Mandolino o manganello?

di Mauro Faroldi

Una faccia, una razza: il libro sulle testimonianze “italiane” dei dodecanesini

Quando si pensa al colonialismo italiano pensiamo all’Africa, al disastro di Adua, alla Libia, alla conquista dell’Etiopia che segnò il momento più alto della popolarità del fascismo. Difficilmente associamo il colonialismo italiano al Dodecaneso. Questo perché, la nostra storiografia considera tale avvenimento come secondario e collaterale all’impresa libica del 1911. La nostra presenza è ricordata come una fase operosa dove i colonizzatori hanno valorizzato i siti archeologici e modernizzato l’arcipelago svegliandolo dal letargo di quattro secoli di dominazione ottomana.
Nel 2003 la casa editrice “Il Mulino”, sull’onda della curiosità sull’occupazione italiana in Grecia suscitata dal film Il mandolino del capitano Corelli, un feuilleton strappalacrime diretto da Johnn Madden e con Nicolas Cage e Penélope Cruz, ha pubblicato il libro dello storico australiano d’origine greca Nicholas Dumanis. Titolo originale del libro è Myth and Memory in the Mediterranean. Remembering Fascism’s Empire. In Italia il libro è stato pubblicato sotto un altro, più accattivante, titolo, Una faccia, una razza. Le colonie italiane nell’Egeo. In copertina è riprodotta una fotografia di un soldato intento a strimpellare un mandolino. Nonostante le esigenze commerciali che hanno imposto questo modo di presentare il libro, il testo è un buon lavoro, vale sicuramente la pena di leggerlo.
Il periodo di dominazione italiana è descritto in maniera molto fruibile. Molto interessanti sono le testimonianze dirette rilasciate da 46 greci abitanti in sette differenti isole dell’arcipelago. Il problema è affrontato, non dal punto di vista della storia del colonialismo italiano, ma da quello della storia greca. Non a caso la storia non finisce l’8 settembre del 1943, continua con le due successive occupazioni, quella tedesca e quella inglese, fino al 1947, alla “redenzione”, così scrive letteralmente Dumanis, dell’arcipelago e alla sua unione con la madrepatria.
Occupato inizialmente per costringere l’Impero Ottomano alla cessazione della resistenza in Libia, il Dodecaneso, è rimasto in mani italiane dopo la Grande Guerra. Considerato importante come base militare, negli anni trenta vide un forte aumento del personale militare, dei funzionari pubblici con le loro famiglie. Furono costruite strade, porti, aeroporti, abitazioni e pubblici edifici. La città di Kos fu interamente ricostruita dopo il tragico terremoto del 1933. Anche la popolazione greca ottenne dei vantaggi per le occasioni di lavoro che le furono offerte, mentre le occupazioni tradizionali erano sempre più in crisi. Rodi, dove aveva sede il governatorato, ebbe i maggiori benefici, e questo si coglie, ancora dopo tanti anni, anche dal disappunto degli intervistati residenti nelle altre isole.
Secondo le testimonianze degli intervistati «nel Dodecaneso si cominciò a parlare di occupazione “fascista” solo dopo il 1936, quando il nuovo governatore, il conte Cesare Maria De Vecchi, inaugurò una terza fase, fortemente repressiva, dell’occupazione italiana, che abbracciò gli anni 1937-43». Furono represse tutte le manifestazioni anche irrilevanti di nazionalismo ellenico. Diventò reato esporre il ritratto di Venizèlos, fu proibito alle ragazze di accostare nel vestire il bianco e l’azzurro, i colori della bandiera greca. L’italiano che inizialmente veniva solamente studiato nelle scuole, diventò la lingua ufficiale con cui si tenevano le lezioni, un tentativo di italianizzazione forzata della popolazione. Questo processo di “snazionalizzazione” della popolazione greca, che rientrava nei progetti imperiali del fascismo, fu esasperato dalla aggressività di De Vecchi, fascista della prima ora, “quadrunviro” durante la Marcia su Roma, con un’esperienza coloniale alle spalle come governatore della Somalia. Non mancarono i malumori e proteste definiti dall’autore fenomeni di «protonazionalismo». I più coinvolti furono i ceti intellettuali.
Ma fra i 46 intervistati, soggetti in gran parte a basso livello culturale, spesso analfabeti o semianalfabeti, non vi è un giudizio negativo sulla dominazione italiana, anzi vengono esaltati i progressi economici ed amministrativi. Progressi che, fra le due guerre, sicuramente non erano stati fatti in uguale misura dalla Psoròkostena madrepatria. Certamente questa percezione si è avuta perché nel Dodecaneso, a differenza che nelle colonie africane non ci fu una dura repressione, l’uso dei gas asfissianti, lo sterminio di decine di migliaia d’innocenti, non ci fu, durante la guerra, neanche la resistenza armata che avrebbe scatenato le rappresaglie dei nostri militari. «Dumanis – scrive nella prefazione del libro Nicola La banca – non parte lancia in resta contro gli stereotipi degli “italiani brava gente”, come sarebbe stato legittimo fare. Ma dimostra, attraverso le sue interviste, come tale stereotipi furono indotti e si rafforzarono nei dodecanesiaci soprattutto attraverso il confronto dell’azione degli italiani rispetto all’operato degli altri occupanti. E quindi gli italiani non furono civili, ordinati, organizzati in sé: ma furono più civili, ordinati ed organizzati soprattutto rispetto ai precedenti occupanti ottomani. Non furono socievoli e rispettosi in sé: ma furono più donnaioli e meno brutali soprattutto rispetto ai tedeschi. Non furono calorosi e passionali in assoluto: ma non furono freddi e disinteressati quanto gli inglesi. (…) Se gli italiani anche furono “brava gente” lo furono più per demerito altrui che per merito proprio».

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