Entrato in vigore il Decreto Legge in materia di sicurezza pubblica

di Antonino Pulvirenti

NORMATIVA / Stato

Il 27 maggio 2008 è entrato in vigore il Decreto Legge n. 92/2008 recante “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”. Tra le norme introdotte o modificate da tale provvedimento governativo ve ne sono alcune che riguardano il codice penale e il codice di procedura penale. La finalità complessiva è quella di inasprire il trattamento sanzionatorio destinato agli autori di reati ritenuti di particolare allarme sociale e di ridurre i tempi di svolgimento dei procedimenti penali ad essi relativi. Seppure ad una prima, ed inevitabilmente sommaria, lettura, il decreto non manca di suscitare più di una perplessità.

E' stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 122 del 26 maggio 2008 ed è entrato in vigore il 27 maggio 2008, il Decreto Legge n. 92/2008 recante “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”.
Il Decreto Legge, secondo la schemattizzazione fattane dall'Ufficio Stampa e Comunicazione del Ministero dell'Interno (consultabile in www.giustizia.it), può essere suddiviso in nove punti:
1) Nuove norme per contrastare l'immigrazione clandestina: espulsioni più facili e confisca degli appartamenti affittati agli irregolari;
2) pene più severe per chi guida in stato di ebrezza: revoca della patente e confisca del veicolo;
3) nuovi poteri ai sindaci;
4) più cooperazione tra polizia municipale e forze dell'ordine;
5) ampliamento dei casi giudicabili per direttissima;
6) certezza della pena: più difficile sospenderne l'esecuzione;
7) misure più efficaci nella lotta alla mafia;
8) più facile la distruzione delle merci contraffatte;
9) divieto di patteggiamento in appello per i reati di mafia.
Occorre, però, mettere subito in evidenza una discrasia esistente tra l'ultimo punto della suddetta schematizzazione e l'effettivo contenuto del decreto. Invero, sebbene lo schema circoscriva il divieto di “patteggiamento in appello” ai procedimenti relativi ai “reati di mafia”, l'art. 2 del decreto, lett. i) ed l), abrogando gli articoli 599, co. 4 e 5, e 603 co. 2, c.p.p., ha esteso il divieto a tutti i reati, senza distinzione alcuna. E' stata così drasticamente ridotta l'area di operatività della c.d. giustizia negoziale (o “consensuale” che dir si voglia) nel nostro sistema processuale penale, nel quale però continua ad essere applicabile il patteggiamento (art. 444 c.p.p.) in sede di udienza preliminare (art. 446 co. 1 c.p.p.) e (per i procedimenti a citazione diretta) in sede di giudizio di primo grado (art. 552 co. 1 , lett. f). Una novità questa che, seppure condivisibile sul piano sistematico-costituzionale (a tal riguardo, anzi, è noto come la più avveduta dottrina processual-penalistica da sempre dubiti della legittimità costituzionale dello stesso patteggiamento tradizionale), appesantirà non poco il già gravoso lavoro dei giudici di appello, i quali – c'è da scommetterlo – da qui alla conversione del decreto legge faranno sentire la loro voce di protesta.
La norma richiamata, così come tutte le altre contenute nel decreto legge, è immediatamente efficace e, quindi, “colpirà” anche i procedimenti penali pendenti al momento dell'entra in vigore del provvedimento normativo. C'è da chiedersi, però, se il divieto possa estendersi anche alle istanze di concordato in appello già avanzate dall'imputato ed accolte dal pubblico ministero, quelle cioé che attendono soltanto di essere decise dalla Corte di appello. A tali ipotesi, in base al principio tempus regit actum, il divieto non dovrebbe applicarsi, anche se è facile prevedere che, in mancanza di una norma esplicita, il quesito sarà oggetto di accese diatribe giurisprudenziali e dottrinali.
Sempre in tema di riti speciali, un altro punto importante del decreto è quello volto ad ampliare il ricorso al giudizio direttissimo e al giudizio immediato.
In ordine al primo, i nuovi commi 4 e 5 dell'art. 449 prevedono che, in caso di convalida dell'arresto in flagranza e di confessione dell'imputato, il pubblico ministero non sia più libero di valutare se procedere o meno con il rito direttissimo, essendo ora tenuto ad attivare sempre il rito speciale a meno che ciò possa “pregiudicare gravemente le indagini”.
In ordine al secondo, il decreto, da un lato, ribadisce l'assenza di discrezionalità del p.m. (il quale “chiede” e non “può chiedere” il giudizio immediato: art. 453 co. 1 c.p.p.), fatta sempre salva l'ipotesi in cui possa derivare un grave pregiudizio per le indagini; e, dall'altro, introduce una nuova ipotesi applicativa: “per il reato in relazione al quale la persona sottoposta alle indagini si trova in stato di custodia cautelare” (art. 453 co. 1-bis c.p.p.). Per la richiesta di questa nuova ipotesi di giudizio immediato, il dies a quo è costituito dalla definizione del procedimento di riesame ex art. 309 c.p.p. ovvero dopo il decorso dei termini per la presentazione della medesima richiesta di riesame (art. 453 comma 1-ter c.p.p.), mentre il termine finale è fissato in centottanta giorni dall'esecuzione della misura cautelare (in deroga al termine di novanta giorni dalla iscrizione della notizia di reato ordinariamente stabilito dall'art. 454 co. 1 c.p.p.).
Non mancano, al riguardo, le perplessità. Anzitutto, non si comprende perché la discrezionalità del p.m. sia stata ridotta (nei termini di cui si è detto) in relazione alle nuove ipotesi di applicazione del rito direttissimo e sia invece rimasta inalterata in relazione all'ipotesi principale di applicazione di tale rito, vale a dire “quando una persona è stata arrestata in flagranza di un reato”. In tali casi, essendo rimasto immutato il tenore letterale dell'art. 449 co. 1 c.p.p., il p.m. che intenda richiedere la convalida della misura pre-cautelare, continua a procedere con il rito direttissimo se lo “ritiene”.
Più in generale, poi, non si mancherà di osservare che le potenzialità acceleratorie di tali norme, sia in materia di direttissimo che in materia di immediato, rischiano di essere vanificate dalla genericità del presupposto derogatorio (il grave pregiudizio alle indagini) e, soprattutto, dalla mancanza di una disposizione che imponga al p.m. di motivare la sua scelta procedimentale o che consentano l'instaurazione del rito alternativo tutte le volte in cui lo stesso p.m. disattenda il precetto della legge.
E' stato modificato anche l'art. 656 del codice di procedura penale. Tale norma, com'è noto, impone al p.m. di sospendere l'esecuzione della pena detentiva (già inflitta dal giudice con sentenza di condanna passata in giudicato) che, in concreto, non sia superiore a tre anni. Sarà poi il Tribunale di sorveglianza a decidere se alla sospensione debba seguire la concessione di una misura alternativa alla detenzione (che, nel frattempo, il condannato avrà dovuto richiedere) o se, al contrario, la pena debba essere eseguita in forma detentiva. Tale meccanismo sospensivo (nato al fine di evitare gli effetti criminogeni e stigmatizzanti del carcere a quei condannati che, già al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, possiedono i requisiti sostanziali per essere ammessi alle misure alternative alla detenzione) non è però applicabile, tra gli altri, ai “condannati per i delitti di cui all'art. 4 bis della legge 26 luglio 1975 n. 354”, vale a dire a quei condannati il cui accesso ai benefici penitenziari è soggetto a condizioni più rigorose di quelle ordinariamente stabilite (c.d. doppio regime penitenziario). Orbene, il Decreto Legge n. 92/2008 ha ampliato le ipotesi ostative alla sospensione dell'ordine di esecuzione inserendo nel nono comma dell'art. 656 c.p.p. anche i reati di incendio boschivo (art. 423 bis c.p.), prostituzione minorile (art. 600 bis c.p.), furto in abitazione e furto con strappo (art. 624 bis c.p.) e rapina semplice (art. 628 c.p.), ma, per il resto, ha lasciato immutato il catalogo dei reati di cui all'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario. Coerenza non avrebbe voluto che la modifica fosse apportata direttamente all'art. 4-bis o.p. e che nell'art. 656 co. 9 c.p.p. venisse mantenuto il mero richiamo a tale ultima disposizione della legge penitenziaria? Invero, il risultato prodotto dal decreto non appare molto ragionevole: i condannati per i reati or ora elencati non possono usufruire della sospensione dell'ordine di esecuzione, ma, una volta entrati in carcere, possono accedere ai benefici penitenziari in base ai presupposti ordinariamente previsti. In altri termini, se il presupposto dell'innovazione normativa è che tali condannati siano particolarmente pericolosi (con tutte le perplessità che una tale selezione sempre determina), non si capisce come siffatta valutazione possa non riflettersi anche sulla disciplina sostanziale per l'accesso alle misure alternative alla detenzione (così come oggi accade per i detenuti di cui all'art. 4 bis o.p.).
Riguardo alle norme modificative del codice penale, in questa sede ne vanno segnalate due.
L'art. 1, lett. c) e d) del decreto legge ha aumentato notevolmente la pena prevista per coloro che, in stato di ebbrezza alcolica o sotto l'effetto o di sostanze stupefacenti o psicotrope, commettono i reati di omicidio colposo o di lesioni colpose mediante violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale. La lettera e) dello stesso articolo, al preciso fine di limitare la discerezionalità del giudice in sede di computo delle circostanze, ha stabilito che in tali ipotesi “le concorrenti circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni si operano sulla quantità di pena determinata ai sensi delle predette circostanze aggravanti”. Ci par di capire, quindi, che, una volta applicate le circostanze aggravanti, il giudice possa comunque procedere alle diminuzioni della pena derivanti dall'applicabilità di circostanze attenuanti. Ma se così è, la norma finisce per derogare – forse in modo inconsapevole? – al principio secondo cui il giudice, in caso di concorso di circostanze aggravanti ed attenuanti, deve procedere ad una valutazione unitaria di equivalenza o di prevalenza delle une sulle altre (art. 69 co. 4 c.p.). Ora, se l'obiettivo era quello di sottrarre l'applicazione delle circostanze attenuanti al giudizio di comparazione del giudice, non sarebbe stato più semplice configurare una o più fattispecie autonome di reato, anzichè optare per l'inserimento di nuove circostanze aggravanti?
L'art. 5 del decreto configura una nuova fattispecie penale a carico di chi ceda a titolo oneroso un immobile di cui abbia la disponibilità ad un cittadino straniero irregolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, con conseguente confisca dell'immobile “salvo che appartenga a persona estranea al reato”. Siffatta eccezione sembra destinata alle ipotesi di sublocazione dell'immobile. Non soggiace cioé alla confisca quel proprietario il cui immobile sia stato sublocato dal proprio locatario ad un immigrato clandestino. A ben vedere, però, non è la mera circostanza della sublocazione ad escludere le suddette conseguenze penali, nè è detto che ad escludere la responsabilità del proprietario sia sufficente il fatto che nel contratto di locazione sia stato specificamente previsto il divieto di sublocazione. Quel che conta, semmai, è verificare se, al di là del tenore letterale del contratto, il proprietario, al momento della sublocazione, fosse consapevole dell'iniziativa intrapresa dal proprio locatario e nulla vi abbia opposto. Solo in questo caso potrà dirsi “persona estranea al reato”. (Norma quotidiano di informazione giuridica)

Lascia un commento

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy