Il passato rimosso

di Massimo Peri

Dodecanneso: il trentennio italiano
Colonialismo italiano nel Dodecanneso

Organizzato da Massimo Peri, Professore Ordinario di Lingua e letteratura neogreca all'Università di Padova, si è svolto il convegno, in collaborazione con la locale Università, l’Associazione Italiana di Studi Neogreci e l’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti, sulla La politica culturale del fascismo nel Dodecanneso. Hanno partecipato studiosi italiani, greci ed inglesi, ed era presente anch Alkistis Sologhianni, Direttore Generale delle Relazioni Culturali del Ministero della Cultura di Grecia, Mario Vitti, Presidente dell’Associazione Italiana di Studi Neogreci, Aharon Adolfo Locci Rabbino capo della Comunita Ebraica di Padova, Eleni Triandafillu Console di Grecia in Venezia e Giovanni Giacometti in rappresentanza del Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei
Le ragioni di questo convegno sono sviluppate nell’introduzione (che pubblichiamo) ai lavori dello stesso Massimo Peri.

La ragione di questo convegno è semplice. Ci siamo accorti (da anni per la verità) che i nostri studenti nulla sanno circa l'occupazione italiana del cosiddetto Dodecaneso. Spesso fanno le vacanze a Rodi, a Kos, ad Astipálea e non sanno nemmeno che l'Italia ha occupato queste isole per ben trent'anni. Ci siamo anche accorti che questa ignoranza non riguarda solo i più giovani. Molti italiani, indipendentemente dall'età e dall'orientamento politico – persino, ahimè, qualche collega che insegna nell'università – condividono l'ignoranza dei nostri studenti ovvero, ed è più grave, considerano quanto è successo nel Dodecaneso come un irrilevante “dettaglio”, termine insopportabile da quando l'ha usato Le Pen a proposito delle camere a gas dei nazisti – les chambres à gaz, c'est un point de détail .
Abbiamo fatto una piccola inchiesta sui manuali di storia attualmente in uso nella media superiore italiana. Abbiamo preso in considerazione una ventina di testi: metà non fanno alcun cenno all'occupazione italiana; gli altri fanno un cenno telegrafico e incidentale (non più di una riga!) quando trattano dell'età giolittiana e della guerra di Libia. Solo quattro dei testi considerati aggiungono che l'occupazione italiana durò fino alla seconda guerra mondiale.
Ci siamo chiesti se tanto silenzio non dipenda per caso dal carattere scolastico di questi manuali e ci siamo rivolti alle storie generali del novecento uscite in Italia negli ultimi decenni. Ahimè, il panorama è identico. Persino la monumentale Storia d'Italia di Einaudi dedica all'argomento la solita riga: la campagna d'Africa di Giolitti «portò all'occupazione, destinata a restare definitiva, delle isole del Dodecanneso» (p. 1948 del vol. IV/3). Punto e basta. È mai possibile che una trattazione dell'Italia contemporanea di quasi tremila pagine, un'opera cui ha lavorato il fior fiore dei nostri storici, non dedichi all'argomento nemmeno mezza pagina?
Insomma silenzi piuttosto eloquenti, o forse soltanto ignoranza, anche se sappiamo che l'ignoranza della storia non è mai innocente. Quanti italianisti sanno che nel Dodecaneso l'italiano era obbligatorio nelle scuole e nei tribunali? Quanti storici della chiesa sanno che durante il ventennio si verificò nel Dodecaneso una vera e propria invasione da parte degli ordini cattolici? Quanti studiosi italiani del fascismo hanno lavorato negli archivi di Rodi? Eppure il Dodecaneso è un osservatorio interessantissimo: è nel novecento l'unico caso di colonialismo su suolo europeo; è il retroterra delle mire italiane nel Mediterraneo orientale culminate nella campagna di Grecia; possiede una imponente documentazione archeologica del proprio passato classico e medievale e pertanto è un luogo privilegiato per studiare l'impatto del nazional-classicismo fascista.
Perché dunque la nostra opinione pubblica, plebe e senatori, dimentica o minimizza il carattere colonialista e aggressivo dell'occupazione italiana?
Per spiegare questo comportamento si possono invocare varie ragioni: per esempio la minore crudeltà rispetto a quanto avvenne in Africa e nei Balcani; il fatto che la politica urbanistica e le opere pubbliche ebbero anche aspetti positivi (ospedali, scuole, strutture turistiche); il confronto con la dominazione turca e, soprattutto, il confronto col comportamento dei tedeschi i quali tra l'altro annientarono la comunità ebraica di Rodi.
Come è noto il giustificazionismo italiano trova espressione in un famoso luogo comune che si forma verso la fine della seconda guerra mondiale e poi dilaga nel dopoguerra, lo stereotipo “italiani brava gente”. Proprio nel Dodecaneso, a Kastellòrizo, è ambientato il film di Gabriele Salvatores Mediterraneo (1991), film di successo in cui i soldati italiani assomigliano molto a turisti caciaroni o goliardi spensierati in vacanza.

Studiare l'atteggiamento italiano nei confronti del Dodecaneso significa fare i conti con questo stereotipo, a quanto pare inaffondabile.
Non c'è dubbio che il luogo “italiani brava gente” è stato – e forse non poteva essere altrimenti – un prezioso strumento di sopravvivenza per la coscienza italiana del dopoguerra: ha aiutato a sdrammatizzare le colpe; ha contribuito a scindere le responsabilità del fascismo da quelle del popolo italiano; è servito al tavolo delle trattative per evitare all'Italia una pace punitiva. Tuttavia spiegare il giustificazionismo italiano solo come una forma di rimozione non risolve tutti i problemi.
Nick Dumanis ha scritto recentemente un interessante libro Myth and Memory in the Mediterranean tradotto in italiano col titolo Una faccia, una razza. Dumanis guarda le cose non dalla prospettiva italiana ma da quella greca, meglio: da quelle greche, perché in Grecia esistono due punti di vista molto diversi sulla questione. Il punto di vista “dall'alto”, cioè quello per così dire ufficiale della storiografia greca, secondo cui tutti gli occupanti stranieri sono barbari, imperialisti, colonialisti. Secondo questa visione gli abitanti del Dodecaneso furono praticamente ridotti in schiavitù e sono stati sempre irriducibilmente ostili ai “tiranni fascisti”. C'è poi il punto di vista “dal basso”, la vox populi dei testimoni oculari per i quali gli italiani sono stati “brava gente” (kalì àntropi). I 46 testimoni dodecanesini intervistati da Dumanis dicono, sovente con le stesse espressioni, con le stesse parole, che gli italiani erano ben più efficienti dei turchi, meno brutali dei tedeschi, meno freddi degli inglesi. Dicono «allora ce la passavamo bene» – pernùsame kalà – gli italiani «erano buoni» – itan kalì – «erano civili» – itan politismeni, erano «moderni», erano «europei».
Ovviamente il problema non è stabilire se gli italiani sono buoni o cattivi, se insomma ha ragione la storiografia greca scritta o la tradizione orale dei testimoni intervistati da Dumanis. Ma un problema tuttavia c'è: come spiegare la presenza dello stesso stereotipo nell'opinione pubblica italiana e fra gli abitanti del Dodecaneso? Dobbiamo forse pensare che esso fu comunicato in qualche modo ai greci dagli occupanti italiani? Una spiegazione meccanicista del genere non spiega niente. E poi l'adagio “italiani brava gente” è diffuso non solo in Grecia e in Italia, ma ha carattere internazionale (a quanto pare la famosa espressione l' “armata sagapò” non l'hanno inventata né gli italiani né i greci, ma gli inglesi).
In effetti è estremamente difficile esaminare uno stereotipo come questo che riguarda la coscienza di un intero popolo. Difficile, perché è più facile afferrare un elemento isolato che un contesto (è più facile dire che gli italiani hanno fatto a Rodi delle buone strade anziché tenere presente l'intero panorama dell'occupazione italiana con le sue luci e le sue molte ombre); difficile, perché studiare gli stereotipi significa prendere coscienza della stereotipia, dei meccanismi semiologici che governano la recursività delle rappresentazioni mentali e verbali, ciò che i francesi chiamano idée reçue e gli inglesi chiamano picture in our heads – ed è questo un settore di studio che, almeno in Italia, soffre di ritardi clamorosi.
Eppure abbiamo bisogno di capire cos'è avvenuto, perché è avvenuto. Abbiamo bisogno di capire perché dimentichiamo, perché ci autoassolviamo con tanta disinvoltura. Siamo stufi di sentirci dire che di queste cose è meglio non parlare perché «non ne vale la pena» ovvero perché «poi nascono polemiche». Se devono nascere polemiche, ben vengano. Il nostro convegno non deve trovare una qualche soluzione che metta tutti d'accordo, il nostro convegno vuole soltanto discutere in piena libertà, come del resto recita il motto dell'Università di Padova: Universa universis patavina libertas.

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