Kostantinos Petrou Kavafis poeta, scettico ed anticonformista

Pubblichiamo con qualche piccolo aggiustamento uno stralcio dell'articolo di Massimo Peri, Diritti d'autore. A proposito delle ultime traduzioni italiane di Kavafis, “Poetiche”, 9/2, 2007 [ma 2008], pp. 179-222. Massimo Peri è professore ordinario di lingua e letteratura neogreca all'Università di Padova

A prima vista la traduzione di Kavafis che ci offre la professoressa Paola Maria Minucci (Poesie d'amore e della memoria, Newton Compton 2006) si presenta come un lavoro serio, ma basta leggerla con qualche attenzione per accorgersi che si tratta di un'impressione superficiale. Vistosi fraintendimenti, grossolane forzature, trasandatezza linguistica, clamorosa incompetenza filologica rendono la lettura una via crucis (persino la trascrizione dei nomi propri e la punteggiatura seguono criteri oscuri, contraddittori o stravaganti). Ecco un brevissimo campionario. Minucci traduce epitelus con “infine” anziché “finalmente!” (p. 31); “falliti” con “fallaci” (p. 53); “lusso pacchiano” con “volgare lussuria” (p. 69); akres meses, “grosso modo” diventa “una alla fine, un'altra a metà” (p. 215 ); “data l'indifferenza della scelta” diventa “per lo spregio della scelta” (p. 245); Minucci confonde “profondi” con “colti” (p. 151); ignora che epochì non significa solo “epoca” ma anche “èra” (p. 141) e sembra persino ignorare il significato dell'espressione me logu tu, “con Sua Signoria”, che traduce… “a chiare lettere”. (p. 253). Minucci è capace di “distrarsi” fino al punto da scrivere: “affetti dei miei, affetti/dei morti di così poco conto” (p. 129). È mai possibile che Kavafis dica che gli “affetti dei morti” sono “di poco conto”? Il greco è chiarissimo perché recita letteralmente: “sentimenti di persone morte così poco tenuti in conto”, cioè “sentimenti di persone morte che sono stati stimati (onorati, amati, capiti) così poco”. Minucci è capace di scrivere: “Casa, locali, quartiere /che vedo e dove cammino, da anni e anni./ Ti ho creato nella gioia e nel dolore” (p. 241). Chi è questo “tu” (“Ti ho creato”)? Da dove salta fuori? Per capire l'equivoco basta dare un'occhiata al greco, dove il “tu” si riferisce a perivallon, “ambiente”, termine omesso in traduzione.
In verità i guai di questa traduzione non sono tanto i fraintendimenti del greco, il problema più acuto è che Minucci traduce un poeta dottissimo come Kavafis ignorando le norme elementari dell'italiano standard. Minucci usa tranquillamente il gerundio senza soggetto (p. es. p. 113); scrive “saresti” invece di “sarai stato” (p. 141); scrive “se era” invece di “se fosse” (p. 147); viola senza ragione la concordanza del numero: “ben presto il duro lavoro,/e una vita di stenti e di stravizi, lo rovinò (anziché rovinarono; p. 235); “I loro bei volti, la straordinaria giovinezza/l'amore dei sensi che li legava/si accese, più vivo e intenso” (anziché si accesero, p. 219); scrive “per parte di madre Antiochia [=Antiochide]” (p. 79) dove l'italiano richiederebbe “per parte della madre Antiochide”; scrive “partì lontano” invece di “andò lontano”(p. 209); scrive “fuggiva a tremende notti insonni”, invece di “sfuggiva a” (p. 251). Insomma l'italiano di Minucci frana sovente verso strutture substandard, viola senza motivo le categorie linguistiche provocando falle del senso, genera sconcerto senza peraltro generare quel “nuovo verso”, quella “diversa musica” di cui parla Ceronetti. E tutto ciò traducendo un poeta dotato di altissima preoccupazione formale come Kavafis, il quale non si sogna nemmeno lontanamente di violare la consecutio, di usare un gerundio pendens, di disattendere una concordanza. Qui insomma non è più questione di tradurre bene o male, di privilegiare i significati o i significanti, di belle infedeltà o di brutte fedeltà, qui è questione d'italiano standard.
La traduzione ha un patto di lettura. Esso prescrive come condizione minima e indispensabile che si conoscano le norme della lingua d'uso. Il traduttore può avere un'insufficiente conoscenza della lingua di partenza ma deve dominare con sicurezza la lingua di arrivo, altrimenti si espone al biasimo del consorzio civile come chi viola le norme del galateo mangiando la pastasciutta con le mani. Certo, c'è una zona del tradurre che è insindacabile, perché la traduzione di poesia è una forma di ri-creazione. In certo senso, pertanto, il traduttore è libero di fare quasi tutto. Può ignorare la lingua di partenza e accontentarsi di tradurre traduzioni; può sdegnare troppo pedestri (e laboriose) preoccupazioni filologiche, come fa Ceronetti; può abolire il piano metrico e iconico del testo come fa Yourcenar (che traduce Kavafis in prosa); può sacrificare il senso sull'altare della rima, come fa (a dire il vero piuttosto brutalmente) Franco; può inseguire il miraggio di una mimesi totale come fa Pontani ovvero può fraintendere (con gloria o con ignominia a seconda dei casi) il cosiddetto originale. Tuttavia chi traduce non può scrivere una lingua incomprensibile o claudicante che sgretola il senso e contraddice il buonsenso. Di fronte a traduzioni del genere non servono naturalmente i moralismi, non serve rimpiangere la sensibilità, la dottrina, il rigore e l'umiltà con cui lavoravano maestri come Pontani. C'è solo da prendere atto della realtà. Il guaio – diceva Kavafis – è che aspettiamo, aspettiamo, ma i barbari non arrivano mai. Si sbagliava. Non c'è più niente da aspettare. I barbari sono arrivati.

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