PERCHÀ I NOSTRI POLITICI VOGLIONO STARE IN ITALIA

Spesso i politici e i media nazionali lamentano l’insufficiente riconoscimento del ruolo di «grande Paese fondatore» dell’Italia nel contesto dell’Unione europea, quasi sempre senza analizzarne le cause. Tra queste, penso che una posizione dominante vada attribuita al ruolo di comodo che è riservato dalla politica italiana ai posti di rappresentanza nelle Istituzioni europee rispetto al contesto nazionale. Ne è recente esempio — al di fuori di qualsiasi giudizio sulle riconosciute competenze dell’interessato— le dimissioni da vice-presidente della Commissione europea dell’onorevole Frattini per riprendere le funzioni di ministro degli Esteri già ricoperte nel precedente governo Berlusconi. Quest’ultimo esempio ha riportato l’attenzione degli ambienti comunitari sui precedenti dell’onorevole Malfatti e dell’onorevole Ripa di Meana che lasciarono anzitempo i loro incarichi alla Commissione europea— l’onorevole Malfatti addirittura quello di presidente —per riprendere il loro ruolo nella politica nazionale. Ancora più numerosi e sorprendenti sono le esperienze registrate in sede di Parlamento europeo: mi limiterò a ricordare i casi del giornalista televisivo Santoro, eletto nelle liste del centro-sinistra a causa del suo allontanamento dalla Rai (e dimessosi non appena si è resa possibile la riassunzione) e del direttore del Foglio Ferrara, eletto per il centro destra, che in un’intervista si vantò di non aver mai partecipato ai lavori del Parlamento europeo. E questo malgrado gli alti stipendi attribuiti ai parlamentari italiani a causa del livello delle loro indennità nazionali, abbiano recentemente obbligato il Parlamento europeo ad un grosso sforzo finanziario al fine di avvicinare i trattamenti dei parlamentari degli altri Paesi dell’Ue a quelli dei nostri connazionali. Lo stesso presidente Prodi— si ricorda— fu candidato dall’Italia alla presidenza della Commissione per «allontanarlo» dalla politica nazionale dopo la caduta del suo governo.

Pierpaolo Merolla Directeur honoraire Commission Européenne, |

Caro Merolla, Ricordo alcuni uomini politici italiani che presero sul serio i loro incarichi europei: Emma Bonino, Altiero Spinelli, Giovanni Marcora, Filippo Pandolfi e qualcun altro. Ma furono, complessivamente, eccezioni. Il caso di Franco Maria Malfatti, dimissionario per tornare in Italia e prendere parte alle elezioni anticipate del 1972, fu il più clamoroso. Ma conviene ricordare che lo stesso Romano Prodi avrebbe potuto restare a Bruxelles per un secondo mandato e preferì invece rientrare nella politica italiana con il risultato, per lui non particolarmente gratificante, di cui siamo stati testimoni negli scorsi mesi. Il fenomeno non concerne soltanto Bruxelles e le sue istituzioni. Negli ultimi sessant’anni, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, abbiamo assistito alla nascita di una dirigenza internazionale composta da uomini e donne che, dopo una brillante carriera nazionale, hanno accettato incarichi importanti all’Onu, nelle sue agenzie, alla Banca Mondiale, al Fondo Monetario e in altri istituti specializzati con una forte vocazione mondiale. La percentuale degli italiani in questa nuova categoria è insignificante. Quando l’Unione europea, negli ultimi anni, ha dovuto inviare i suoi rappresentanti nei Paesi balcanici (Bosnia, Kosovo) con incarichi proconsolari, la scelta è caduta generalmente su francesi, tedeschi, britannici, svedesi. Forse perché i nostri uomini politici sono stati scartati da candidati più qualificati? No. Nella maggior parte dei casi, con qualche eccezione, non abbiamo trovato personalità di spicco che fossero pronte a staccarsi dal piccolo cerchio della politica nazionale per andare a lavorare in Europa e nel mondo. Credo che vi siano almeno due ragioni. In primo luogo i politici italiani imparano a giocare con regole che non sono quelle dell’Europa e del mondo. Quando sono a Montecitorio, al Senato e in altri palazzi della capitale, sanno maneggiare i ferri del mestiere, barattare posti e cariche, mercanteggiare favori. Quando abbandonano le anticamere, i corridoi e i salotti romani, sono spaesati e smarriti. Non è soltanto questione di lingue straniere, che spesso non conoscono. È questione di mentalità e cultura politica. In secondo luogo un passaggio all’estero, benché brillante, non giova al loro futuro. Chi lascia l’Italia «esce dal giro» e fa molta fatica e rientrarvi, anche se l’esperienza accumulata nel frattempo dovrebbe rendere la sua persona ancora più apprezzata e utile. È meglio restare a Roma, dove si distribuiscono le cariche nazionali e lo sgabello di oggi può diventare la poltroncina di domani.

http://www.corriere.it/romano/08-06-01/01.spm

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