Per promettere ci vuole talento

di Mauro Montanari

Una campagna elettorale è faticosa. Ne so qualcosa per averne fatto una da candidato, in giro per l’Europa con la mia giardinetta, senza un soldo dal partito, nel marzo 2006, uno dei più freddi dell’ultimo decennio. Ricordo in Belgio l’autostrada completamente coperta di neve: il cielo bianco come la terra, non si sapeva se andare a destra o a sinistra.
Ho visitato ospizi, nei pressi di Charleroi, in cui gli anziani italiani non sapevano più chi erano, abbandonati a loro stessi in spazi puzzolenti di piscio e di ammoniaca. Anni Cinquanta? No, oggi!
Ricordo a Solingen famiglie che aspettavano la lettera di licenziamento dalla coltelleria, perché circolava la voce che la ditta “disloca”, il che, in linguaggio comune, significa “licenzia”, e licenzia soprattutto i migranti, i meno qualificati, quelli che dopo trent’anni di Germania non sono ancora in grado di mettere insieme cento parole nella lingua del posto.
I più indifesi e i più pieni di rancore. Quando li incontravo chiedevano aiuto, posti di lavoro, protezione che non potevo dare. Ricordo riunioni elettorali, preparate da qualche amico sul posto, in Belgio, in Francia, in Germania, in cui si ritrovavano dieci o quindici persone, spesso anche meno, due o tre, ciascuno con i suoi problemi, ciascuno con le sue richieste, ciascuno con una unica domanda non detta, ma ben chiara sulla faccia: “Ma tu, stronzo, cosa puoi darci in cambio del nostro voto?
Non potevo dare niente, né avrei dovuto promettere niente, oltre il mio impegno, che comunque non contava nulla. Promisi egualmente sapendo di mentire. Me ne sono pentito solo più tardi, quando, a Pasqua del 2006, mi telefonarono e mi comunicarono che avevo perso. Ero in visita a casa di mio fratello, ad Imola. Non volevo crederci. Io, il grande direttore, avevo perso?
Tuttavia, oggi lo so: non mi hanno creduto e comunque non mi avrebbero dato un solo voto di preferenza in più di quei 1893 che allora ricevetti. Dormivo dove potevo. A Düsseldorf il Missionario mi indicò un vecchio siciliano che poteva ospitarmi per una notte. Andai. L’uomo viveva solo, in un disordine mai visto: un’ascella del Caos, di cui egli amava senza dubbio l’odore.
La moglie era tornata in Sicilia due anni prima e lui, da allora, non aveva più riordinato né pulito. Ad ogni caffè la macchinetta era solo svuotata dalla polvere usata. Il piatto dove mangiava alla sera era lo stesso del mezzogiorno, mai deterso. L’unica pentola di alluminio aveva strati di grasso mineralizzato.
Con un po’ di talento avrei potuto promettere anche a lui qualcosa: un appartamento nuovo, stoviglie, un vestito pulito, una vita decente da essere umano. Invece gli lasciai sul tavolo solo qualche volantino, di quelli stampigliati in ufficio nel tempo libero, e uscii a cercarmi un albergo nelle vicinanze. L’uomo non seppe mai perché ero stato da lui.
Per promettere ci vuole talento, dicevo. Bisogna saperlo fare. Bisogna dare un po’ subito e lasciare intendere che il resto verrà. La gente cerca speranza ed è pronta a sperare in qualcuno, ma non in quelli senza talento. Bisogna crederci un po’, alle promesse che si fanno, nel momento in cui si fanno. Poi basta dimenticarsene. Il segreto è fabbricare sul luogo e al momento la propria sincerità.
A Saarbrücken mi fermai a mangiare in un ristorante italiano, il primo che vidi sulla strada del ritorno. Scendendo dalla macchina mi portai dietro qualche diecina di volantini. C’era sopra la mia faccia e la ragione per cui la gente avrebbe dovuto votare per me, che mi presentavo nelle fila dell’Udc. Il padrone del locale mi disse che aveva già promesso a Picchi, di Forza Italia, passato qualche settimana prima, e che comunque il suo voto lo avrebbe dato a Berlusconi, che è l’unico contro i comunisti.
Casini, il voto, se lo faccia dare dalle sue signorine, quelle che sbavano per lui, mi disse, e mi presentò un piatto di pasta al sugo salata da far schifo. E un conto ancora più salato. Pagai, raccolsi i volantini e me ne andai nel silenzio generale. Solo la moglie, dal tavolo -non era italiana, forse polacca, certo sposata in secondo letto-; lei sola, dicevo, ebbe uno sguardo di compassione per quel Niemand che veniva da chissà dove col suo pacchetto di carta sotto il braccio a mendicare un voto già promesso.
Me lo ricordo, il suo sguardo samaritano, occhi lucenti, orecchini di perla, pareva uscita da un quadro di Jan Vermeer. Un attimo solo, quindi si girò di nuovo. Il mondo va avanti, il business anche, un giorno dopo l’altro, in attesa del destino falciuto che seppellirà fughe e paure.

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