’idea che si debbano deportare i popolani per creare un popolo artificiale a pagamento per i turisti.
Sembra eccessivo, ma siamo vicini ad una cosa di questo tipo. Se i quartieri spagnoli dovessero diventare una sorta di via Montenapoleone, avrebbero perso il loro fascino.
Si pensa che il sud sia tutto uguale, che napoletani, pugliesi, calabresi e siciliani si differenzino solo dal dialetto ma non è così. Per scherzo, auto ironia e per provocazione, una volta, in una apoteosi di presunzione ho affermato che il napoletano fa parte di una razza superiore, secondo lei esagero?
Questo è veramente un po’ esagerato, soprattutto è, come dire, di parte. Personalmente amo molto la civiltà quando c’è. Quella che è sopravvissuta in Sicilia. La Campania e la Sicilia, nel bene o nel male, sono le due regioni simboliche più rappresentative del meridione. Sì mi sembrano due luoghi simbolici e sono convinto che qui a Napoli, come in Sicilia c’è stata una civiltà nel senso più complesso del termine, cioè come qualcosa che modella le persone. Purtroppo è una cosa rara, non è presente ovunque. Il fatto è che c’è sempre stato uno spreco di talento. Dico spreco di talento perché se questo non viene canalizzato anche da un sistema di regole organizzato da un Stato che crede nel talento individuale collettivo ecc., va sprecato, va perso oppure fa i fuochi d’artificio e poi si spegne. Questo è l’handicap di tutto il meridione ed in particolare di Napoli. A fronte di questa “talentuosità” non c’è stata la capacità, da parte delle istituzioni nei secoli, di organizzare senza sopraffare, questa specie di lava vulcanica. Lo so che non è facile, però, altrove, si è riusciti con meno quantità di talento a disposizione per cui è un po’ un grande rimpianto che si siano sprecate molte occasioni.
Le voci “contro”, quelle di chi si oppone, Andrea, per esempio, figlio del mamma santissima patriarca dei Negromonte, vengono bollate come forma di pazzia. Insomma, i disobbedienti, gli oppositori come Scardanelli del libro, a Napoli ce ne sono, ma avranno la forza propositiva di risoluzione dei problemi endemici della città?
Questa è proprio una domanda da 50.000,00 euro.
Ci deve essere la speranza o no? O bisogna rassegnarsi?
No, guardi, io dico una cosa un po’ più complicata, le vie troppo facili non portano da nessuna parte. La possibilità c’è sempre, diciamo solo che diventa sempre più difficile. Vedere le cose come sono ed accorgersi che non sono buone, spinge a cambiarle, ma è stato sempre molto difficile. Il motivo è semplice perché la cultura tende a guardare in profondità, la politica tende invece a guardare in superficie. Ora, i gruppi singoli ecc. se non incontrano la politica, non incidono sulla realtà, quando poi abbracciano la politica strettamente, ne vengono sopraffatti. Questo è il paradosso, cioè, al di fuori della politica c’è purtroppo la marginalità, con l’abbraccio stretto, il soffocamento. La speranza sta nel fatto che i cosiddetti “gruppi di giovani” che lavorano nel sociale, si costituiscano insieme in maniera da creare una specie di forza che pressi continuamente il politico senza, però, lasciarsi abbracciare perché l’abbraccio, io credo, sia mortale. “Gruppi di persone” organizzati come avviene in America che si coalizzano tra loro con un unico interesse comune e fanno pressione sui politici per vedere realizzati i propri diritti. Temo che questa non sia una cultura molto diffusa da noi e quindi non so. Non sono ottimista ecco. La speranza, però, non possiamo eliminarla anche se la realtà è molto difficile da cambiare.
Basta essere geniali, secondo la sua esperienza di scrittore per avere successo? Se qualcuno volesse diventare come lei, ammesso che abbia le sue capacità, cosa deve fare? I giovani, oggi, rischiano di diventare famosi senza sapere fare niente solo perché hanno vinto al Grande Fratello.
La parola geniale è eccessiva.
Certo, questo è proprio l’argomento del mio ultimo libro “Magic pipol”. Mi sembra che siamo arrivati esattamente a questo punto qua: il rovesciamento di tutte le categorie di valori, di significato ecc….Per cui, appunto, chi non sa fare niente, meno lo sa fare e più ha successo, chi rispetta le leggi, tra poco, verrà arrestato, chi le infrange invece diventa, che so, una persona importante e così via. Quello è proprio l’argomento che mi ossessiona negli ultimi tempi e che è finito in “Magic pipol”.
Per quanto mi riguarda, riuscire, in questo tipo di società, è stato abbastanza casuale. Uno insiste nella propria strada perché ci crede e non deve porsi il problema di riuscirci oppure no: “faccio le cose che devo, accada quel che può” diceva un vecchio adagio del Rinascimento. Direi che va bene anche per noi oggi. Se si pongono aspettative, allora la delusione è terribile perché è un tipo di delusione che spinge a non fare più nulla. Sapere che, per esempio, la situazione non è rosea ma pensare che Tizio, Caio o Sempronio ce l’ha fatta, in qualche modo, e non sono persone spregevoli, aiuta e conforta, è una “protezione mentale”. Uno dice: «Beh! Allora effettivamente, anche se piccolissimo, uno spazio c’è, una possibilità c’è».