Il "no" irlandese al Trattato Europeo

L'antieuropeismo del centrodestra fomenta l'euroscetticismo

Occorre rilanciare il processo di integrazione europea

L'apertura delle urne del referendum sul Trattato di Lisbona (la nuova
versione della Costituzione Europea) tenutosi in Irlanda lo scorso 12 giugno
ha confermato ciò che molti preannunciavano: ancora una volta un popolo
europeo, chiamato a ratificare con il proprio voto referendario l'adesione
alla carta fondamentale dell'Unione, ha detto no.

Anche se con una percentuale molto bassa di consensi: i “no” sono stati poco
più della metà (53,4%) su un elettorato già scarso (53,1% dei votanti).
Insomma, solo lo 0,25% della popolazione totale dell'Ue. Una percentuale
così bassa non può ostacolare il processo costituente europeo, hanno detto
in molti, tra cui il nostro Presidente della Repubblica Napolitano.

L'esito referendario ha consentito alla Lega Nord, che ha brindato al “no”
irlandese vantando le origini celtiche comuni con la Padania, di confermare
le proprie posizioni politiche profondamente antieuropeiste. Il Governo
Berlusconi non ha saputo esprimere con sufficiente chiarezza le proprie
posizioni sull'intero processo di integrazione europea, a partire proprio
dalla carta costituzionale europea, e, ciò che più preoccupa, non ha saputo
rispondere con argomentazioni politiche serie al rischio di un crescente
euroscetticismo. Di fronte alle posizioni della Lega Nord, in sostanza, il
resto del governo Berlusconi non ha saputo dire con chiarezza da che parte
sta: se con l'Europa o con gli strenui difensori delle “piccole patrie”.

Tuttavia, al di là del rammarico per questo nuovo stop, è giunta l'ora di
porsi seriamente una domanda di fondo: come mai tanti popoli europei sono
diventati così euroscettici?

Il referendum irlandese non è il primo a rifiutare il Trattato: nel 2005 già
la Francia e l'Olanda avevano bocciato tramite il voto democratico dei
propri cittadini il precedente trattato costituzionale e qualche timore si
annida anche sulle prossime ratifiche dell'attuale Carta nei paesi dell'Est.

Ciò che emerge è che il progetto europeo non appassiona più come ancora alla
fine degli anni novanta, quando l'Italia del primo governo Prodi risanò i
suoi conti e centrò l'obiettivo della moneta unica. Forse è proprio a
quest'ultimo argomento che bisogna guardare per comprendere la disaffezione
verso il “sogno europeo”: l'Europa in questi anni si è fatta percepire
soltanto come burocratica e monetaria, attenta soltanto a unire il proprio
mercato comune piuttosto che integrare i propri popoli e tutelarne i diritti
sociali. L'Unione Europea rappresenta un'opportunità di crescita politica ed
economica ma anche democratica: sarebbe opportuno crederci sempre, anche
recependone le direttive e dimostrando serietà rispetto ai rischi di
attivazione delle procedure d'infrazione. Il Governo, su questi temi, deve
ancora dimostrarci il proprio europeismo.

2.

Confermati dal Governo i tagli ai capitoli degli italiani all'estero

Il no dei Deputati del PD e IDV in Commissione affari esteri della Camera
non è bastato a fermare il parere positivo che arriva dalla III Commissione
sulla conversione del decreto ICI.

Le criticità sollevate nella discussione avvenuta in Commissione hanno
portato unicamente al possibile recupero – peraltro internamente al bilancio
degli Esteri e quindi suscettibile di ulteriori tagli ai capitoli per le
comunità italiane nel mondo – per le iniziative legate alla dichiarazione
universale dei diritti dell'uomo ed all'Accademia delle Scienze del Terzo
mondo.

E sulla mancata estensione dell'esonero dall'ICI per gli italiani all'estero
assistiamo al classico scarica-barile con un semplice passaggio di
responsabilità al dicastero interessato: economia e finanze. Francamente il
nostro no era necessario. Non sono possibili, sui tagli, aperture di credito
da parte dell'opposizione. Per due ragioni. Il provvedimento sull'ICI, nella
sua interezza, non contribuisce certamente a ridurre il divario tra le
classi sociali e di reddito ed alimenta una percezione antifederalista di
tipo fiscale, quando l'elemento forte del federalismo deve partire proprio
dalla territorialità dell'imposizione fiscale e dalla sua rispondenza ai
bisogni del cittadino in termini di servizi. Il provvedimento esclude
dall'esonero ICI, in maniera fortemente discriminatoria, i cittadini
italiani residenti all'estero, facendo pagare a questi – in termini di
servizi, personale dei consolati, finanziamento a progetti di assistenza
sociale o di promozione culturale e linguistica – un prezzo molto alto, pari
a circa 20milioni di euro. Tutto ciò senza aver predisposto un vero piano di
razionalizzazione, senza aver fissato delle priorità e, soprattutto, in
assenza di un vero piano di riforme. A poco servono le dichiarazioni-appello
affinché in vista della prossima finanziaria vi possa essere un'azione di
recupero. Anzi, si tratta di un segnale che accresce le nostre
preoccupazioni. Credo che il Governo, nel tentativo di dare risposte senza
avere gli strumenti analitici per farlo, abbia sostanzialmente confermato
che i tagli sono il risultato di una scelta premeditata che colpisce
pesantemente le comunità italiane nel mondo. E ciò è avvenuto con il pieno
sostegno dei deputati di maggioranza, anche quelli eletti all'estero.

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