Intervista al prof. Fernando J. Devoto autore del libro “Storia degli italiani in Argentina”

Ho tentato di presentare il quadro più ampio possibile secondo le mie conoscenze a proposito degli italiani in Argentina. Essi arrivarono in Argentina lungo due secoli. Ho cercato un filo di continuità tra la tensione di conservare la propria identità di origine e la pressione molto forte della società argentina per integrarli in quella realtà. Questa è stata una delle mie vie che, via via, ho sviluppato.
I tratti originari, in qualche modo, non si perdono mai e poi, gli italiani in Argentina, sia nell’800 che nel 900, hanno dovuto gestire sì un rapporto con una società diversa, ma una società che non era molto conflittuale che, in fin dei conti, agevolava questo processo di integrazione. Dopo, ho spaziato tra tante realtà, dal mondo dell’imprenditoria a quello contadino, dagli operai ai tecnici ed i professionisti.

Ha sottolineato che quella italiana in Argentina è stata una esperienza diversa dalle altre emigrazioni.

Ho tentato di non fare la storia dell’emigrazione, ma ho voluto inquadrare il fenomeno in uno scenario più ampio perché una delle differenze dell’esperienza argentina dalle altre è che quella fu una esperienza molto più vasta e varia sotto il profilo professionale ma anche sotto il profilo regionale. Quando noi guardiamo gli USA, vediamo soprattutto gli italiani appartenenti a strati sociali bassi. In Argentina, invece, è presente una società più nuova che nasce in contemporanea con l’emigrazione. Gli emigranti non approdano, cioè, in una società già strutturata e completa di gerarchie. Gli italiani immessi in quella realtà ed a quei tempi, erano italiani partiti dal loro paesino senza aver frequentato le scuole, scoprivano di essere italiani proprio lì, in Argentina.
Per questo motivo io sostengo che è molto complesso parlare di italianità. Preferisco parlare invece, di comunità, di microsocietà. Gli italiani erano padroni ed operai, proprietari e locatari, proprietari terrieri e mezzadri, di condizioni diversificate quindi. La forza del movimento associativo degli italiani in Argentina non ha paragoni con nessuna altra parte del mondo sia per numero di società che per capitali sociali. Non fu l’Italia a creare banche, ma gli immigrati arricchiti, crearono, in Argentina, delle banche. La banca d’Italia del Rio della Plata, per esempio, che nasce nel 1876 e diventa, oggi purtroppo non esiste più, diventa, negli anni venti, una delle più grandi banche argentine. Questo fatto non si riscontra altrove.
Fu fondata da genovesi che, nel frattempo, si erano arricchiti col commercio e con la navigazione.

Il sistema, oltre che importante, si rivelò fondamentale per gestire le rimesse non è vero?

Faccio spesso questo esempio. Lo Strato italiano, per gestire le rimesse degli emigranti affidò ad una banca italiana, il Banco di Napoli, il compito di aprire delle filiali in Francia, negli USA, in Canada per evitare le truffe. Tutto questo, però, non in Argentina perché lì era presente la Banca d’Italia del Rio della Plata che era la corrispondente del Banco di Napoli.
Si pensi che, verso la fine dell’800, il 40% di tutti gli imprenditori industriali, erano italiani.

Il prof. Uckmar si è detto rammaricato per aver evinto, dalla lettura del libro, che gli italiani in Argentina avessero perso la loro italianità.

Abbiamo una società nella quale c’è stata una frattura tra i figli ed i genitori. I primi presero molto velocemente l’identità argentina prendendo le distanze dai loro genitori che, in molti casi, non parlavano neanche l’italiano ma il dialetto. Frequentando, poi, le scuole argentine si è fatto si che la terza generazione abbia avuto in passato, oggi forse è un po’ diverso, un rapporto più distaccato con i genitori. Infatti, questo stato di cose, lasciava delle perplessità soprattutto da parte degli intellettuali italiani. Essi non volevano inviare italiani perché temevano che sarebbero diventati presto argentini. Per loro, era gente che l’Italia avrebbe perso. In ogni caso non è gente che si perde perché, anche quando si prendono le distanze, sono come i cugini, a volte i rapporti tra cugini non sono facili ma c’è quest’aria di famiglia.

Quali miti o leggende errate sfata il libro?

Innanzitutto, ho ammesso che non tutto fosse stato rosa e fiori. C’è stato anche l’aspetto negativo. Ci sono stati italiani che hanno avuto successo e quelli che hanno fallito. Ho tentato di dimostrare la complessità, a volte, l’ambiguità dell’esperienza migratoria.
Il libro non ha una tesi forte. E’ un libro che vuole capire, narrare. In secondo luogo ho tentato di non separare gli argentini dagli italiani: qui gli uni e lì gli altri. Sono arrivato a sostenere che non si può parlare di emigrazione di ritorno. In ogni caso, si tratterebbe di emigrazione di argentini che verrebbero in Italia oggi, terza quarta generazione. Al massimo sarebbe una emigrazione di argentini di origine italiana, forse di passaporto italiano, ma un passaporto non fa una identità.
In Argentina, il fenomeno dell’emigrazione, si può parafrasare ad una insalata mista dove italiani ed argentini si nono mischiati insieme senza confondersi, senza conflitti ma anche senza fusioni.

Si può affermare che gli italiani e gli argentini, in virtù di queste similitudini che li caratterizzano, siano una specie di popoli paralleli con identiche caratteristiche ecco perché il processo di integrazione è stato più facile?

Certo, è stato più facile in virtù di più vicinanze per esempio, nella lingua e nella cultura cattolica di base. Non si dovevano confrontare con quanti si trovavano in posizioni più forti, si pensi ai protestanti. Lingua, religione, comunanza di abitudini, la vicinanza mitologica del mondo mediterraneo a quello latino, univa rendendo semplice l’integrazione.
Sembrerà, a questo punto, strano dire che, in principio nell’800, in Argentina, fossero più graditi e preferiti gli anglosassoni piuttosto che gli italiani. Poi, quando sono cominciati i problemi, di identità nazionale, gli argentini hanno ammesso che gli italiani erano da preferire perché capaci di integrarsi più facilmente, come gli spagnoli.

Da quando udito dai relatori alla presentazione del libro, citi una cosa che l’ha colpita favorevolmente ed una che l’ha contrariata.

Per le cose negative no, non lo farò perché credo che ognuno possa esprimere le proprie idee. Uno può anche dire di non aver letto bene il libro, ma questa resta una mia opinione e non è importante. Importante è che ci siano dei lettori e che ci sia interesse per il libro. Dopo, l’ho anche detto ieri (18 aprile), una volta che il libro esce, appartiene ai lettori, non più all’autore.

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