MITI D’OGGI NELL’EDUCAZIONE E OPPORTUNE CONTROMISURE

La scuola, il ruolo dell’educatore, il rapporto tra insegnanti e allievi costituiscono un tema di estrema attualità.
I quesiti al cuore del problema “scuola” sono: chi educa l’educatore? Quali sono le nuove ideologie, i nuovi dogmi, le credenze che popolano l’immaginario educativo in modo spesso implicito ed inconsapevole lungo il processo di formazione delle nuove generazioni? La scuola sembra diventare il regolatore degli aspetti più estremi di un duplice disagio dei giovani e degli insegnanti. Nei giovani emerge un forte squilibrio tra sviluppo intellettuale molto accentuato (nuove tecnologie e massmedia) e sviluppo emotivo che tende ad essere invece legato a significati interiori e simbolici, fino ad esplodere in eventi incomprensibili. Il disagio degli insegnanti è collegato alla perdita di ruolo e di significato della mansione pedagogica in una società che attribuisce valore a ciò che esula dal campo educativo. E’ sempre più avvertita la percezione di uno scollamento maggiore tra giovani e gli stessi insegnanti e proprio per questo motivo l’ex Ministro della Pubblica Istruzione, Tullio De Mauro, proprio sull’onda dei drammatici risvolti tipici del mondo adolescenziale, ha tentato una maggiore diffusione della figura dello psicologo nelle scuole come se ci fosse bisogno di educazione dell’anima, della gestione delle emozioni, di sentimenti e come se questa educazione non facesse già parte della mansione pedagogica che è alla base del ruolo dell’insegnante. Le dinamiche affettive sono insite nel processo di formazione ed educazione, analizzando gli aspetti più in ombra dei movimenti e dei “miti” di cui è pervasa l’educazione attualmente.
• Per esempio, il mito del cambiamento. In un mondo che si evolve in continuazione tutto deve essere nuovo. Il “vecchio” non ha più valore.
• Il primato della tecnologia come nuovo ordinatore del mondo, subentrato anche nella didattica.
• Il mito della valutazione come esercizio di controllo
• Il mito dell’intelligenza emotiva, intesa come strumento di successo sia nella vita privata che pubblica in ambito scolastico e lavorativo, da valutare secondo quozienti prestabiliti

Si va diffondendo implicitamente e tacitamente un pensiero di tipo unico che nasconde ogni possibilità di ambivalenza e questo si introduce in tutte le esperienze educative, ma trova una sua effervescenza nell’ambito scolastico. Siamo molto raffinati talvolta nell’occuparci di singole questioni di aspetti e tecniche educative, di interventi e progettazioni formative, ma li pratichiamo con categorie, tecnologie, terminologie, linguaggi e idee che non sono stati filtrati e sufficientemente rielaborati. Questi impliciti ideologici ed elementi tattici costituiscono “i miti dell’educazione” che hanno nella loro stessa “mancanza di esperienza” una loro ragione d’essere. Ma una sorta di circolo vizioso porta in questa esperienza elementi altrettanto negativi. Alora nel nostro mondo l’assenza di un autentico contatto, di un’intimità produce di fatto la fantasia per cui sia meglio sostituire la relazione educativa con una grande idea di tipo tecnologico, in modo che le nuove tecnologie possano supplire a questa dimensione con un’invasività e pervasività che produce una moltiplicazione della diminuzione del contatto umano. Sempre nell’ambito dell’esperienza della “clinica della formazione” la diminuzione delle capacità di mettersi in contatto con l’alterità, vale a dire con ciò che è “altro” fuori e dentro di noi, produce sempre la necessità di cambiamento, di trasformare gli altri per non avvertirli come insufficienti, cambiando di conseguenza anche noi stessi. Allo stesso modo ancora l’incapacità di sostare, di vivere momenti autentici di silenzio per essere in contatto con il dolore dell’”altro”, produce questa insana vocazione a desiderare di crescere, di svilupparsi, di accumulare energia, di allontanarsi da tutto il negativo, da ciò che possa evocare la fine, il nulla, il dolore, la sosta, la rottura. Di fronte a tutto questo evidentemente si assiste ancora una volta all’assenza di una capacità di stare in contatto con tali situazioni, mostrando così la fenomenologia di questi eventi. Ancora la carenza nell’esperienza educativa della fiducia nel desiderio di imparare e della propria capacità di stimolare il desiderio di conoscere, di apprendere negli altri. Si percorre la direzione che determina quali saranno i sentimenti efficaci, quali devono essere le emozioni che dobbiamo provare ed adottare o meno, per resistere ed essere all’altezza della “cultura” nel mondo in cui viviamo. Questo è il problema dell’intelligenza emotiva che misura de facto l’introversione, la malinconia, la stessa depressione come elementi di deficit, di handicap emotivo: un altro dei correlati di quella che consiste in un'ideologia mancante, una sorta di estremismo pragmatistico, una ragione strumentale portata all’eccesso o comunque sicuramente una letteralizzazione del linguaggio che ha perso ogni specificazione. Termini come sviluppo, crescita, cambiamento di cui tutti si sentono fautori, propositori e propulsori inutilmente.
Ciò significa che tali termini sono stati completamente depotenziati. Come controidea e suggestione non è tanto importante avversare tali fenomeni, ma far cogliere che sono ambivalenti, rispetto a cui non ci si può schierare totalmente. Molto importante è mantenere costante un elemento di ambivalenza, tenere presente l’elemento oscuro che diventa tanto più latente, quanto maggiormente si enfatizza invece la luminosità del modo in cui osserviamo tali idee (crescita, sviluppo, cambiamento) o miti, definiti così in modo provocatorio, evidentemente. Quindi dobbiamo cercare di recuperare la dimensione naturale di tali espressioni anziché, come appare nel lessico comune, coglierle nella loro unilateralità, rispetto ai nostri comportamenti, sia nell’educazione che nella vita quotidiana, generale.

Teorie mitologiche

Se assumiamo l’idea di “teoria” nella valenza storica etimologica, teoria significa appunto “trascorrere” (dal greco teorein), “andare”, “attraversare”, verbi di movimento che si attribuiscono a tali miti inducendoci a dissacrarli. Entriamo nella mitologia del cambiamento, della tecnologia, della valutazione e creatività, mutuata dal mondo della scuola e dell’insegnamento, dove l’istituzione scolastica continua ad essere il luogo per eccellenza dell’educazione, quando in realtà da sempre il sistema educativo e formativo è migrato altrove. La scuola sembra un luogo vuoto, stando all’interpretazione di questi miti che giustamente dobbiamo leggere e sottoporre ad un vaglio e giudizio severissimi. Intercorre un’antica differenza tra la parola mito e logos. Il termine mito è stato assunto nel linguaggio comune, giovanile con una certa spigliatezza. Mito è narrazione, racconto, evocazione, commemorazione di storie dotate di una intrinseca completezza e significatività semantica. Il mito (storia) viene contrapposto al logos (ragione), con una forzatura che talvolta ha imprigionato l’idea di mito all’interno di concetti negativi infelici, evocatori di irrazionalità e di tensioni inconcepibili per la mente razionale.
Visione di mitologia che va dissacrata nel mondo delle idee della formazione e nei nostri simulacri comuni: i miti non sono favole, ma un’opposizione ancora attuale alle forme più temibili di certi ragionamenti e logiche umane. Ma i miti ricordano che entrare in educazione è essenzialmente racconto, autonarrazione, creare emozioni rispetto ai vissuti rievocati, è ascoltare…L’idea di fondo consiste nel porsi dinnanzi alla critica delle illusioni di certe allucinazioni di alcune fantasmagorie nell’estro del praticare formazione. Sono radicali i miti, ma anche credenze deboli come testi che propongono altre rapsodie mitologiche che si ravvisano in quegli dei minori cacciati dagli dei supremi e che ritroviamo negli anfratti della nostra vita quotidiana, in testi usuali, ma che costruiscono l’esperienza educativa. Quei miti che rappresentano figure minori, potnie, ninfe, gnomi che abitano gli anfratti della nostra mente, della nostra fantasia e creatività nella vita quotidiana e contribuiscono a trasmettere conoscenza, sapere, emozioni, situazioni ed istruzioni in un caleidoscopio variopinto di narrazioni mitologiche da ricercare ancora perché come sostiene Hillman ”vivere senza miti è tristissimo come dover vivere senza letteratura e poesia”. Come potremmo immaginarci un’esperienza quotidiana privata della dimensione letteraria, dell’arte dell’immaginario. I miti sono politeisti ed ogni tentativo di renderli invece strumento di un monoteismo con il tentativo di fossilizzarsi in un modello unico che attualmente ci stanno riproponendo nella scuola in corso di riforma ed in tante ritualità educative, anche interscolastiche, questi miti ci costringono ad entrare giocoforza con difficoltà e con costrizione all’interno di tali gabbie. Svelare l’implicito e il troppo visibile, l’usuale, il consueto nella pratica e traduzione nella “Clinica della Formazione”; critica nei confronti di tutto quanto diamo ormai per scontato, ma svelare significa anche testare la via dell’attraversamento dell’invisibile, dell’implicito, di ciò che non viene mai detto.

Il concetto di cambiamento

Il piacere di ”non cambiare” è un concetto provocatorio come reazione a tante pedagogie retoriche relative al fenomeno educativo del cambiamento, di cui noi pedagogisti siamo responsabili. Il tema e problema del cambiamento ci perseguita e quindi con il trascorrere del tempo lo addomestichiamo, citandolo come “variazione”, “interferenza”, “coincidenze della vita” o di miti minori del cambiamento ma inevitabilmente nell’esperienza più intenzionale dell’essere o del fare in formazione, nel momento in cui la crescita, l’educazione formativa è ciò che viviamo quotidianamente in termini esistenziali (il cambiamento esistenziale) il difficile percorso in cui ciascuno di noi è sottoposto nel vedersi trasformato, nell’accorgersi che nel corso della vita alcune esperienze cruciali trasformano l’individuo profondamente ed interrogano… in quel momento riappare la dimensione educativa e pedagogica, forse questo non accade più nei grandi sistemi e microsistemi che presentano, palesano e propongono il cambiamento. Come possiamo chiederci se è accaduto un qualcosa nel corso del tempo che ci ha aiutato a vivere meglio, ad imparare maggiormente? Tutto questo è cambiamento o metabletica. Esiste un elemento oscuro, nascosto, ancora latente dell’evoluzione metabletica interiore, che certo va demitizzato, ma che nel momento in cui viene a mancare, un’ampia ricerca educativa vanificherebbe la nostra possibilità di ragionare pedagogicamente. Dobbiamo essere cauti, prudenti nell’utilizzare tale concetto, ma è anche vero che l’indagine pedagogica non può rinunciare a porsi queste domande: lavoriamo per chi? Per che cosa? Solo per accompagnare? Per assistere? Per accudire? Oppure ci prefiggiamo qualche altra modesta prospettiva.
“Non più desiderio di uniformare a mete condivise o pregnanti, ma accentuazione della particolarità, individuazione, proponimento difficile nell’anzianità, invito alla riconoscenza di sé e della propria appartenenza al mondo, non omologazione all’altro, approssimazione al turbinoso svolgersi della propria vicenda, non allontanamento verso itinerari prefigurati, e dunque anche cambiamento ma non accondiscendente (percorso d’anima) non intenzionale (percorso di mente) imprevedibile, non determinabile verso l'ignoto, non verso il pre-pensato, il pre-concepito, quindi cambiamento come costruzione sempre nel nuovo, nella vita.”

Ideologie inconsapevoli

Le ideologie inconsapevoli che operano al fondo della nostra cultura e della nostra organizzazione socioeconomica si ritrovano inesorabilmente anche negli ambiti che si occupano della formazione dell’individuo e della sua cura. Questo è il punto nodale della trattazione e individuate le ideologie inconsapevoli si può collocare la “Clinica della Formazione” in un filone filosofico critico, come la Scuola di Francoforte di teoria critica che deve essere di stampo adorniano, cioè il mito come ideologia inconsapevole che è fortemente cogente, per cui tutti la pratichiamo e nessuno ne è totalmente consapevole. L’immagine dialettica di Benjamin è ricollegabile alla “Clinica della Formazione” non come opera di decostruzione sistematica degli stereotipi e quindi di riduzione al nulla della formazione, in cui operano miti o stereotipi che impediscono di muoversi in maniera convincente e coerente. La clinica apre enormi prospettive profondamente radicate con il ritorno al contatto con il “trasmesso” con l’esperienza minima ed essenziale in cui troviamo spunti ed indicazioni per immaginare nuove prospettive della formazione. L’interazione tra il mito formativo e quello socioculturale in mano a chi ci governa ed entro il quale viviamo è molto potente e dannoso.
La nostra società offre l’idea di un intenso cambiamento continuo che in realtà non è attuativo. Benjamin sosteneva che il “nuovo”, la novità nel contesto sociale è proprio ciò che non cambia perché non è altro che la riedizione di un qualcosa che esiste già ed è sempre esistito.

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