Il dramma israelo-palestinese

di Felice Besostri

Si conclude oggi la riflessione avviata da Besostri su “Israele e il sionismo”. La prima puntata (“Israele, la Sinistra e il Sionismo”) era apparsa sull'ADL dell'8 maggo scorso, la seconda puntata (“La Terra santa e la sua invenzione”) è stata pubbllicata ieri. Testi precedentemente pubblicati sul medesimo tema: Vera Pegna, “Sionismo o pace: la scelta è vostra” (ADL 28.4.08), Claudio Vercelli, “Lo Stato d'Israele ha sessant'anni” (ADL 5.5.08).

Il dramma israelo-palestinese si scatenò quando la risoluzione delle Nazioni Unite, che poneva fine al mandato britannico e prevedeva la spartizione della Palestina in due stati non fu accettata dagli Stati arabi confinanti, che scatenavano la guerra nel 1948.
In una situazione di guerra ogni parte può ricordare le atrocità dei nemici, coprendo ed ignorando le proprie: nessuna di esse giustifica le altre.
Ora possiamo scegliere tra due strade, quella della vendetta e quella della composizione dei contrasti.
Nella scelta peseranno inclinazioni, esperienze subite di ingiustizie, ma anche gli obiettivi da raggiungere e gli interessi da tutelare.
Nella mia opinione l’interesse primario della popolazione israeliana e palestinese è nella pace, Shalom e Salam, nello sviluppo economico e civile, in questo caso particolarmente dei palestinesi.
Problemi giganteschi, ma che possono essere aggravati se la condanna di pratiche di occupazione, di chiusura di frontiere e di massicce rappresaglie diventa accusa di genocidio e di pulizia etnica.
La popolazione araba palestinese ed araba israeliana è incessantemente cresciuta di numero, anzi settori dell’opinione pubblica israeliana temono proprio il dinamismo demografico della popolazione araba. Una grande Israele estesa alla Cisgiordania in poco tempo avrebbe una maggioranza araba e mussulmana, a quel punto il mantenimento del controllo del Parlamento e del Governo richiederebbe la negazione della democrazia, non concedendo il voto ai cittadini acquisiti ovvero deportando la popolazione.
La necessità di un processo di pace è quindi nell’interesse degli stessi israeliani, anche se il dibattito sulla natura dello Stato di Israele, se Stato ebraico o Stato per gli ebrei, è ancora in corso.
I rapporti tra sionismo e religione, sono stati burrascosi, fatto che non si può dimenticare e che dovrebbe rendere cauti spiriti laici a brandire personalità e pensatori religiosi contro il sionismo e perciò contro lo Stato di Israele.
Basta leggere i racconti di Isaac B. Singer per rendersi conto dello scompiglio portato dai sionisti, nel mondo chiuso delle comunità ebraiche in cui dominavano rabbini e zaddik. La liberazione delle donne, lo scatenamento di energie, il desiderio di conoscenza sono stati un fattore di progresso e di normalità ebraici.

Nello stesso tempo il sionismo socialista fu un fatto di rottura nel movimento operaio con gli scontri con il Bund ed i partiti socialisti o socialdemocratici, spesso fondati e diretti da altri ebrei, come è stato anche il caso di diversi partiti comunisti nei paesi arabi, a cominciare da quello egiziano.
Ragionando di ebrei e sinistra è interessante notare ed è un dato positivo come l’origine familiare non determinasse alcun specifico orientamento ideologico, basta pensare a Rosa Luxemburg ed Eduard Bernstein ovvero a Julius Mantov e Leon Trotzky (Robert S. Wintrich, Revolutionary Jews from Marx to Trotsky, Londra, 1976).
Il sionismo politico è nato nel secolo del risveglio delle nazionalità e perciò porta con sé tutte le contraddizioni di un movimento di risveglio nazionale. Ho già fatto l’esempio del risveglio nazionale slovacco e romeno a danno dei magiari, che vivevano in quei territori da altrettanto tempo. Nel suo piccolo anche il Risorgimento italiano sacrificò le popolazioni slovene, croate e tedesche, che per ventura si trovavano nei confini naturali dell’Italia.
Senza questa aspirazione a riunire in un unico stato tutti i pretesi membri di una stessa comunità nazionale non si spiegherebbe l’art. 51 c. 2 della nostra democraticissima Costituzione, “La legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici ed alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica”.
Una norma che sotto lo statuto albertino riguardava “gli italiani non redenti” e frutto del contesto risorgimentale, affinché il Piemonte potesse diventare la terra elettiva di tutti i patrioti italiani.
Spesso l’identità nazionale si forma nelle guerre, così è stato per la Francia rivoluzionaria, quella che partorì l’idea di nazione, non fondata su un’identità di lingua, di religione o di storia, ma da un’adesione individuale ad una comunità politica.
La nazione in senso moderno si è consolidata nelle guerre in difesa della Repubblica e in quelle napoleoniche.
Nella stessa Italia non fu la partecipazione popolare alle lotte risorgimentali: si ricordano i Mille di Garibaldi non i centomila!
Fu nelle trincee della Prima Guerra mondiale e nella leva obbligatoria che si è consolidata la nazione italiana.
Questa idea di nazione come atto di volontaria adesione individuale rende il sionismo un erede della Rivoluzione Francese e fa superare la critica che il popolo ebraico dei sionisti fosse una astrazione, una invenzione.
Proprio questa invenzione è il merito del sionismo, altrimenti il popolo ebreo sarebbe stato concepito come gruppo etnico e religioso, come razza: gli ebrei, invece, dal punto di vista razziale sono come i rivoluzionari ed i socialisti di origine ebraica … di tutti i colori.
L’artificiosità del popolo ebraico, come concepito dai sionisti, è smentita dalla rinascita della lingua ebraica, che è senza dubbio il fenomeno linguistico più singolare del XX secolo, come già notava Yeshayahu Leibowitz alla fine della sua vita.
Da un lato il successo di Elizer Ben Yehouda, malgrado la freddezza di Herzl, nel reinventare la lingua ebraica come lingua parlata di tutti i giorni e dall’altro la scarsa diffusione dell’esperanto, invenzione dell’ebreo lituano Zamenhof.
Se non ci fosse stato un movimento di riscatto e di identità nazionale, l’ebraico non avrebbe prevalso sullo yddish, la lingua materna della elite politica sionista. Contrapporre i veri ebrei religiosi, sia pure Martin Buber, ai sionisti è un’operazione intellettualmente pericolosa.
Mi pare quasi di sentire quei begli spiriti clericali per i quali gli italiani cattolici avrebbero dovuto sostenere lo Stato della Chiesa ed il giobertiano primato del Papa, piuttosto che creare uno stato italiano, dominato dai massoni e dagli anticlericali, che infatti adottarono le leggi eversive del patrimonio ecclesiastico con le leggi Siccardi.
Personalmente sarei molto cauto nel privilegiare i religiosi contro i sionisti socialisti. Cosa dobbiamo pensare di un rabbi Kahame e di quei settori religiosi, che ispirarono l’assassinio di Itzakh Rabin? O del freno per ogni processo di pace dei partiti religiosi o di movimenti come il Gush Enumin (Blocco della Fede)?
Il movimento sionista prende il nome dal Monte Sion (Har Tziyyon), una collina appena fuori dalle mura della Gerusalemme Vecchia ed il ritorno in Palestina si lega all’invocazione, che ogni ebreo, anche non osservante, fa almeno una volta all’anno “L’anno prossimo a Gerusalemme”.
Costruire uno Stato per gli ebrei, ma non dovunque, tanto che la proposta di Herzl per l’Uganda fu sconfitta proprio ad un Congresso mondiale sionista.
La stessa bandiera israeliana ricorda lo scialle di preghiera, il tallit, degli ebrei osservanti.
Furono i sionisti ad istituire come organo dello Stato l’Alto Rabbinato.
La competizione/compromesso tra sionismo e religione ebraica ha condotto a situazioni paradossali in materia di naturalizzazioni e di matrimonio o al permanente contrasto sull’osservanza dello shabbat.

La creazione dello Stato di Israele ha innsecato un imponente esodo di popolazione palestinese, in parte forzata in parte volontaria, nell’illusione che fosse temporanea. Qualunque accordo di pace dovrà tenere conto della volontà del ritorno dei profughi e dei loro discendenti, ma parliamoci chiaro un illimitato ritorno non è né realistico, né ragionevole se la prospettiva è quella di due popoli, due Stati.
La Palestina non è l’unico caso nel secondo dopoguerra: milioni di tedeschi dai Sudeti, dalla Prussia orientale e dai territori ad est dell’Oder assegnati alla Polonia o dei Greci che hanno dovuto lasciare insediamenti millenari nei territori turchi, i musulmani indiani in seguito alla divisione dell’ex dominio britannico tra India e Pakistan, in minore misura gli italiani dell’Istria e della Dalmazia ed in tempi più recenti a Cipro in seguito all’invasione turca della parte settentrionale dell’isola.
In tutti questi casi ha prevalso la volontà politica di integrarli, non di tenerli in campi profughi.
Popolazione palestinese è stata cacciata o se ne è andata dalle terre ancestrali, ma nel contempo Israele ha accolto gli ebrei yemeniti ed etiopi e tutti gli ebrei delle comunità sefardite dei paesi arabi dalla Siria al Marocco per non calcolare i milioni provenienti dall’ex Unione Sovietica e da altri paesi dell’Europa orientale, specialmente dopo le politiche antisraeliane post 1956, che sono diventate presto antisemitismo ufficiale.
Un rovesciamento di antichi rapporti, malgrado i processi staliniani, che colpirono molti dirigenti comunisti di origine ebraica, come il ceco Slausky.
L’URSS fu il secondo stato al mondo a riconoscere Israele e alla morte di Stalin il giornale del Mapam, il partito sionista socialista di sinistra forte tra i kibbutzini uscì con il titolo in prima pagina “Il sole dei popoli si è spento”. Fino al 1956 le simpatie della sinistra per Israele erano scontate, un misto di rispetto per le persecuzioni subite dal fascismo e dal nazismo, per l’eccezione democratica che Israele rappresentava in tutta l’area, per non parlare dei criminali nazisti accolti nei paesi arabi e dai loro regimi più autoritari. In seguito ha prevalso, nei settori della sinistra più legati all’Unione Sovietica, l’antiamericanismo viscerale, che si estendeva automaticamente agli alleati degli USA.
Il naturale sostegno al movimento di liberazione dei popoli si è esteso ai palestinesi, popolo oppresso e sotto occupazione militare, ma il giusto sostegno ad una causa si è trasformato in accecamento totale nei confronti non solo del Governo di Israele, ma dell’intero popolo israeliano e per estensione degli ebrei.
Ci sono episodi come la bara depositata davanti alla Sinagoga di Roma durante un corteo sindacale che segnano una rottura psicologica e politica tra ampi settori della sinistra ed Israele e la comunità ebraica.
L’accecamento fanatico ha impedito di comprendere e valorizzare quei settori israeliani, impegnati nel processo di pace, come Shalom Akshav (Pace Adesso) da un lato e di condannare la deriva terrorista ed integralista islamista delle formazioni palestinesi dall’altro.
Se si è di sinistra è inaccettabile che non si siano levate in tempo voci critiche nei confronti della corruzione dilagante nell’OLP e nell’ANP, così come la pratica corrente della tortura nelle prigioni palestinesi e le esecuzioni, senza processo, di presunti collaborazionisti, come la repressione degli omosessuali e delle voci critiche di pochi isolati intellettuali palestinesi.
Parafrasando Maxim Gorki “proprio perché sono dalla parte dei palestinesi non posso perdonare tutto quello che fanno”, così come essendo dalla parte di Israele non si può tacere di fronte a qualsiasi cosa il suo Governo faccia.
Se si può ora parlare di nazione palestinese, paradossalmente è grazie ad Israele: è un’identità nata dalla contrapposizione ad Israele. Niente di strano il sionismo è nato anche come reazione all’antisemitismo ed alla sua manifestazione più virulenta: i pogrom. L’identità nazionale palestinese corre un pericolo che prevalgano gli islamisti: la fuga dei palestinesi cristiani è un segnale preoccupante in questa direzione, così come la contrapposizione tra Hamas ed al-Fatah.
Il movimento palestinese rischia di diventare la pedina della Siria, attraverso Hezbollah, e dell’Iran: un movimento eterodiretto, da giocare sullo scacchiere internazionale accrescendo la dipendenza di Israele dagli interessi geostrategici USA.
Bisogna infine essere consapevoli che porre nel piatto della sinistra italiana anche il conflitto israelo-palestinese significa gettare benzina sul fuoco in una situazione drammatica della sinistra nel nostro Paese dopo la scomparsa di tutte le sue componenti dal Parlamento, dai socialisti ai comunisti, dai riformisti agli antagonisti. Tuttavia, come si dice “Hic Rhodus, hic salta”.(ADL)

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