Le donne italiane in Argentina tra storia e letteratura

di Silvia Giovanna Rosa

PRESENTAZIONE

Mi chiamo Silvia Giovanna Rosa e vivo a San Mauro, una piccola cittadina immersa nel verde, ai piedi della collina torinese. Ho conseguito presso l’Università degli Studi di Torino la laurea triennale in “Scienze dell’Educazione” e attualmente sto terminando la specializzazione in “Educazione e Formazione Continua in età adulta”.
La tesi su “Le donne italiane in Argentina tra storia e letteratura”, discussa a conclusione del primo ciclo di studi universitari, nell’anno accademico 2004/05, nasce da un interesse che ha radici intime e profonde, scavate lontano nel tempo e alimentate a lungo da un intenso desiderio. O, meglio, da una necessità: scoprire e comprendere il difficile cammino dell’emigrazione, che ha condotto una parte della mia famiglia, insieme a milioni di persone, al di là dell’oceano, verso quella terra fantasmagorica, sconfinata, piena di città con strade lunghissime di lucine e insegne colorate, gremite di passanti, come io sognavo dovesse essere l’Argentina, ammirando con occhi di bambina le cartoline postali che mia nonna riceveva ogni tanto da Buenos Aires. A inviarle era sua sorella, la mia prozia, che nel 1949 lasciò l’Italia, al seguito di suo marito e con un bimbo di circa due anni, in cerca di lavoro e di una vita migliore. In casa mia, però, non ho mai sentito parlare di “emigrazione”, né di navi che solcano l’Atlantico, fischiando il suono desolato degli addii: i nostri familiari stavano in America, o semplicemente “laggiù”. In una specie di non-luogo, un angolo ritagliato nell’immaginario, sulla soglia della memoria, da cui ogni tanto giungevano notizie e fotografie di nascite e matrimoni.
Curiosità, credo. Forse la voglia di camminare in quella strada da cartolina col nome esotico, Calle Florida, che pareva alludere a giardini in fiore. Non saprei dire perché, ma un bel giorno, giovanissima, ci sono finita anch’io in America. E ho conosciuto la mia prozia. I miei cugini di “laggiù”. Certi viaggi, si sa, possono cambiare il corso di una vita. Oppure no, però bastano a creare legami indissolubili con il luogo e con la gente che si è avuto il piacere d’incontrare. A me, per la verità, sono capitate entrambe le cose. Ma questa è un’altra storia.
La mia tesi, scritta molti anni dopo quel viaggio, è un tentativo di analizzare alcuni possibili significati che l’esperienza migratoria ha acquisito per chi ne è stato protagonista, in particolare per le donne. Ho scelto questo argomento perché il racconto di alcuni frammenti della vita da emigrata della mia prozia, narrati da lei quando la conobbi, hanno continuato a risuonare come un’eco in me; m’è sembrato che, in qualche modo, sebbene ne fossi stata solo una testimone indiretta, mi riguardassero: a cominciare da quei giorni interminabili in balia dell’oceano, segnati dal lutto, quando la mia prozia scoprì di aspettare un bimbo, che non diede mai alla luce. Perso, in quella traversata, come gli affetti più cari da cui si separò partendo. E poi la nascita di un’altra figlia, le difficoltà economiche, i sacrifici affinché il figlio maggiore studiasse e diventasse medico, la solitudine delle ore trascorse affaccendata in casa, quella casa che il mio prozio muratore pare abbia costruito di notte, dopo il lavoro, alla luce artificiale dei lampioni, divorando panetti di burro che gli fornivano energia (!) a poco prezzo. Tutto questo (e molto altro ancora…), nelle lettere che giungevano in Italia, non era assolutamente menzionato. Quasi fosse stato inghiottito dalle formule edulcorate di cui corrispondenza epistolare con “quelli rimasti al paese” era infarcita: “Cara sorella, con questa mia ti faccio sapere che qui sto bene…che stiamo tutti bene e spero così anche voi…”.
Oggi la mia prozia ha novantasette anni. Lo sguardo presente, lucido, azzurro di sempre. L’ho rivista due anni fa e ancora si adoperava energica a preparare la comida! Questa tesi è dedicata a lei e alle donne senza volto né nome, che nella quotidianità delle loro ‘normali’ esistenze hanno portato a compimento, in modi e con esiti diversi, la straordinaria, eccezionale avventura del ripensare se stesse in un mondo nuovo. L’auspicio è che le loro storie di vita non siano dimenticate, rimosse, cancellate dalla memoria collettiva e che il ritratto forse più autentico e più sofferto degli italiani, “popolo di emigranti”, non venga occultato, insieme ad una parte importante del nostro passato, impigliato intorno al mondo nel fitto intreccio di sentieri migratori, come fili d’ortica pungenti nella complessa e contraddittoria trama della Storia d’Italia.
Vorrei ringraziare il Portale Lombardi nel Mondo, che mi ha concesso la preziosa opportunità di pubblicare ciò che ho scritto e che contribuisce con impegno a divulgare le piccole, grandi storie dell’Emigrazione. Perché di quei fili sottili, che tengono insieme gli italiani (e i loro discendenti) di ogni angolo del globo, non si perda traccia e non si smarrisca il senso.

INTRODUZIONE

Con questo lavoro ci si propone di analizzare il fenomeno dell’emigrazione delle italiane in Argentina, sia attraverso la prospettiva storiografica, sia mediante le immagini e le rappresentazioni che la letteratura non scientifica fornisce in merito.
Presentando gli studi storiografici riguardanti i casi delle agnonesi a Buenos Aires, delle italiane a Santa Fe e delle immigrate nella Patagonia del sud, si tenta una ricostruzione delle diversificate realtà e dei molteplici stili di vita che nel nuovo contesto le donne emigranti si sono trovate ad affrontare, nell’ottica di valutare come e in che misura le identità, i ruoli, gli spazi d’azione siano stati influenzati e stimolati in direzione di un rinnovamento da un’esperienza così radicale come quella migratoria.
Prendendo in considerazione i contributi che studiano la partecipazione femminile ai movimenti sociali e politici – socialismo, femminismo e anarchia – si dà risalto ad un aspetto forse poco noto dell’immigrazione in Argentina: il ruolo attivo che le donne italiane giocarono all’interno della nascente società, impegnandosi da protagoniste sul fronte delle lotte per i diritti al voto e alla parità salariale, per il miglioramento delle condizioni di lavoro, nonché in scioperi, manifestazioni culturali o veri e propri episodi di protesta, che mobilitarono centinaia di partecipanti destando notevole scalpore, come quelli ricordati col nome di ‘el grito de Alcorta’ o ‘la huelga de las escobas’.
Con l’analisi della letteratura italiana e di quella argentina, invece, si getta luce sulle componenti dell’esperienza migratoria femminile relative ai sentimenti soggettivi e alla sfera delle emozioni delle immigrate; al contempo si guarda ad importanti questioni prese in considerazione dalla storia, come il viaggio transoceanico, i conflitti generazionali all’interno delle famiglie, o il problema dell’integrazione, provando a coglierne tutte le sfumature, in particolare gli aspetti più dolorosi e drammatici, a cui la narrazione ha concesso quello spazio e quella sensibilità di indagine che difficilmente la mera ricerca storiografica poteva accordare loro.

Silvia Giovanna Rosa
Da “Le donne italiane in Argentina tra storia e letteratura”

Qualche cenno storico sull’emigrazione degli italiani in Argentina/1

L’emigrazione italiana nel mondo ha rappresentato un tratto caratteristico e peculiare dell’intera storia contemporanea del nostro Paese, configurandosi quale fenomeno di grande intensità, a lungo distribuito nel tempo, variegato per provenienza territoriale e sociale, diversificato per luoghi d’arrivo.
Tra le numerose destinazioni degli italiani, l’Argentina è stata a lungo meta privilegiata nelle varie fasi dell’esodo nazionale. Si può pertanto affermare che l’emigrazione italiana in Argentina è oggetto di studio complesso ed articolato per modalità e durata temporale, collocandosi nell’arco di quasi centocinquant’anni, tra gli anni Trenta dell’Ottocento e la fine degli anni Cinquanta del Novecento ed interessando circa 3.500.000 individui, provenienti da quasi tutte le regioni d’Italia (soprattutto dal Nord nell’Ottocento e dal Sud nel Novecento), a larga maggioranza di origine contadina, ma presenti in tutti i ceti sociali.
I primi gruppi di immigrati di una certa entità giunsero in Argentina intorno al 1830: erano in prevalenza liguri, del Regno di Sardegna, i quali si impiegavano come marinai nel nuovo Paese, sia per la possibilità di percepire salari più alti di quelli europei, sia per l’opportunità di dedicarsi ad attività commerciali, vendendo i prodotti portati con sé dagli Stati italiani (mercerie, pezze di tessuto a buon prezzo, pettini) nei porti latinoamericani. E’ ad essi che occorre far risalire i rapporti commerciali tra la futura Italia e la nuova Argentina. I liguri prosperarono tanto che nel 1855 costituivano per importanza, insieme ad una minoranza di migranti italiani provenienti da altre regioni, il primo gruppo europeo presente nella città di Buenos Aires, il 10% su una popolazione di 100.000 abitanti. Risiedevano prevalentemente nel quartiere portuale della Boca: la comunità, composta da un’alta componente di famiglie, era ben inserita nel tessuto sociale, anche se in posizioni modeste; grazie ai capitali accumulati con il commercio fu possibile in molti casi combinare matrimoni tra i figli di questi primi pionieri dell’emigrazione italiana e gli eredi dell’élite argentina, oppure consentire loro di intraprendere una carriera nel giornalismo, nelle professioni liberali o nelle strutture dello Stato argentino.
Dopo il 1852 l’Argentina inaugurò una fase di apertura e promozione dell’immigrazione, che fu concepita come opportunità di emancipazione dall’arretratezza in cui riversava il Paese e di modernizzazione economico-sociale. Mentre da un lato la Costituzione sancita dalla Confederazione delle province nel 1853 garantiva la libertà d’immigrazione e numerosi diritti per gli stranieri, dall’altro il Governo di Buenos Aires creava una Commissione di Immigrazione finanziata dallo Stato, che dal 1857 si adoperò nella produzione di statistiche migratorie e nell’apertura di un centro di accoglienza per gli immigrati appena sbarcati, l’antecedente del futuro Hotel de Inmigrantes. Sono questi gli anni delle leggi per la colonizzazione agricola soprattutto delle regioni dell’estrema frontiera – finalizzate a costituire nuclei di popolamento in zone abbandonate dopo la cacciata degli indios nativi- e della pampas, nonché di un ciclo di prosperità dell’economia argentina, favorita dall’esportazione di prodotti di allevamento, in particolare della lana. La situazione delle prime colonie, fra le quali vanno menzionate quelle nelle province di Santa Fe ed Entre Rios, che accolsero un numero considerevole di immigrati piemontesi, risultò tuttavia molto instabile e precaria.
Nello stesso periodo l’immigrazione si presentava anche e soprattutto come fenomeno urbano, e si componeva di un nuovo e particolare gruppo di italiani: gli esuli mazziniani e garibaldini, ai quali si deve la nascita del primo giornale e delle prime società di mutuo soccorso, che provvedevano ai bisogni primari degli immigrati (l’assistenza in caso di malattia o di morte), ben presto affiancati da altre istituzioni fondate da figure di spicco della comunità italiana, con finalità ricreative e di socialità, piuttosto che mutualistiche, e da giornali di diverso orientamento politico.
Questi primi decenni, tra gli anni Trenta e gli anni Settanta dell’Ottocento, risultarono fondamentali per i movimenti migratori successivi, poiché gli italiani, in prevalenza liguri e piemontesi, riuscirono a creare delle strutture comunitarie (ospedali, banche, imprese, società di mutuo soccorso) in cui avrebbero trovato spazio i futuri immigrati, anche se non sempre in modo vantaggioso, nonché ad inserirsi nella nascente struttura burocratico-amministrativa dello stato argentino.

L’IMMIGRAZIONE DI MASSA
La grande immigrazione iniziò intorno al 1885; per circa dieci anni il numero degli immigrati fu in costante ascesa, diminuendo, poi, in seguito alla crisi del 1890. A partire dal 1905-1906, l’immigrazione riprese la sua corsa, protraendosi con la medesima intensità fino al 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale, raggiungendo le sue cifre massime nel 1913. La punta massima relativa all’emigrazione italiana fu raggiunta, invece, nel 1907, con 127.000 arrivi. Nel complesso, fra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, emigrarono in Argentina ben 2.000.000 di italiani.
All’interno della massa degli immigrati esistevano due correnti, dalle caratteristiche sociali diverse: una nella quale predominavano i giovani, in maggioranza maschi, di origine rurale, che si fermavano nelle città, dedicandosi ad ogni sorta di mestieri, oppure si occupavano in lavori agricoli stagionali, come il raccolto o la tosatura delle pecore; l’altra costituita da gruppi familiari, che viaggiavano insieme o separati (prima i maschi, a seguire le donne con i bambini), che lavoravano prevalentemente nelle colonie agricole. Chi emigrava era spesso chiamato dai familiari o dai compaesani che si erano già stabiliti in America: seguiva, cioè, meccanismi a “catena.
Tra le fila dell’élite argentina l’immigrazione in massa degli italiani suscitò dapprima preoccupazione, poi un vero e proprio allarme. Le ragioni di questa situazione erano molteplici: innanzi tutto il peso enorme degli italiani sul flusso totale degli immigrati; essi intimorivano, poi, per la solidità delle loro strutture associative e la capacità di mobilitazione in occasione di feste e celebrazioni patriottiche, o la partecipazione a manifestazioni in appoggio a determinate scelte dei governi argentini; non da ultimo le apprensioni erano legate anche all’idea di minaccia sociale che si diffondeva tra le élites già inserite a pieno titolo nel tessuto sociale. Nonostante gli italiani non fossero molto amati in Argentina, tuttavia, in quanto bianchi ed europei, erano comunque preferiti ai nativi o ad altri particolari gruppi di immigrati, come russi o balcanici.
In coincidenza della crisi economica che colpì l’Argentina nell’ultimo decennio del XIX secolo, si verificò un calo degli arrivi nel Paese ed un aumento dei rientri in Italia; gli immigrati già inseriti in Argentina persero i risparmi accumulati negli anni precedenti; diminuì l’immigrazione settentrionale e crebbe quella meridionale e quella proveniente dalle Marche; scese il numero degli agricoltori ed aumentò quello dei lavoratori giornalieri, di coloro che si dichiaravano senza professione e degli artigiani (tendenza questa, che si accentuerà negli anni successivi).
Il censimento nazionale argentino del 1895 rilevava che gli italiani presenti nel paese erano il 12,5% di tutta la popolazione totale, cioè un numero pari a mezzo milione; fra loro c’erano 179 uomini per ogni 100 donne; erano presenti in tutti i gruppi socio-professionali: tra gli operai e tra gli imprenditori, tra i proprietari terrieri e tra i braccianti, tra i proprietari di case e tra i locatari, tra i lavoratori a giornata e tra i professionisti.
In questo periodo si affermava lentamente da un lato l’esigenza, da parte dei dirigenti del nascente movimento operaio e delle nuove forze politiche di sinistra, di sviluppare la coscienza di classe e l’inserimento degli immigrati nelle forme organizzative operaie; dall’altro la questione della nazionalizzazione degli immigrati e in particolare dei loro figli, da parte dello Stato argentino. Le élites argentine tentarono di trasformare i figli degli immigrati italiani in “argentini” attraverso un’aggressiva politica di integrazione nazionale, che si armò di tre principali strumenti: la legge sul servizio militare obbligatorio (1901), il voto obbligatorio (1912) e l’educazione patriottica, impartita nelle scuole pubbliche. L’esito fu positivo, come mostrano numerosi esempi citati anche dalla coeva stampa italiana: non solo i figli degli italiani erano ben integrati nella società argentina, ma a volte si dimostravano i più accaniti nell’osteggiare i propri connazionali. Questo fenomeno fu dovuto anche al fatto che il rapporto tra la nuova generazione e la cultura d’origine era più ambiguo, perché non vissuto ma recuperato tramite la mediazione principale dei genitori e dei parenti: i figli degli immigrati non solo non appartenevano alle associazioni e non leggevano i giornali italiani, ma avevano anche perso i contatti con la lingua dei genitori.
Nel 1914 fu realizzato il terzo censimento nazionale argentino, che fornì una descrizione piuttosto dettagliata degli italiani emigrati nel Paese: confermava la superiorità numerica del gruppo italiano, attorno a 930.000 unità, pari al 12% della popolazione; c’erano 172 uomini per 100 donne; persisteva un’elevata presenza maschile, da attribuirsi con probabilità sia alla meridionalizzazione del flusso, cioè ad una maggiore presenza di lavoratori con un’alta percentuale di ritorno, sia al fenomeno dell’immigrazione golondrina (di rondini) a predominanza settentrionale, che interessava quei lavoratori stagionali che si recavano nel Paese in occasione della mietitura.
Gli italiani presentavano un tasso di analfabetismo pari a quello dei nativi (36%) ma erano più urbanizzati degli argentini: si concentravano soprattutto nelle città nelle quali vi era stato un inserimento precoce (Buenos Aires, Rosario, La Plata), ma predominavano anche nelle aree rurali di recente o antica colonizzazione, come la pampa gringa. Gli italiani contavano il maggior numero di istituzioni censite (463), che avevano il più alto numero di membri, ed erano a maggioranza maschile. I comportamenti nelle scelte matrimoniali evidenziavano un’elevata endogamia, in particolare femminile, perché le donne avevano più opportunità di scelta, data la maggiore presenza di individui di sesso maschile e spazi più ristretti di socialità al di fuori della cerchia di parenti e amici. Per quanto riguarda l’inserimento spaziale gli italiani risultavano ben distribuiti su tutto il territorio. Avevano una buona leadership, istituzioni comunitarie forti che interagivano con il potere politico argentino e con i gruppi economici locali.
Gli immigrati italiani di quegli anni si inserirono in una società plurale ed eterogenea, con un livello di conflittualità interno basso, favorito anche da un mercato del lavoro molto fluido e dalla possibilità di espansione urbana.

Silvia Giovanna Rosa
Da “Le donne italiane in Argentina tra storia e letteratura”
www.lombardinelmondo.org

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