«Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la patria. Tennero fede al giuramento. Questa – Signor Presidente della Repubblica Ellenica – è l’essenza della vicenda di Cefalonia». Così esordì Carlo Azelio Ciampi a Cefalonia il 1° marzo del 2001 alla commemorazione dei caduti della divisione “Acqui”.
In tutto, le perdite, furono ingenti. Solo nei giorni tra il 23 ed il 28 settembre i tedeschi trucidarono 5.000 uomini e 129 ufficiali compreso il Gen. Gardin fucilato alla schiena. Il carnefice Generale Hubert Lanz firmò il massacro. La città di Argostoli, teatro degli scontri, fu completamente distrutta. Il dramma si perpetrò dopo la decisione plebiscitaria del 14 settembre quando la volontà di tutti i militari decise di: «resistere ai tedeschi». Fu un bagno di sangue. Dalle 14.00 del 15 settembre alle ore 16.00 del 22 per 24 ore al giorno. La vendetta tedesca fu inesorabile contro quelli che definirono «traditori». «E’ una vergogna come si comportano i soldati tedeschi» si legge nei diari degli ex militari hitleriani Alfred Richter e Waldemar Taudemar «…vengono sparati soltanto pochi colpi, poi gli italiani agitano i fazzoletti bianchi e cominciano a venir fuori a gruppi, correndo. Ma quando noi raggiungiamo l’altura, li troviamo uccisi dopo che si erano arresi» – continua il diario – «…li portano vicino al ponte, fuori città, e li fucilano…le grida arrivano fin nelle case dei greci». Sono tantissime le testimonianze che storicamente aggiungono quella umanità postuma tipica di un brutto ricordo. Nicola Russigno, 80 anni, vecchio sottotenente sopravvissuto ricorda con orgoglio: «Quando lo racconto, non mi credono. Eppure su quest’isola c’erano i miei colleghi ufficiali che si offrivano volontari per la fucilazione. “Vado io, così la facciamo finita”. C’era quasi una gara ad andare prima degli altri davanti al plotone. Ecco, se si capisce una cosa come questa, si può comprendere cosa sia stata la tragedia di Cefalonia». Russigno si salvò solo perché don Formato, il prete, sbottò urlando: «Basta, soldati tedeschi. Ne avete ammazzato abbastanza, state fucilando da questa mattina. Salvate almeno questi ultimi. Si può affermare, senza per questo suscitare scandalo, che i fatti di Cefalonia possano essere paragonati, per modalità, ai crimini delle Fosse Ardeatine, Marzabotto e Civitella di Chiana. La Germania, sino ad oggi, non ha mai formalizzato le sue scuse in un documento o con atti ufficiali come avvenne nel 1969 quando il Cancelliere Willy Brand si inginocchiò a Varsavia davanti al monumento in onore degli ebrei trucidati dai tedeschi.
Le scuse sono un atto dovuto: «E’ stata una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli della lunga storia del combattimento armato» così definì la strage di Cefalonia il rappresentante dell’accusa al processo di Norimberga. I 31 militari tedeschi superstiti che si macchiarono di questi crimini, non furono mai processati. Non ci fu la volontà politica, da parte delle autorità italiane, di chiedere il processo. Nel 1956, l’allora Ministro degli Esteri, Gaetano Martino scrisse a Paolo Emilio Taviani chiedendogli di avallare la scelta di affossare ogni tentativo di giustizia riguardante la strage di Cefalonia. L’avallo fu accordato dal Ministro della Difesa Taviani come egli stesso ammise in una intervista al settimanale l’Espresso del novembre 2000: «Il mio consenso – ammise – contribuì certamente a creare – quella che il settimanale l’Espresso definisce – la sepoltura della giustizia…la guerra fredda imponeva delle scelte ben precise, in quei giorni l’Unione Sovietica stava invadendo l’Ungheria…aveva ragione Martino a prevedere che un eventuale processo per l’orrendo crimine di Cefalonia avrebbe colpito l’opinione pubblica impedendo forse per molti anni la possibilità per l’esercito tedesco di risorgere dalle ceneri del nazismo…». In pratica la resurrezione dell’esercito tedesco era necessaria alla Nato contro la minaccia dell’URSS.
Con quei momenti è la coscienza degli uomini a fare i conti con la storia. Qualsiasi scusa aggrada, sì, la forma, ma mortifica il dolore. Spesso, rinvigorisce il rancore specie se ritardata. Consola non poco che martiri italiani almeno riposino in pace in terra amica ora come allora.
La memoria di quei giorni è affidata ai monumenti eretti a Verona nel 1966, ad Acqui nel 1967. Su quello, in porfido rosso, che si trova dal 1978 sulla punta di S. Teodoro a nord di Cefalonia, il resoconto: «Ai soldati della Divisione Acqui / marinai e finanzieri del presidio dell’isola / offertisi volontariamente contro gli oppressori nazisti / caduti dal 15 al 26 settembre 1945 / in combattimento: ufficiali 26, sottoufficiali e soldati 1250 / fucilati: ufficiali 155, sottoufficiali e soldati 5000 / dispersi in mare: sottoufficiali e soldati 3000 / L’Italia riconoscente».