Caro Walter di’ qualcosa sull’Iran

di ANTONIO SCURATI (la Stampa.it)

Caro Walter Veltroni,

gli antichi maestri insegnavano che il senso del pensiero filosofico è nelle domande prima ancora che nelle risposte. Vale anche per il pensiero politico. I nostri progetti di vita individuale, al pari dei progetti politici di vita collettiva, sono figli dei nostri dilemmi. Per questo motivo, in filosofia come nella vita come in politica, è tanto importante porsi i giusti interrogativi.

Quando si sfogliano i quotidiani, passando dalla politica estera alla politica interna, troppo spesso si ha la sgradevole sensazione di passare dal serio al faceto. Pare che tutto ciò che accade sulla scena internazionale sia degno, tragico e grave mentre ciò che accade nel cortile di casa nostra inclini, per sua natura, alla commedia. Ovviamente le cose non stanno così e i media hanno una buona dose di responsabilità nel dipingerle a questo modo. Inoltre, anche la commedia sa essere una forma d’intelligenza delle cose. Ma da quando la parola «guerra» è stata nuovamente pronunciata sulla scena del mondo, quella sensazione di sgradevolezza si va facendo sempre più acuta.

Ora che le dichiarazioni del ministro degli Esteri francese Kouchner ci lasciano intendere che l’ipotesi di una guerra all’Iran sarebbe ritenuta non solo possibile ma addirittura probabile, ora che d’un tratto i pareri degli esperti e dei ben informati ci suggeriscono che questa ennesima catastrofe, fino a ieri inimmaginabile, non solo è stata immaginata ma anche pianificata e programmata, ora che la tragedia inizia ad essere annunciata con tutta naturalezza, suona davvero stridente la discussione se la consorte del leader dello schieramento opposto debba candidarsi o no nelle liste per la costituente del futuro Partito democratico.

Per un verso, l’inquietante ma vigorosa iniziativa diplomatica e retorica di Kouchner evidenzia il lassismo manifestato dall’Europa rispetto alla fase di preparazione politica e militare di questa ennesima «emergenza programmata», per altro verso richiama l’Italia a una sua specifica responsabilità (visto il ruolo da protagonista svolto in anni recenti nei rapporti diplomatici con l’Iran e il peso che ha nella bilancia commerciale di quel grande, tragico Paese), ma non può non riguardare anche il dibattito da cui sorgerà la nuova formazione politica, alle cui sorti è affidato il futuro dei progressisti e, forse, anche del progresso italiani.

La questione della liceità e legittimità del ricorso alle armi da parte di uno Stato democratico, la questione se si possa e si debba, in talune circostanze, combattere una guerra giusta, ha lacerato la sinistra italiana negli ultimi decenni. Proprio a motivo di ciò, è questo uno dei dilemmi che devono essere posti nella fase di genesi della nuova esperienza politica che dovrebbe sanare quelle ferite e inaugurare una nuova stagione. Non credo di sbagliarmi se dico che quelle centinaia di migliaia di donne e di uomini che guardano con faticosa speranza alla nascita del Pd e si preparano a sceglierla come futuro leader – e chi scrive, per essere chiari, è tra quelli – vorrebbero sapere da lei (oltre che dagli altri candidati) se è per la pace o per la guerra. Ma non per la pace o per la guerra quali concetti astratti. Formulato in questi termini, il dilemma sarebbe fasullo, la domanda mal posta. Vorrebbero sapere, credo, se è favorevole o contrario anche alla semplice ipotesi di una guerra all’Iran. E lo vorrebbero sapere perché quelle centinaia di migliaia di donne e di uomini rimangono sgomenti dinnanzi al fatto stesso che quell’ipotesi venga formulata con l’allegra disinvoltura dei cavalieri di Carlo Magno che, ad ogni primavera, si riunivano nei campi di Maggio per l’annuale campagna militare di conquiste, scorrerie e devastazioni. Potrebbe cominciare con la sua «nuova stagione», caro Veltroni, una nuova stagione della guerra? È contrario per principio a una guerra all’Iran?

Lei rivendica di aver detto in questi quattro mesi ciò che doveva esser detto sul futuro del Paese riguardo a numerosi temi cruciali. Gliene va dato atto. Rimane, però, la questione per eccellenza, quella della guerra. È doloroso, lo so, porsi di questi dilemmi. Forse, però, è necessario, se vogliamo che quello da cui nascerà il Partito democratico sia un travaglio autentico. Altrimenti il rischio è che sorga su un terreno di visione compromessa, di aspettative limitate, di serietà ridotta.

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