RATUMEM, la patria dell’interculturalità 

1. Prima di addentrarmi in Quando passa il ramarro di Giuseppe Giambusso, ho voluto sfogliare Le radici, qui – un’antologia ormai introvabile apparsa a Dortmund nel 1981. Oltre alle bellissime illustrazioni del compianto Franco Maldera, vi si rinvengono le radici d’un movimento interculturale che, nei decenni successivi, si sarebbe esteso su tutta l’area di lingua e cultura tedesca. Vi si rintraccia la penna di Gino Chiellino, Carmine Abate, Franco Biondi e altri. Nel 1981 conoscevo da un paio d’anni Giuseppe Giambusso, siciliano, del quale rispettavo l’impegno sociale e culturale, come il naturale riserbo. Più tardi mi sarei imbattuto anche in molti altri: Fruttuoso Piccolo, Salvatore A. Sanna, Lisa Mazzi, Cesare De Marchi, Marisa Fenoglio… Un gruppo che ingrossava di anno in anno e che interveniva attivamente nel dibattito interculturale, impegnato nella lirica e nella narrativa, nel sociale, nella linguistica e nella storia, sociologia, teatro, radio, cinema e musica. Interesse e curiosità non sono mancati. Tra i risultati: due antologie (1999 e 2005), e interventi di qualità e non sporadici. Siamo quindi di fronte alla nascita e sviluppo d’una produzione culturale né «temporanea» né «di passaggio».
In Le radici, qui ho trovato Sono fuggito dalla mia terra i cui versi segnano, a mio parere, il futuro percorso poetico, culturale e civile di Giuseppe Giambusso. Ne avviano l’avventura umana e l’esperienza poetica e interculturale. La sua fuga non lo libererà dei sogni e incubi, fantasmi e anime, miti e sangue, lingua e sonorità, pianti e grida della sua isola. Una fuga, ricordiamolo, già tentata e vissuta da milioni di persone all’interno di quel fenomeno sociale ed economico chiamato emigrazione che costringerà, chi abbandonò i luoghi originari, a sopravvivere e realizzare se stesso Oltreoceano o Oltralpe, divenendo parte dell’Altra Italia.
In Sono fuggito dalla mia terra leggo: «… Come un ladro sono fuggito! /…/ Sono fuggito per poter sognare! /… Per questo sono fuggito / e non sono fuggito dalla mia terra». Negli ultimi due versi l’imposizione ad abbandonare la propria terra, come la scelta di non rinunciarci. Di non arrendersi. Giuseppe Giambusso è in questi due versi. Quando passa il ramarro lo conferma e ne testimonia scelte e itinerari, strazio e melanconie, ricerca spaziale e temporale di chi confessa «già prima di partire / cominciai a tornare / e ogni volta che torno / mi preparo per la partenza». Come la tensione al possesso d’un’altra lingua, della gioia che nasce dall’arricchimento originato dal contatto con un’altra cultura.
Con i decenni l’opera poetica di Giambusso è diventata testimonianza d’un particolare percorso estetico, sociale e culturale, unito all’impegno per didattica, multilinguismo e interculturalità. Il suo liberarsi dai chiodi che limitano libertà e scelte e lo svestirsi di abiti plurisecolari, servili e ridicoli, iniziò un giorno del 1974, quando arrivò a Bonn-Beuel, sulla riva sinistra del Reno. Mi racconta Giambusso: «Piovigginava la tristezza dell’estate torrida lasciata a Catania. Mi servì subito per capire com’era piccolo e grande il mondo. I viaggi tra Nord e Sud dei decenni che seguirono mi aiutarono a misurare l’enorme distanza che cresceva tra me e me».

2. Quando passa il ramarro è un’opera che raccoglie liriche di oltre tre decenni, con ottima e curata traduzione a fronte. La copertina, un acquarello di Pino Calì, ci presenta una simbiosi tra cielo e terra, tra universo vegetale, radicato in un ricco humus, e il vento e la luce che sembrano impastare un mitico borgo ideale sul quale tremano astri notturni che rimandano a van Gogh o alla visionarietà di Dino Campana. Le poesie raccolte vanno dal 1972 al 2006. Da Jenseits des Horizonts / Al di là dell’orizzonte (1972 – 1985) sino a Der Mond in der Pfütze / La luna nella pozzanghera (1992 – 2006) e Ratumem (2005-2006), con nel mezzo Abfahrten / Partenze (1986 – 1991) e Paesaggi / Landschaften (1998 – 2006). Grazie a una postfazione di Gino Chiellino, da sempre sulle vie e piazze dell’interculturalità, è possibile sbirciare nel «laboratorio trilingue» dell’autore siciliano. Giuseppe Giambusso ha operato una particolare e personale cernita per Quando passa il ramarro, «scegliendo soltanto poche poesie da includere come punti fissi contenutistici e come fondamento estetico nella nuova opera». Tale scelta sottolinea la complessità del suo percorso e la rigorosità nel raccordare passato e presente, intrecciando culture e idiomi, senza perdere «mai di vista la propria responsabilità di autore impegnato». Un autore attento alla crescita e sviluppo della propria persona. A sottolinearne e documentarne le diverse fasi, come gli elementi che tempo e spazio hanno fuso nella «parola»: l’emigrazione e le lingue, le culture e l’amore, i miti e la globalizzazione.
La decisione di dedicare il titolo di quest’opera alla più grossa lucertola italiana è sorprendente. Almeno nel curriculum di questo autore. Abbandonate le immagini di tipici animali e insetti meridionali e mediterranei, Giambusso raccoglie la propria opera attorno alla lucerta viridis. All’origine di molte leggende, misterioso e affascinante, il ramarro, spesso confuso con il basilisco, è un amico dell’uomo e nemico di vipere e serpenti. Mobilissimo, veloce e vivace. Secondo l’immaginario popolare, egli è di buon auspicio e quando canta annuncia la pioggia. Lo si nota tra le stoppie e, al mattino e al tramonto, splende sui muretti scaldati dal sole. Un animale le cui tracce si rinvengono nelle antiche culture mediterranee. Nel testo protocristiano Physiologus ci viene consigliato di fare come la lucertola che guarisce dalla cecità, cercando il Sole, sorgente di Giustizia. Mentre il risveglio dal suo letargo è paragonato alla risurrezione.
Nelle lucertole e nei ramarri si rinvengono valenze come rinascita, ringiovanimento (per via della muta della pelle) e nostalgia per la luce spirituale. Questi animali sono raffigurati in monete e lanterne, incensieri e geroglifici. Essi rimandano all’ape nella simbologia dell’anima che esce dalla bocca dei dormienti.
La raffigurazione della lucerta viridis, in tutto il suo mistero, la si ammira nell’opera caravaggesca Ragazzo morso da un ramarro. Su questa tela di Michelangelo Merisi è possibile rintracciare, al di là della teatralità raffigurativa, tutta la misteriosa simbologia che l’affascinante lucertolone porta da sempre con sé.
Il ramarro: animale italico fascinoso e misterioso. Ciononostante sconosciuto. D’una bellezza particolare e raramente eletto a interprete di opere artistiche. Eppure «quando passa il ramarro / le fratte si rivestono di selva… / si voltano tutti… / il vento seduto sui muri / innamora i rami / … i bimbi si rincorrono…/ e lo attendono / sull’amaca della notte… / dove il sole non sa di essere stella / …/ e la luna di essere dea… » Come transitasse una divinità. Un angelo. Un mediatore tra sogno e realtà. Tra memoria e quotidianità. Tra partenza e ritorno, dove saranno l’esperienza del vagare e del viaggio, o l’incontro con le altre culture, a rivestire selve, a generare il vento e sole e luna diventano finalmente se stessi. È, questo, il potere del poeta: significare il segno e attraverso il segno significare oggetti, persone, situazioni. Animali. Stelle e pianeti. Tempo e spazio.
È, questa, la missione del ramarro.

3. La lucerta viridis rappresenta il magico mondo di Giambusso e il poeta la valorizza pienamente, sacralizzandola quasi. Simbolo d’un percorso personale e lirico sospeso tra le dicotomie dell’avventura umana. Il fascinoso e misterioso ramarro apre i nostri occhi e li indirizza al Sole e alla Verità. Ma anche alla Fantasia. In alcune leggende si narra che sia stato questo animale a portare il fuoco (o la luce) agli uomini.
Tutta la poesia di Giambusso è un anelito alla Luce e al Sole, alla Verità e alla Giustizia. Dalle solfatare alle miniere del Bacino della Ruhr. Dal Salso al fiume Ruhr. Dal momento della sua fuga e partenza, sino al ritorno, marcando il tempo e lo spazio nella terra e gente che ha attraversato. Sino a Ratumem, il breve poema in IX quadri, finale di Quando passa il ramarro, dove elementi metaforici e figurativi rimandano al Cantico dei Cantici, all’epica greca e medievale, visionaria e sensuale, per celebrare il momento d’amore (interculturale) dopo tanto errare muto. Ratumem, luogo del mito. Sito favoloso. Città utopica e ideale. Centro in cui l’amore prende forma e le lingue e le culture, come le religioni, s’incontrano e s’impastano. Dove il ramarro mira il Sole in attesa della dea dei cieli notturni.
Giambusso, come Chiellino e Sanna, Biondi, Lisa Mazzi, Fruttuoso Piccolo, Franco Sepe, Ines Bellati-Ritzenhoff e la schiera di autori che ingrossa di anno in anno, attraverso la poesia cerca di ordinare l’esperienza di chi, volente o nolente, fu costretto a sbarcare su lidi stranieri. Una poesia che «anticipa, non conclude». O «apre» «a ciò che non è ancora realtà, ma sta per diventarlo». Il viaggio di questi autori è diverso dal tipico viaggio novecentesco, dall’errare barbarico che rimanda a Dino Campana o a Emanuel Carnevali. Diverso anche dal viaggio di Ungaretti, poeta che riveste particolare importanza nell’educazione poetica di Giambusso. Se Ungaretti scrive «In nessuna / parte / di terra / mi posso accasare», Giuseppe Giambusso stila «mia è la terra / e la gente che attraverso». Vi si rinviene una tensione e volontà, una ricerca e lavorìo linguistico e culturale che si rintraccia a piene mani nello struggente e mitico Son of Italy di Pascal D’Angelo, in particolar modo nella lettera – confessione all’editore di The Nation, forse il programma della letteratura dell’Altra Italia novecentesca: la letteratura errante.
Quando passa il ramarro dà forma e parola all’odissea d’un uomo che ha coscienza di ciò che gli appartiene: il lavoro, la lingua / le lingue, la cultura (che altro non è che le culture). Una ricchezza che può nascere solo dall’interscambio culturale. Egli scrive, dove aver navigato tant’anni nell’Oceano tedesco: «…Io voglio soltanto / quello che mi appartiene… ». Conscio che il suo navigare è un «varcare il silenzio / delle tue parole / per comprenderne la distanza… », in quanto avvicinamento tra anime e corpi di emisferi culturali diversi.
Perché Quando passa il ramarro è anche la testimonianza dell’avventura umana, civile e culturale, d’una persona che conosce uno a uno chi ha abbandonato la propria terra: «…Carmelo è partito / per il suo sogno tedesco… », magari andando incontro a naufragi e fallimenti. Una lirica sospesa tra memoria e quotidianità. E che, paradossalmente e grazie all’emigrazione, è un lento e continuo avvicinamento a ciò da cui ci siamo allontanati, un ricupero e riscoperta di civiltà e realtà spesso contrastanti e diverse. Ed è il poeta, prima del politico, del mercante e del sacerdote ad attivare un processo civile e culturale amalgamante.
In Quando passa il ramarro si rinviene il coraggio di chi onestamente riconosce che «in questa terra / ho imparato a vivere… / è in questa terra / che ho imparato ad amare… », denunciando il fallimento morale della Madrepatria. Le illusioni e delusioni di un’epoca che ci vide (tutti) impegnati contro la menzogna e l’ingiustizia: «… A chi hai regalato le pagine / della tua gioventù?». Senza assolvere il Paese nel quale vive, lasciando cadere il sale delle metafore in ferite ancora sanguinanti. Ricordando lo scontro / incontro tra chi è passato di fame in fame e i figli dell’ultima guerra. E l’attrazione per quella lingua che sembra un ostacolo per un definitivo amore.
Amaramente sottolineando (con l’occhio qui e altrove) che «…è difficile / raccogliere il coraggio / dove non si è seminato… ».

4. Il ramarro, si racconta, resiste al fuoco. Forse per via della sua natura solare e sotterranea. E l’emigrazione è un fuoco che può consumarti come può purificarti. Può distillare le migliori essenze, come può estinguerti. Può infiammare corpi e anime, come può incenerirti. Eppure dalle tremende fiamme di questo fuoco, come insegna la plurisecolare storia dell’emigrazione, sono uscite infinite creature e opere che meritano il massimo rispetto di chi s’avvicina a questa realtà, purtroppo, sconosciuta. Dove fuoco e fiamme significano un’altra lingua, un’altra cultura, altre tradizioni e attività lavorative che vanno dalla miniera all’altoforno, orari al limite della sopportazione e sfruttamento d’ogni genere, mancanza di diritti e avvio alle lotte civili per rendere la vita più vivibile e acquisire quei diritti di cui oggi godiamo.
Poco tempo e spazio s’è dedicato alla poesia, al romanzo, al giornalismo, al sindacalismo, come al teatro e al cinema, alla musica e alla pittura dell’Altra Italia. Anzi, sembra che non esistano. Spesso si accantona il tutto in espressioni d’altra lingua e cultura, dimenticando di avvicinarci a queste opere, intrise di italianità, con la dovuta umiltà, rispettandone la dignità. E la sincerità. È in queste opere che ritrovo come l’emigrazione abbia plasmato un’Altra Italia, nel vero senso della parola, il cui impegno è letteralmente segnato dal filo intrecciato delle lingue e delle culture. Al contrario d’una Patria monoculturale, arroccata su se stessa e su presunti privilegi.
In più d’un secolo almeno tre generazioni hanno costruito con le proprie mani gli strumenti adatti per interferire nel tempo, nella società e negli spazi in cui vivevano. Intendo strumenti linguistici (inglese, francese, spagnolo, portoghese, tedesco…). Intendo le immagini, teatrali, fotografiche e filmiche. Intendo la voce, i colori e l’addomesticazione di materiali vari, dai metalli, alla pietra sino al legno e alla plastica.
È nei rappresentanti di quest’Altra Italia che ritrovo i legami più attuali e sinceri tra la cultura proveniente dalla Penisola e il mondo intero. Un po’ più difficile, spesso pericoloso, cercarla tra i prodotti che provengono dalle officine della Madrepatria. Di qui il mio rispetto per quella letteratura errante che ha lasciato e lascia opere molto simili, nello spirito che le impregna e caratterizza, a quelle di carpentieri, stuccatori, muratori, scalpellini, affrescatori, musicisti… d’altri secoli e che, ancora oggi, sono parte dell’intelaiatura architettonica e culturale dei Paesi che li ospitarono.
Sono anche queste le radici dell’Altra Italia.

Luigi Rossi, Bochum ,Germania
www.lombardimelmondo.org

Giuseppe Giambusso, Quando passa il ramarro / Geht die Smaragdeidechse vorbei, con una postfazione di Gino Chiellino, pag. 170 – Thelem Verlag, Dresden 2008 (ISBN 978 – 3 – 939888 – 26 -0) (14,80 euro)

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