Rodolfo Ranzani
Invio un'ulteriore richiesta di approfondimento sul tema dell'assassinio del professor Giovanni Gentile. Quell'evento fu dettato dell'effettiva necessità, per gli antifascisti militanti, di colpire un simbolo della cultura fascista (ma non solo di questa) al fine di dare l'esempio; oppure, in realtà, si è trattato di un'operazione propagandistica per il clamore che ne sarebbe derivato, facilitata dalla circostanza che il professor Gentile rappresentava un obiettivo facile e senza troppi rischi per gli esecutori materiali dell'omicidio?
Caro Ranzani,
l'Italia fu teatro di una guerra civile che presentava almeno due caratteristiche. Era una guerra ideologica tra i militanti di due opposte fazioni della società nazionale. Ma era anche la guerra di un movimento clandestino contro un regime di occupazione militare e contro il governo alleato degli occupanti. Fu questa combinazione che determinò, più o meno spontaneamente, le regole del gioco. Come ogni movimento clandestino la Resistenza non aveva un capo in grado d'imporre la propria strategia, uno stato maggiore, una catena di comando. Si componeva di formazioni diverse, fra cui alcune avevano, per quanto possibile, carattere di formazioni militari e altre erano organizzate come piccole unità per operazioni di commando o cellule terroristiche. Avevano tutte uno stesso scopo: colpire il nemico nei suoi punti più esposti, costringerlo a distrarre le sue truppe dal fronte per impiegarle nel controllo delle retrovie, creare paura e sconcerto nelle file dei tedeschi e dei loro alleati, dimostrare alla grande massa degli «attendisti» (come venne chiamato chi non era esplicitamente impegnato in uno dei due campi) che una minoranza di uomini coraggiosi poteva tenere in scacco uno dei più agguerriti eserciti del mondo. In una guerra civile non basta mettere a segno qualche colpo fortunato. Occorre anche e soprattutto suscitare adesioni e attrarre nuove reclute. Ogni azione contro il nemico è un bando di reclutamento, lanciato per ingrossare le file di un movimento che è condannato a perdere lungo la strada una parte importante dei suoi militanti.
La varietà delle formazioni e dei gruppi ebbe per conseguenza la varietà delle strategie. Ogni partito aveva il suo programma politico per il futuro del Paese e agiva in funzione del ruolo che desiderava avere nella vita politica nazionale dopo la fine del conflitto. Come fu chiaro in Spagna fra il 1936 e il 1939, in ogni guerra civile la lotta contro il nemico si accompagna a un'altra lotta nel campo della Resistenza (talora non meno sanguinosa) tra forze che sono al tempo stesso alleate e concorrenti. I comunisti, in questa prospettiva, furono i più decisi e spregiudicati. Sapevano che gli attentati contro i tedeschi avrebbero provocato crudeli rappresaglie (come accadde in via Rasella), ma speravano che le reazioni tedesche avrebbero ridotto il numero degli attendisti e reso ancora più profondo il fossato che divideva la società nazionale. Aggiunga a tutto questo, caro Ranzani, che in un movimento clandestino così necessariamente frammentato si fanno strada personalità spericolate, ambiziose o fanatiche, ansiose di agire senza attendere ordini. Le azioni migliori, per chi si mette in questa prospettiva, sono quelle che hanno un alto valore simbolico, toccano maggiormente le immaginazioni e presentano il minore rischio possibile. L'assassinio di Gentile aveva per l'appunto tutte queste caratteristiche. Il filosofo era molto noto, non soltanto nel mondo culturale e accademico. Aveva pubblicamente aderito al fascismo repubblicano del nuovo Mussolini. Non era protetto da una scorta. E per di più predicava la riconciliazione nazionale: un messaggio che i comunisti, soprattutto in quel momento, consideravano pericoloso per la efficacia della lotta. Se vi fosse stata una forte rappresaglia, il successo dell'operazione, per gli attentatori, sarebbe stato ancora più netto. Quando chiese al prefetto di evitarlo, la famiglia del filosofo tolse ai registi dell'assassinio una parte della loro vittoria.
Sergio Romano