La genetica dell’anima: il reality televisivo

Non impressiona né meraviglia perché piaccia. Sconcerta il fine perseguito cioè le reazioni che si intendono scatenare nello spettatore.

Il genere reality dilaga ormai sui nostri schermi televisivi. Si tratta di una sorta di “allevamento” umano nel quale, agli uomini, si danno in pasto uomini, i loro sentimenti, la loro anima. Lo spettatore, a sua volta, ci ciba di tutto ciò. C’è il rischio, così facendo però, di alchimie e stranezze. Una sorta di “mucca pazza” della psiche.

Cinque edizioni del “Grande Fratello”, tre dell’”Isola dei famosi”, due di “Music farm”, due di “La fattoria”, quattro di “Amici”, una di “Campioni” due di “La talpa”: i reality televisivi sorta di intervento genetico ai danni dell’animo, della psiche e del comportamento. Gli ambienti in cui si svolgono sono circoscritti e chiusi, le libertà più elementari negate compreso quella dell’informazione. Nessun contatto con la vita e sotto i riflettori delle telecamere. L’obiettivo è esasperare l’umana sopportazione e liberare gli istinti. Sicuramente piace molto.

La programmazione è finta, da questa devono emergere, però, momenti di vita reale. I soggetti che si sottopongono volontariamente a questa vessazione o sono personaggi famosi finiti nel dimenticatoio o emeriti sconosciuti in cerca di successo. E’ una forca caudina. Lo spettatore è attratto dalla ricerca di un attimo di cedimento dei protagonisti quando questi smettono di recitare e si lasciano andare. Quell’attimo è il reality ed è questo che piace immensamente. Lo spettatore aspetta con pazienza ed attenzione proprio di scoprire quell’attimo. I protagonisti sanno di doversi controllare perché osservati, spiati persino nei momenti più intimi. Sensi di colpa, rimorsi, rancori, la paura di cosa penseranno a casa, ad un certo punto, alterano ogni forma di spontaneità. La “poltiglia” delle relazioni falsa i rapporti tanto da rendere irriconoscibile la realtà dalla finzione. Ogni “abbandono,” fisiologico e privatissimo che sia, acquista il tono dello scandalo e della vergogna anche quando il gesto, in sé stesso considerato, è comune a tutta l’umanità, normale. Assistervi è una goduria indescrivibile, piace da morire. Lo “spettacolo” risulta una mistura di realtà e di finzione, a causa delle telecamere. I partecipanti si propongono di stare attenti a saper recitare per trasmettere una immagine positiva di sé stessi. Il risultato, però, è un composto di finta realtà vera e di finta realtà falsa. Il procedimento è abnorme, cinico, premedita un obiettivo patologico. Bisogna ammettere, però, che l’idea ha del geniale. In fondo si attinge direttamente dal contenitore delle miserie umane. Lo spettatore aspetta al varco l’individuo mentre il tempo lo “sbuccia” lentamente mettendolo a nudo. Si finge di fare finta di fare sul serio, si finge di fare sul serio di fare finta.

La manipolazione sta proprio in questi passaggi, arzigogoli comportamentali utili a rendere attraente il tutto. Diventano motivo ed oggetto di analisi, di pettegolezzo, di dibattito, di voyeurismo tout court. La “mattanza” cervellotica di questi procedimenti raggiunge il massimo della contorsione nel confessionale. E’ quello il momento della sincerità e della privacy “di dominio pubblico”, segreta ai compagni di avventura. Nel confessionale finalmente si è sé stessi fingendo una ennesima volta una confidenza segreta dove lo spettatore diventa interlocutore, compagno e complice.

Il comportamento dei partecipanti, viene passato al setaccio per scoprire e codificare nuove “selezioni” comportamentali, nuovi incroci di sentimenti. L’amore, la simpatia, l’invidia, il sotterfugio, l’onestà, l’inganno, il tradimento, acquistano forma nelle relazioni tra reclusi. Il guardone sguazza nel pettegolezzo sollecitato dagli eventi e dalle relazioni “infette” e tutte negative del gruppo.

Il sistema appare cervellotico ed innaturale. Ma la vera genialità sta in chi ha avuto, per primo, l’idea di realizzare un tale spettacolo. E’ stato anche banale, se vogliamo, immaginare che la tortura psicologica, lo sfastidio, la smania di libertà e l’astinenza sessuale, sarebbero stati forieri solo di sviluppi negativi. L’autore deve avere avuto una intuizione che assecondava il bisogno di soddisfare una perversione apparentemente innocente. In quella mente è da ricercare il virus che ha contaminato un pubblico reso deficiente e godereccio da una sottile perfidia studiata e pianificata a tavolino. La sua deve essere stata una idea deduttiva riassuntiva di un piacere, di un bisogno pruriginoso. Il procedimento a ritroso deve averlo portato a scomporre la deduzione in tutta la serie di particolari possibili di cui poteva essere composta. Particolari curiosi ed eccitanti, segreti e personalissimi. Alcuni di questi vietatissimi per postulato. Da quel momento è stato facile, dopo una accurata pianificazione di ipotesi cui sottoporre i soggetti nel tempo e nello spazio senza libertà né autonomia, immaginare l’impatto sullo spettatore. Il reality distorce, in sostanza, la normalità, offende quello che è il normale svolgersi delle attività e delle relazioni tra gli uomini, rende vile ogni azione che non sia consentita in pubblico. In quel contesto si arriva ad impastare i sentimenti direttamente nell’anima. C’è il rischio, così facendo però, di alchimie e stranezze, una sorta di “mucca pazza” della psiche. Uomini che si “nutrono” di uomini nel cannibalismo sconsiderato ma ludico in salsa mediatica delle azioni e reazioni comuni sia a spettatori sia a protagonisti. E, come se non bastasse, c’è chi lucra in tutta questa brutta storia.

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