Roma: giustizia e intolleranza

di Valeria Arnaldi

La vendetta “sommaria” al quartiere Pigneto

«L'ho fatto per lo schifo che c’è al Pigneto. Basta andare al commissariato di Porta Maggiore e vedere le denunce fatte dai cittadini. È una cosa mia, personale. La politica leviamola da mezzo». È questa una delle prime dichiarazioni rilasciate dall’uomo indagato come responsabile del raid avvenuto a fine maggio al Pigneto, a Roma. «È una cosa mia personale», dice l’uomo, che si è presentato spontaneamente in Questura. Ma, ammette lui stesso, a fargli compagnia in quella “personale” vendetta, ha trovato una quindicina di persone, che hanno finito per trasformare la rabbia di uno, in una spedizione punitiva.
La storia è semplice, quasi banale: a una donna viene rubato il portafoglio ed un suo amico cerca di ritrovarlo. Chiede in giro ad alcuni immigrati, che sa essere “informati” e gli viene indicato un negozio di uno straniero. Qui, trova un extracomunitario che gli promette di farglielo riavere, ma, al successivo appuntamento, l’uomo non porta nulla. E scattano le minacce: «Se vedemo alle 5, se non salta fuori il portafoglio sfascio tutto». Alle cinque, il portafoglio non “salta fuori”, a farlo però sono quindici giovani del quartiere, che, forse hanno solo voglia di alzare le mani, o, forse, rappresentano la disperazione di una zona “assediata” dalla microcriminalità, spesso di matrice straniera, che diventa il simbolo di una cittadinanza che si sente sola, abbandonata e costretta a farsi “giustizia da sé”. Il resto è la comune cronaca di un danneggiamento, con vetrine e saracinesche sfondate.
Questi, in sintesi, i fatti. Per uscire dalla sintesi, basta fare attenzione ad alcune parole usate nel racconto: “«immigrato», “«straniero», «extracomunitario». La differenza, in questa storia, è tutta lì. Perché la città è divisa. Da un lato, gli immigrati che accusano i romani in particolare, ma gli italiani in generale, di essere razzisti. Dall’altro, una cittadinanza che, come riconosciuto dalle stesse autorità, percepisce l’improvvisa insicurezza del proprio spazio urbano. E vitale. È proprio su quest’ultimo concetto che ci si dovrebbe concentrare per cercare di capire la reale dinamica dei fatti, ma questo non accade. Non lo fanno i media. Non lo fanno i politici. Non lo fa la gente comune, che accetta la versione che le viene offerta: è un raid razzista, fascista, squadrista, neo-nazista. In pochi si chiedono cosa effettivamente significhino quelle parole, molti le usano semplicemente perché riempiono la pagina o la bocca. E fanno effetto. Un brutto effetto, che va, in un certo senso, a “nobilitare” un atto di vandalismo. Perché, seppure sbagliata, un’ideologia, comunque nobilita chi vi crede, riconoscendo un movente più “alto” alle sue azioni, anche se condannabili.
Al Pigneto, però, è accaduto qualcosa di diverso e, forse, ancora più grave: la spedizione è avvenuta, dice il responsabile, per «lo schifo che c’è». Non contano Destra e Sinistra, conta che quella è stata la reazione dell’uomo qualunque. Certo, un uomo che ha precedenti contro il patrimonio e non esita ad alzare le mani, ma un uomo che non voleva difendere bandiere o filosofie, solo riavere il “suo”. E questo è molto più difficile da contenere di qualunque mini-movimento di estremisti. Facciamo un passo indietro. Torniamo in Questura. Il giorno prima di quello in cui il responsabile del raid si è andato a presentare agli agenti, dalle prime ore del mattino, gli agenti della Confederazione Autonoma di Poliza-Consap, manifestavano imbavagliati davanti alla sede, per denunciare «la carenza di risorse che impediscono di garantire la sicurezza della città». Poliziotti, nella loro giornata di riposo, picchettavano davanti ad altri poliziotti, in divisa, per chiedere più attenzione per una città che, in molti quartieri, confessano, «è abbandonata a se stessa».
«Occorrerebbero almeno altri due o tremila agenti – spiega il Sindacato –. Alcuni Commissariati non riescono a far uscire le macchine. La sera, c’è un’unica pattuglia con l’etilometro a turno. Mancano i mezzi, le attrezzature, gli uomini. Al Pigneto, i poliziotti non sono andati, perché non c’erano agenti». Insomma, gli uomini non ci sono. Né per garantire la sicurezza ai romani, né per garantirla agli stranieri. Nel frattempo arriva la notizia dell’Associazione Nazionale Thèm Romanò Onlus che promuove un corteo di protesta civile contro atti di razzismo nei confronti dei Rom e Sinti in Italia, dal quale poi «si passerà alla costituzione di un Coordinamento Nazionale Permanente Antirazzista». E adesso che c’entrano i rom? C’entrano, perché l’Associazione si è presa i tempi necessari all’organizzazione del corteo, ma, nel frattempo, la causa che lo aveva scatenato – il lancio di molotov contro campi nomadi – è caduta nel dimenticatoio, schiacciata dai più recenti episodi di questa guerra che si combatte tra italiani ed immigrati. Ormai, ogni giorno. «C’è un silenzio assordante, in questo momento in Italia – scrive Alexian Spinelli, presidente dell’Associazione, nella nota in cui annuncia il corteo – un silenzio colpevole, delittuoso. Può portare a un genocidio culturale pericoloso che noi Rom conosciamo sulla nostra pelle col nome di Porrajmos (divoramento), è marchiato sulla nostra carne! (…) Certo che il singolo che delinque va punito secondo le leggi vigenti ma non si può colpevolizzare un popolo intero, è razzismo! Com’è possibile che, mentre la situazione italiana è chiarissima all’estero visto il monito del Parlamento Europeo al nostro governo, in Italia nessuno si accorge di nulla? Non una sola voce autorevole di esponenti politici o ecclesiastici o di intellettuali italiani s’elevata per condannare una simile barbarie! Silenzio, silenzio tuonante! Silenzio connivente! Basta Pogrom!! Stop al razzismo!! No alla xenofobia!! No a nuovi genocidi! Chi tace acconsente!».
È vero, perché il male possa dire la sua è sufficiente che i buoni rimangano in silenzio. O che parlino senza trovare nessuno che li ascolti. Così, per paradosso, la gente pensa che sia la sicurezza il fronte su cui stranieri e italiani combattono questa battaglia. In realtà, questa non è il campo, ma finisce per essere motore e traguardo. C’è bisogno di sicurezza. Per tutti, stranieri e romani. E di giustizia.

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