PROCESSO A MANI PULITE UN’ARRINGA PER LA DIFESA

Mario Segni

Forse mai abbiamo assistito a un revisionismo così profondo come nel caso di «Mani Pulite». È vero che a partire dal processo Andreotti, si verificarono deviazioni a volte gravi.
Ma è inaccettabile il giudizio storico che una pseudocultura garantista (ma è contro il garantismo processare un politico che ha preso tangenti?) tenta di imporre: quello di uno stravolgimento delle istituzioni che inquinò, o addirittura interruppe, la vita democratica.
Non è vero! Mani Pulite fu innanzi tutto un doveroso intervento della magistratura in una politica che aveva eretto la illiceità a sistema. Suscitò una forte domanda di moralizzazione, purtroppo inevasa. Difendo Mani Pulite anche perché vedo oggi riprodursi alcune delle cause che fecero esplodere la corruzione: il ritorno della partitocrazia senza regole, né controlli, la caduta del senso di legalità, il potere pubblico ancora amplissimo nella economia.
Luigi Sturzo scrisse che «dove crescono le male piante della partitocrazia e dello statalismo ne nasce sempre una terza: la corruzione». Ce ne stiamo dimenticando.

msegni@tin.it

Non ho mai avuto dubbi sull’importanza e sull’utilità di Mani Pulite.
So che i magistrati si sentirono investiti di una missione nazionale. So che le stalle avevano bisogno di essere ripulite.
E credo che abbia ragione chi intravede nell’attuale ondata di giudizi negativi su quel periodo un inconfessabile desiderio di impunità.
Vi è una parte della classe dirigente che non intende rinunciare alla facoltà di comprare voti, barattare favori, eludere le regole sul finanziamento dei partiti e, perché no?, arricchirsi.
Per questa classe dirigente Mani Pulite è un incubo da esorcizzare.
Ma vi sono aspetti di quella vicenda che non mi piacquero allora e che continuano a non piacermi. Non mi piacque, in primo luogo, che i magistrati fossero del tutto indifferenti alle ricadute politiche delle loro iniziative.
Non potevano ignorare che l’amnistia, pochi anni prima, aveva saldato i conti del Partito comunista italiano (finanziato prevalentemente attraverso canali sovietici) e che la loro azione avrebbe colpito soprattutto il settore degli appalti e dei rapporti con le imprese, da cui avevano tratto beneficio principalmente i partiti di centro-sinistra. Non potevano ignorare (lo spettacolo era sotto i loro occhi) che le azioni giudiziarie, condotte con un evidente spirito di crociata, avrebbero creato instabilità e aperto crisi dagli sbocchi imprevedibili.
Non mi piacque in secondo luogo che la magistratura esautorasse le istituzioni politiche.
Piaccia o no, quando un fenomeno acquista le dimensioni di Tangentopoli, la terapia deve essere principalmente politica, non giudiziaria.
Il discorso con cui Bettino Craxi in Parlamento proclamò una sorta di colpevolezza collettiva e propose una commissione d’inchiesta, aveva un vizio evidente: l’interesse personale dell’oratore. Ma prospettava una soluzione che gli eredi del comunismo, così attenti al primato della politica, avrebbero dovuto accettare.
La respinsero invece perché sapevano di essere meno esposti al rischio delle indagini e preferirono distruggere il nemico. Capirono che la politica stava cedendo il potere alla magistratura?
Lo stesso accadde quando Giuliano Amato e Giovanni Conso sottoposero alla firma del presidente della Repubblica un decreto che avrebbe depenalizzato il finanziamento illecito dei partiti politici. Anche quel decreto, come il discorso di Craxi, fu viziato dall’interesse personale dei partiti al governo. Ma il «pronunciamiento » televisivo dei procuratori di Milano fu, a mio avviso, più grave.
Aggiungo, caro Segni, un’ultima considerazione.
Mani Pulite si risolse, come era inevitabile, in una decimazione.
E aprì un dissidio, altrettanto inevitabile, fra le vittime e gli «impuniti»: un’altra piccola guerra civile di cui il Paese non aveva bisogno.

Sergio Romano

http://www.corriere.it/romano/08-06-14/01.spm

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