Oltre il Pil misuriamo la felicità 

di DONATO SPERONI

Va in edicola il nuovo numero di «East», la rivista diretta da Vittorio Borelli (ed. Baldini Castoldi Dalai). In sommario, tra l’altro, interviste con il consigliere di Putin per l’Europa e con lo scrittore albanese Fatos Lubonja sulla desolante realtà dei Balcani, un articolo sull’economia dell’Europa dell’Est trainata dalle banche e un saggio sui Millennium Goals, del quale pubblichiamo un brano in anteprima.

Per quanto difficile, il mondo potrebbe anche vincere la battaglia, ma rischia di perdere la guerra. La battaglia è quella dei Millennium Development Goals, gli obiettivi di progresso al 2015 fissati in una solenne assemblea dell’Onu nel 2000: sono stati fatti sostanziali progressi anche se ci sono ritardi e squilibri tra diverse aree geografiche. Ma c’è una cattiva notizia: a meta strada verso la meta, ci s’accorge che qualcosa non va, che quei goals non bastano, anche perché non hanno coinvolto le popolazioni locali. E così la comunità internazionale comincia a interrogarsi non solo su nuovi traguardi, ma anche su un nuovo modo di procedere. A Istanbul, in giugno, i rappresentanti di 130 Paesi si sono riuniti su iniziativa dell’Ocse in un Forum Mondiale concluso col lancio di un’idea molto ambiziosa: un Progetto globale per misurare il progresso delle collettività umane. Il concetto non è solo statistico. Come ha detto il segretario generale dell’Ocse Angel Gurria, «non stiamo solo cercando di misurare il progresso e il benessere, ma anche di perseguirlo». All’incontro(Measuring the progress of societies) si è discusso della percezione dei dati da parte dell’opinione pubblica, ma anche di che cosa vale effettivamente la pena di misurare.

Il vecchio Pil, il prodotto interno lordo, non e più uno strumento sufficiente per misurare l’evoluzione della comunità umana. Gli sforzi per superarlo si moltiplicano: una conferenza internazionale Beyond Gdp (Oltre il Pil) è annunciata per il 19 e 20 novembre a Bruxelles, su iniziativa dell’Unione europea, dell’Ocse, del Wwf e del Club di Roma. Ma il problema non riguarda solo l’Europa perché il contrasto tra sviluppo economico e qualità della vita è maggiormente avvertito nei paesi che stanno crescendo più rapidamente: in Corea dove dal 1960 il reddito pro capite è aumentato 200 volte in termini reali, il tasso di natalità si è dimezzato e l’incidenza dei suicidi negli ultimi dieci anni è più che raddoppiata.

Si può sostituire il Pil con la misura della felicità? Su questo tema lavorano ormai molti economisti. All’Erasmus University di Rotterdam, Ruut Veenhoven ha istituito il World database of happiness (sito ad accesso gratuito: http://worldatabaseofhappiness.eur.nl) che si propone d’essere un «registro continuo delle ricerche sulla percezione soggettiva della vita». A Rotterdam si elaborano anche indici ponderati come l’inequality adjustment happiness (Iah index) che tiene conto anche della speranza di vita. Ma nel complesso questa direzione di ricerca non sembra esaustiva. È vero che la felicità individuale è valutabile attraverso sondaggi. Ma il dato è troppo soggettivo, opinabile, difficilmente si presta ad essere utilizzato per attuare delle politiche. Si preferisce allora scegliere un insieme d’indicatori che possano dare la misura della qualità della vita. Quali sono gli elementi che incidono sulla «felicità economicamente sostenibile»? Oltre alla ricchezza ce ne sono tanti altri di natura eterogenea: la disoccupazione, l’inflazione, l’istruzione, la possibilità di godere del tempo libero. Ma non tutti i fattori pesano allo stesso modo nelle diverse età della vita. Per esempio, vari studi che mettono a confronto l’incidenza di disoccupazione e inflazione sulla felicita dimostrano che la popolazione tra i 29 e i 41 anni dà un peso doppio alla disoccupazione rispetto alle altre fasce d’età.(Lastampa.it)

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