Pietro Affaiati,
Fabrizio Cianci,
Pierfrancesco Lorenzini,
Enea Melandri,
Giacomo Orsucci,
Francesco Saddi,
Manuel Santoro
Voglia di un cambio di rotta per il raggiungimento dell'indipendenza.
Il Dalai Lama urla, dall'esilio indiano, la sua disperazione: “Il Tibet sta subendo un grave genocidio culturale, la nostra nazione è in pericolo”. Lo sa, ma non lo dice. La sua politica della “via di mezzo” ha fallito ed è, probabilmente, giunta alla fine.
Lo sa perché adesso sono i suoi stessi compatrioti a voler cambiare strada, a voler sfidare e combattere il gigante cinese per ottenere quell'indipendenza sognata da 50 anni.
Lo sa, ma ci prova lo stesso quando sostiene che “il popolo cinese ha meritato i giochi”.
“Noi non vogliamo la secessione, ma l'autonomia”.
La protesta ha inondato come un fiume in piena tutte le regioni storiche del Tibet, comprese quelle adiacenti alla provincia autonoma riconosciuta dalla Cina. Sabato vi sono stati dei disordini a Xiahe, nella provincia di Gansu, sede del grande monastero Lebrang, che ospita una biblioteca secolare tibetana. Un gruppo di manifestanti, tra i mille ed i cinquemila monaci, si è venuto a scontrare con la polizia. Diverse fonti riferiscono di spari ed esplosioni, ma non ci sono notizie di vittime.
Domenica, nel distretto di Aba, i dimostranti hanno protestato dando fuoco a 2 auto e un camion della polizia. Qui le fonti tibetani parlano di 7 studenti morti, ma Pechino smentisce seccamente. Nello stesso giorno, il monastero di Ngaba Kirti ha visto issarsi, sulle sue torri, la bandiera nazionale del Tibet, proibita in Cina. Il governo tibetano, in esilio a Dharamsala, ha sostenuto che nella scorsa settimana gli scontri abbiano portato a circa 80 morti e 72 feriti. L'autorità di Pechino ha ribattuto dicendo che sono stati uccisi 10 “civili innocenti” e feriti 12 poliziotti. Chi abbia ragione non lo si può sapere, ma si può intuire notando che il sito di Youtube è stato oscurato dopo la diffusione di un video che mostrava immagini delle dimostrazioni e della città in stato di assedio. Le uniche scene diffuse dalla TV cinese mostrano un gruppo di tibetani a Lhasa che assaltano negozi gestiti da cinesi e danno fuoco ad automobili della polizia. Le immagini proseguono mostrando strade deserte e autoblindo da cui una voce urla: “mantenete l'ordine”.
La TV di Hong Kong è stata l'unica a trasmettere in diretta da Lhasa, facendo vedere agenti di polizia che compiono massicce retate nelle strade, gente insanguinata, militari ovunque. Lunedì pomeriggio è scaduto l'ultimatum delle autorità ai rivoltosi di consegnarsi. Tale ultimatum riguardava anche le Ong straniere, costrette a lasciare la regione. Le fonti tibetane spiegano che i dimostranti saranno pronti a resistere con bastoni e coltelli anche dopo la scadenza dell'ultimatum. Qiangba Puncog, capo del governo tibetano, ha voluto sottolineare che la polizia ha usato contro i civili solo lacrimogeni e cannoni ad acqua, andando a contrastare quanto riportato dal governo tibetano in esilio, che parla di almeno 80 morti, forse centinaia. Puncog ha replicato sostenendo che le vittime sono soltanto 13, di cui 3 dimostranti caduti dai tetti durante la fuga. Il governo di Pechino cerca di reagire con ogni mezzo alle critiche provenienti dall'opinione pubblica mondiale. Un editoriale sul quotidiano del Tibet ha pesantemente accusato il Dalai Lama di essere l'ispiratore delle rivolte, invitando i lettori ad “asciugarsi le lacrime e rispondere col ferro”. Il ministro degli Esteri cinese, Liu Jianchao, ha sottolineato che il governo cinese “difenderà senza esitazioni la sovranità e l'integrità nazionale”. La stampa cantonese, comunque, riesce a fare una distinzione tra il Dalai Lama e i suoi seguaci, questi ultimi colpevoli di cercare ad ogni costo il conflitto con Pechino. Molti tibetani, appunto, hanno aspramente criticato l'atteggiamento del Dalai Lama, reo di non aver chiesto né l'indipendenza né il boicottaggio delle Olimpiadi.
Tsewang Rizgin, presidente del Congresso dei giovani tibetani ha dichiarato che “la via centrista esiste da 20 anni e non ha prodotto alcun risultato, noi vogliamo, anzi pretendiamo, l'indipendenza del Grande Tibet”.
Ma non è più solo il Tibet ad urlare il suo No. Le dimostrazioni di protesta, degenerate in violenza, si sono diffuse rapidamente nelle piazze di tutto il mondo. In Asia le manifestazioni sono state represse brutalmente. In Europa l'obiettivo delle dimostrazioni degli esuli tibetani e dei militanti a favore dei diritti umani sono state le sedi diplomatiche del governo cinese. A Zurigo la polizia ha usato i lacrimogeni e sparato pallottole di gomma sulla folla che aveva lanciato sassi sul consolato cinese. In Olanda circa 400 manifestanti hanno abbattuto le cancellate attorno all'ambasciata di Pechino e hanno sostituito la bandiera cinese con quella tibetana. A Roma 250 persone hanno sfilato davanti alla legazione di Pechino, stendendosi a terra per un minuto. Nella giornata di lunedì, intanto, a Machu 400 persone hanno marciato urlando slogan contro Pechino e lanciando molotov e sassi contro i palazzi governativi, mentre un centinaio di studenti a Langzhou ha organizzato un sit-in.
Il Dalai Lama cerca di giustificare i suoi concittadini con poche parole: “I tibetani sono trattati come cittadini di seconda classe e vivono in un regime di terrore, solo l'autonomia può salvare l'ambiente e la cultura del Tibet”.
Non tutti, però, sembrano essere attenti alla questione tibetana. All'Angelus di domenica, infatti, Benedetto XVI ha scelto di tacere sul Tibet parlando, invece, dell'Iraq. Il tema iracheno era, comprensibilmente, caro al Santo Padre, a causa dell'uccisione dell'arcivescovo Rahno, ma tutti si aspettavano almeno una parola su quanto sta accadendo in oriente. Il portavoce di S.Pietro ha cercato di contenere le polemiche, spiegando che il Vaticano non ha fonti dirette di informazione né comunità che vivano nella zona da cui ricevere notizie. Ma già dentro la Chiesa stessa era emerso un certo disappunto. Il comboniano padre Dilani ha testualmente detto: “è ridicolo giustificarsi con l'assenza di fonti ecclesiali. In Tibet è in atto una strage di persone inermi”. Persino dal PD sono emerse voci contrariate. Antonio Polito ha organizzato una manifestazione pro-Tibet con Radio Radicale sostenendo che “il Papa ha pensato solo ai suoi perché in Iraq ci sono i cattolici, mentre per i monaci non ha speso neanche una preghiera nonostante il buddismo sia una grande fonte di spiritualità con cui la Chiesa aveva avviato un dialogo interreligioso”. I Pannelliani proseguono dicendo che “l'obiettivo del Vaticano era non infastidire Pechino in cambio della libertà di gestire la Chiesa in Cina”.
Marco Pannella ha deciso di convertire il suo sciopero della sete, iniziato in protesta con Veltroni, in una presa di posizione pro-Tibet.
Eviterei commenti.
Per il Comitato Politico dei Radicali di Sinistra