di Alberto Quartaroli, New York
“No representation without taxation” non e’ un principio. Risiedere in Italia e pagare le tasse non e’ un criterio per concedere il diritto di voto. Il principio e’ “no taxation without representation”, che e’ tutt’altra cosa. L’unico criterio per il diritto di voto e’ la cittadinanza. Si puo’ discutere sull’opportunita’ delle circoscrizioni estere, ma non sul sacrosanto diritto di voto.
di Alberto Quartaroli
Cerchiamo di risolvere una volta per tutte la questione che assilla da anni i numerosi politici, giornalisti e aspiranti costituzionalisti della madre Patria: il diritto di voto dei residenti all'estero. A scadenze prestabilite, i nostri illuminati teorici della democrazia rappresentativa escono dalle tenebre della dottrina per spiegarci come i “principi liberali” non ammettono che il cittadino all’estero possa, non solo esercitare, ma addirittura avere il diritto di voto. Per sostenere le loro tesi, i costituzionalisti fai-da-te ricorrono alle solite sciocchezze. Vediamole.
Innanzitutto, “no representation without taxation” non e’ un principio liberale. Non e’ nemmeno un principio. Al contrario, e’ una vera e propria aberrazione, una mostruosita’. E’ un’affermazione illogica e contro qualsiasi principio del diritto. Sostenere tale assurda tesi significherebbe sottoporre il diritto di voto alla capacita’ contributiva dei cittadini. Giolitti e Salvemini si metterebbero le mani nei capelli.
Pertanto, e’ ora di smetterla con questa idiozia del pagamento delle tasse come condizione per esercitare il diritto di voto. Per il diritto di voto l’unico criterio e’ la cittadinanza. Punto e basta. Tutto il resto sono chiacchere da bar. Il criterio della cittadinanza e’ previsto dalla Costituzione. Il voto e’ un diritto riconosciuto a tutti i cittadini italiani, e non un privilegio di chi vive in Italia e paga le tasse. Se non si vogliono far votare gli italiani all’estero, occorre modificare l’Art. 48 della Costituzione in modo da leggere: “Sono elettori tutti i cittadini che risiedono nel territorio italiano e che ivi pagano tasse e imposte” (dopo di che possiamo anche uscire definitivamente dal gruppo delle democrazie occidentali).
Il vero principio e’ “no taxation without representation”, che e’ tutt’altra cosa. Il principio nasce dalla protesta dei coloni americani che nel 1773 decisero di non pagare tasse e dazi alla corona britannica senza avere una rappresentanza nel parlamento inglese. E’ l’esatto contrario della tesi sostenuta dai costituzionalisti fai-da-te.
Spero quindi che il concetto sia ora piu’ chiaro. Lo sforzo che si richiede e’ quello di comprendere almeno il senso letterale delle parole e capire che non si possono invertire frasi che formano un principio, pretendendo di crearne un altro.
Si puo’ discutere sull’opportunita’ o meno delle circoscrizioni estere, ma non sul diritto di voto dei cittadini all’estero (ne’ sull’esercizio di tale diritto), a prescindere dai futili sondaggi di Badaloni e Panoramitalia. Ancor meno ci si puo’ permettere di condizionare il voto al pagamento delle tasse. Se poi per paradosso dovessimo concedere il diritto di voto soltanto a coloro che pagano le tasse, avremo ben pochi elettori in Italia. Infatti, non potrebbero votare i disoccupati, le casalinghe, gli studenti, i militari, gli evasori (ossia mezzo paese).
In ogni caso, e contrariamente a quello che si crede, l’italiano all’estero le tasse le paghe eccome! Quello che non paga sono le imposte sul reddito. Le tasse le paga indirettamente acquistando prodotti italiani, contribuendo di conseguenza all’attivo della bilancia dei pagamenti. Alcune tipologie di prodotto, in particolare nel settore dell’enogastronomia, sono acquistate esclusivamente dai 60 milioni di italiani, cittadini e discendenti, che vivono all’estero (infatti, nelle case degli anglosassoni non troverete mai la pasta, i prosciutti e i formaggi italiani). E’ un mercato immenso per l’economia italiana. Per non parlare poi del turismo e delle rimesse, che tutt’oggi ammontano a svariate centinaia di milioni di dollari l’anno. Pertanto, se anche il residente all’estero non paga le imposte sul reddito in Italia, ciononostante egli contribuisce enormemente al prodotto nazionale lordo. Tanto che lo Stato italiano percepisce di gran lunga piu’ entrate dal vasto mercato degli italiani nel mondo, che non da un ipotetico pagamento delle imposte sul reddito prodotto all’estero dai 3.5 milioni di cittadini.
Leggiamo ora cosa scrive Christian Rocca, corrispondente di Libero a New York: “… non mi sembra giusto che figli di emigranti di 3° generazione possano esprimere un loro voto che riguarda la politica italiana. Queste persone spesso non parlano italiano, non sono mai state in Italia e non pagano le tasse al nostro Paese, perchè dovrebbero avere il diritto di influire nelle scelte del nostro Paese ?”.
Un altro illuminato giornalista, Filippo Salvatore di Panoramitalia, propone di istituire una voter registration presso i Consolati per i cittadini che vogliono esercitare il voto in loco: chi non si registra non vota. Questo strumento serve “per evitare di permettere di votare a chi è cittadino italiano di seconda o terza generazione e poco sa o non segue quello che succede in Italia”, dice l’autore. Anche lui e’ terrorizzato dai discendenti italiani che rischiano di influire sulle sorti politiche del nostro paese. Per evitare questa catastrofe propone strumenti per rendere la vita difficile ai cittadini discendenti (come se gia’ non bastasse l’incomprensibile plico elettore che gli arriva a casa).
Ora, se nel mondo vivono circa 60 milioni di discendenti italiani, soltanto 3.5 milioni sono cittadini della Repubblica. Circa la meta’ di costoro vivono in paesi europei e quindi hanno sempre mantenuto un forte legame con la madre Patria. La loro conoscenza della realta’ italiana e’ pressoche’ identica a quella del connazionale in Italia.
Gli italiani di antica emigrazione rappresentano poco piu’ della meta’ del totale. Gia’ il fatto di aver mantenuto la cittadinanza italiana e’ abbastanza significativo. Il minimo che lo Stato italiano possa fare e’ facilitargli l’esercizio di un diritto che hanno sempre avuto. Inoltre, i nipoti di questi emigrati hanno recentemento acquisito una coscienza della loro italianita’ che andrebbe premiata anziche’ temuta.
Per quanto riguarda invece gli italiani di recente immigrazione, il loro legame con l’Italia non e’ mai stato diluito dal tempo. Sono quasi tutti altamente istruiti, informati sugli eventi italiani piu’ dei connazionali in Patria, hanno proprieta’ in Italia e pagano i relativi tributi, hanno figli perfettamente bilingue che passano la vacanze in Italia. Questi rappresentano poco meno di un milione dei 3.5 milioni di residenti all’estero.
Pertanto risulta difficile capire chi possano essere questi “emigrati di terza generazione” che fanno passare notti insonni al giornalista di Libero e a quello di Panoramitalia. Forse i giornalisti si riferiscono a quelle poche migliaia di giovani argentini che si sono svegliati una mattina scoprendo di avere un nonno italiano e una volta ottenuta la cittadinanza sono andati a vivere stabilmente in Spagna. Ma questo e’ un problema diverso e riguarda la facilita’ con cui lo Stato italiano concede la cittadinanza ai discendenti. E’ un problema di concessione della cittadinanza e non di diritto di voto. Se lo Stato italiano concede la cittadinanza come se fosse una semplice pratica burocratica, senza richiedere la conoscenza della lingua, cultura e storia, e a prescindere dall’adesione ai valori della Costituzione, non possiamo poi negare il voto a chi ne ha pienamente diritto in quanto cittadino.
Comunque sia, e’ difficile sostenere che 3.5 milioni di italiani possano influire sulle sorti politiche del paese. Se cio’ e’ avvenuto nella scorsa legislatura, le cause sono da ricercare altrove.
Detto questo, e’ curioso notare che gli italiani all’estero, in media, sono di gran lunga piu’ informati sull’Italia dei residenti in Patria. Mentre questi ultimi subiscono un costante rincoglionimento scientifico, i primi hanno un’obiettiva visione della realta’ italiana. La disinformazione in Italia e’ tale che per conoscere la verita’ si e’ costretti a leggere l’Economist e il New York Times. Un italiano su dieci legge i giornali (inclusi nel calcolo quelli sportivi). Un libro che vende 20.000 copie diventa un best-seller. L’informazione televisiva e’ tutta in mano ai partiti. La stampa italiana e’ completamente assoggettata al potere politico. Ditemi voi quanto possono sapere gli italiani in patria di cio’ che avviene realmente nel loro paese !! Forse la voter registration andrebbe proposta per gli elettori in Italia, i quali persistono nel votare per gli stessi partiti e per le stesse facce rimesse a nuovo, nonostante le continue lamentele per l’erosione del loro potere d’acquisto, per l’immondizia, per gli sprechi di denaro pubblico, per la corruzione dilagante, per le inefficienze della pubblica amministrazione e della sanita’. Gli italiani in patria si lamentano sempre, ma poi alla fine accettano tutto con rassegnazione, come un branco di pecoroni. Sono loro il vero pericolo per la democrazia italiana. Non i discendenti di terza generazione.
In conclusione, il diritto di voto e’ riconosciuto dalla Costituzione a tutti i cittadini, a prescindere dallo status, residenza e capacita’ contributiva. L’unico criterio e’ la cittadinanza. Dire che il cittadino che risiede all’estero non debba avere il diritto di voto e’ un’affermazione senza alcun senso logico-giuridico. Sarebbe come dire che la legge non deve essere uguale per tutti. Nessuna persona di buon senso potra’ mai mettere in discussione il diritto di voto del cittadino.
La legge Tremaglia introduce semplicemente la possibilita’ per il cittadino all’estero di esercitare tale diritto dal paese di residenza mediante il voto per corrispondenza. Fin qui nulla di cosi’ drammatico. Si tratta soltanto di facilitare l’esercizio di un diritto per coloro che, per qualsiasi motivo, si trovano all’estero. Tutti i paesi occidentali prevedono da sempre tale possibilita’.
L’unica novita’ e’ la creazione delle circoscrizione estere. Il tema della discussione dovrebbere vertere solo su questo. Si potrebbe proporre un collegio unico nazionale o si potrebbero abolire le circoscrizioni, ma tutto cio’ non ha nulla a che fare con il diritto di voto e con il suo esercizio.
Ultima osservazione: il presupposto della creazione delle circoscrizioni estere sarebbe dovuto essere quello di introdurre nel maleodorante Parlamento italiano una ventata di freschezza e un contributo intellettuale dal mondo intero. Se poi le segreterie di partito riproducono all’estero lo stesso sistema corrotto e clientelare operante in Italia, scegliendo di mettere in lista i piu’ inetti e raccomandati … beh … quello e’ un altro discorso.