Unità  politica o ispirazione etica. La fermezza di Benedetto XVI

di Barbara Spinelli *)

Nonostante le numerose critiche che le vengono rivolte, la Chiesa in Italia appare a un primo sguardo sicura di sé, animata da certezze intense su questioni che per molti non sono così certe. Appariva tale anche nei ventisette anni trascorsi sotto la guida di Giovanni Paolo II, ma Benedetto XVI trasmette un'immagine di sé ancora più ferma, nitida. È la diligente impalcatura dottrinale che crea quest'impressione di saldezza: i valori etici su cui il magistero non vuol negoziare sembrano moltiplicarsi, irrigidirsi. Dedito soprattutto a insegnare, concentrato sulla teologia, il Papa tedesco ha qualcosa di dimesso e tanto più granitico, imperturbato.
Sul punto più critico della laicità – quello dei comportamenti morali che secondo la Chiesa appartengono alla sfera dei diritti naturali e divini, non negoziabili perché su essi lo Stato non può legiferare – le opinioni dei due Pontefici coincidono. Ma Giovanni Paolo II aveva un modo speciale di accordare sapienza e «dotta ignoranza». Gianfranco Brunelli, direttore della rivista Il Regno, lo evoca così: «Egli aveva una visione politica del papato, fortemente calata nella storia e dunque in grado di modificare e adattare le risposte della Chiesa. C'era in lui la convinzione che il cristianesimo non può fare a meno della dimensione orizzontale e organizzativa, ma che non può perdere – pena smarrire se stesso – la verticalità dell'annuncio e della profezia. Egli non scelse mai univocamente tra istituzione e annuncio, cercò di tenere assieme per così dire i due contrari e questo metodo aperto, meno evidente nel suo successore, più capace di una propria prospettiva teologica, fu benefico per la Chiesa e l'Italia».
Tanta inflessibilità non nasce tuttavia solo da sicurezza, come tutte le inflessibilità. È una forza che impressiona e trascina ma scaturisce da un pessimismo che in Benedetto XVI è profondo, e sul quale più volte viene richiamata la mia attenzione. I miei interlocutori mi parlano di vere angosce (alcuni usano la parola ossessioni) che non riguardano solo l'Italia: angoscia di una possibile uscita del cristianesimo dall'Europa, angoscia di una perdita d'autorità, di una caduta nell'irrilevanza. Il disagio nel rapporto Stato-Chiesa, simultaneo in due paesi anticamente cattolici come Spagna e Italia, dilaterebbe questo stato d'animo. Non sono dimenticabili le parole terribili che il cardinale Ratzinger scrisse per Giovanni Paolo II nel 2005, in occasione della Via Crucis: «Quanta sporcizia c'è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! (…) Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli!».
È il motivo per cui credo che quello che l'occhio percepisce oggi guardando la Chiesa – l'insistere del Pontefice sulle «confusioni» dello spirito postconciliare, gli arretramenti su questioni controverse come la liturgia e il dialogo ecumenico con le chiese protestanti, le pressioni sullo Stato italiano perché non legiferi su alcune questioni etiche – sia solo una parte della sua verità. L'altra parte è il mal-essere in cui la Chiesa si trova, la fatica di trovare una strada che l'aiuti a distendere i rapporti con la politica, che combini di nuovo il potere con l'autorevolezza, che nel caso italiano trasformi la diaspora del dopo-Dc in un'occasione di ripresa e non di sfiducia.
Da Mani Pulite

Giacché questo è il trauma che affligge gli uomini di Chiesa in Italia. Mani Pulite e la nascita del bipolarismo sono eventi ormai scontati per chi fa politica e la commenta, ma per il mondo ecclesiastico la ferita è attualissima e non rimarginata. La Chiesa è nel mezzo del cammino di guarigione, se ci sarà guarigione, e lo sta percorrendo senza certezze granitiche e con sforzi non subito visibili. Ho potuto constatarlo parlando con chi è ansioso di cercare l'itinerario giusto, e imboccarlo.
Tutto cominciò nei tempi torbidi che l'Italia conobbe prima che apparisse Tangentopoli: tempi torbidi perché la Dc era stata una presenza rassicurante, e stava ora tramontando. Il partito cattolico rappresentava la Chiesa, e questo le dava libertà di movimento e anche una certa indifferenza al ruvido quotidiano della politica. Era una formazione che aveva la giusta dose di attenzione agli interessi ecclesiastici ma che era ben attenta a fissare limiti laici fermi, e al tempo stesso affidabili, prevedibili. Non erano mancati scontri duri, che avevano visto contrapporsi la Chiesa e grandi democristiani come Sturzo o De Gasperi. Ma la complessità del legame oltre a essere una garanzia semplificava l'esistenza ecclesiastica. La crisi venne quando quest'architettura si sfaldò, e fu allora che iniziò il travaglio.
L'appuntamento decisivo avvenne prima che la Dc scomparisse. Era il 1985, e a Loreto si riunì un convegno ecclesiale per discutere il rapporto futuro con la politica in Italia. La Chiesa si divise, e inizialmente non furono i riformatori a vincere. Era un'epoca di personalità forti nelle gerarchie: Anastasio Ballestrero guidava la Conferenza episcopale, Carlo Maria Martini ebbe il compito di presiedere il Convegno, e il primo relatore era Bruno Forte, oggi Arcivescovo di Chieti-Vasto. Viva e diffusa era la consapevolezza che una nuova epoca dovesse aprirsi: l'era della diaspora politica del cattolicesimo italiano, contrassegnata dalla decisione di «non dare più a nessuno deleghe in bianco». Veniva riconosciuto come compito urgente della Chiesa quello di divenire una coscienza vigile in un mondo sempre più complesso, decisa a servire il bene comune ma non più schierata. Questo significava autorizzare la diaspora del cattolicesimo, non puntare più sulla sua unità politica, accettarne la disseminazione in partiti anche contrapposti. Ad unire i cattolici non doveva più essere l'appartenenza partitica, ma l'ispirazione spirituale, etica. Su questa posizione erano profondamente d'accordo moltissimi Vescovi, a cominciare dai cardinali Martini, Ballestrero e Pappalardo, ma in un primo tempo non fu la loro linea che passò.
Erano contrari a essa i nostalgici del rapporto con la Dc che aveva dato tanta sicurezza, è vero, ma nel quale gli innovatori vedevano uno schema ormai imprigionante. Nel discorso che Giovanni Paolo II fece a Loreto sembrò che tra lui e i nostalgici ci fosse un'intesa di fondo, e la cosa non era stupefacente: il Papa aveva vissuto in Polonia le tribolazioni di uno scontro frontale tra potere ecclesiastico e potere politico, che non consentiva diaspore e scelte più spirituali. Tuttavia la sua libertà interiore era grande, e il Pontefice rimeditò i discorsi ascoltati. Dieci anni dopo, al Convegno Ecclesiale di Palermo del 23 Novembre '95, anch'egli prendeva le distanze dal collateralismo che aveva caratterizzato gli anni della Dc, e incoraggiava il formarsi di una diaspora politica del cattolicesimo: «La Chiesa – disse – non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l'una o per l'altra soluzione istituzionale o costituzionale, che sia rispettosa dell'autentica democrazia». Era un sì alla diaspora politica, non a una diaspora etica: «Ciò nulla ha a che fare con una “diaspora” culturale dei cattolici, con un loro ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede, o anche con una loro facile adesione a forze politiche e sociali che si oppongano, o non prestino sufficiente attenzione, ai principi della dottrina sociale della Chiesa sulla persona e sul rispetto della vita umana, sulla famiglia, sulla libertà scolastica, la solidarietà, la promozione della giustizia e della pace. E' più che mai necessario, dunque, educarsi ai principi e ai metodi di un discernimento non solo personale, ma anche comunitario, che consenta ai fratelli di fede, pur collocati in diverse formazioni politiche, di dialogare, aiutandosi reciprocamente a operare in lineare coerenza con i comuni valori professati».

Il gioco dei partiti

L'itinerario della nuova vita in diaspora non è concluso, né è scontato il vero rinnovamento. I nostalgici hanno il loro peso e le loro convinzioni, e questo li ha spinti negli anni scorsi ad appoggiare il centro-destra e Berlusconi, pensando di poter suscitare un nuovo referente politico. Il giudizio spesso duro espresso contro Prodi è frutto da queste convinzioni: in particolare quando il capo del centro-sinistra, in nome di un cristianesimo adulto, si pronunciò contro la scelta astensionista della Conferenza episcopale, nel referendum del 2005 sulla procreazione assistita. Il termine impiegato – cristiano adulto – fu biasimato. Ma Prodi non inventava nulla: la parola era stata usata già nel '65, ai tempi del Concilio Vaticano II. La costituzione pastorale Gaudium et Spes parla del «bisogno dei popoli di esercitare la loro libertà in modo più adulto e personale», e prospetta la «testimonianza di una fede viva e adulta, (…) opportunamente formata a riconoscere in maniera lucida le difficoltà e capace di superarle».
La diaspora tuttavia ha le sue insidie, le sue asperità. Prima insidia: la Chiesa può sentirsi invogliata a far politica in prima persona, intervenendo troppo pesantemente sul terreno dell'etica come se questo fosse un terreno che le è esclusivamente riservato. Come se in materia di nascita, morte, famiglia, uso della scienza, fosse lei a decidere quale sia l'interpretazione dell'articolo 7 della Costituzione, e cioè quel che spetta allo Stato e alla Chiesa (come se avesse lei «la competenza delle competenze», scrive lo storico Giovanni Miccoli nel libro In Difesa della Fede). Seconda insidia: il peso condizionante dei mezzi di comunicazione può trasformarsi in macigno, costringendo la Chiesa a mostrarsi sistematicamente molto più compatta e rigida di quel che in effetti è. Terza insidia: la Chiesa può sentirsi invogliata a non cercare una sintesi tra diverse culture, aprendo un dialogo diretto con la società e rivolgendosi prioritariamente ad essa, ma a imboccare la vecchia strada della sintesi ai vertici: tra politici e Chiesa, partiti e Chiesa, Stato e Chiesa. Sarebbe un ricadere nel passato, ma senza più reti di sicurezza. Sarebbe un conquistare potere, non autorità. (2 – continua)(ADL)

La Stampa, 22.11.2007 – vai al sito de La Stampa

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