Qui è tutto maledettamente fermo. Bloccato il Governo, che fatica ad andare oltre la piacevole sensazione di compostezza, riservatezza e anti presenzialismo che genera il presidente del Consiglio. Addormentato il Parlamento, che neppure prova, a quattro mesi di distanza dalla disfatta dell’Italicum, a costruire uno straccio di legge elettorale. Paralizzata la politica, che attende di sapere se il Pd sarà ancora nelle mani di Renzi, e da questo sembra far discendere qualunque cosa. Stagnante l’economia, che si gioca con quella greca l’ultima posizione, la ventisettesima, nella classifica europea. Siamo solo alla fine del primo trimestre, ma già si capisce che il 2017 rischia di essere nello stesso tempo l’anno migliore e peggiore del decennio.
Partiamo dall’economia, che alla fine è la cosa che più conta. L’Italia è imballata e non riesce a superare la crisi: dopo la crescita del pil, nel 2016, sotto l’1% (+0,9% per l’esattezza), quest’anno dovremmo superarlo (+1,1%), ma sarà comunque il punto più alto della curva, perché già nel 2018 rallenteremo. Confcommercio, per esempio, stima per l’anno prossimo lo 0,8% (contro una precedente ipotesi dell’1,2%) perché vede i consumi, che già ristagnano (+0,8% quest’anno), tornare a contrarsi (+0,7% nel 2018). Ma se a Confindustria chiedete la proiezione degli investimenti, troverete le stesse indicazioni sconfortanti. In sostanza, un po’ di effetto trascinamento dall’anno scorso mantiene la nostra economia intorno al punto percentuale di crescita, ma senza interventi radicali e in previsione di cambiamenti internazionali – la politica neo-protezionistica di Trump e, soprattutto, la fine della stagione della politica monetaria espansiva da parte della Bce – che certo non saranno dei tonici per noi, non è difficile immaginare che si torni allo “zero virgola”, con tutto quel che significa, sia in termini di vincoli più stringenti nelle politiche di bilancio che di ulteriore calo della fiducia da parte di imprese e famiglie. È, tutto questo, l’inevitabile conseguenza di una politica economica poco pensata, arrangiata, priva di un respiro strategico. Un surf, anche un po’ dilettantesco, sulla congiuntura, che te la fa subire proprio mentre ci vorrebbe la capacità di aggredirla e governarla.
In questo quadro, occorrerebbe da parte del Governo e in generale della politica ben altro approccio dell’attuale “wait and see”. Parliamo dell’attendismo che lascia le banche italiane – e non solo il Montepaschi e le due venete – in un limbo che potrebbe rivelarsi l’anticamera di un inferno sistemico se non si dovessero battere le resistenze europee che rischiano di impedirci, per mancanza di attributi da parte nostra, di spendere i 20 miliardi che seppur tardivamente sono stati stanziati. Parliamo dell’attendismo che lascia marcire i problemi deflagranti – dall’Alitalia all’Ilva – e nasconde quelli latenti. Per non parlare delle decisioni drammaticamente sbagliate, come quella (che abbiamo già commentato) sui voucher. Insomma, ci riferiamo a tutto ciò che impedisce all’esecutivo di darsi un profilo che sia qualcosa di più del minor tasso di ansia collettiva che Gentiloni promana rispetto a Renzi. E non è sufficiente nemmeno la stabilità fine a se stessa, che se da un lato ha impedito di commettere il pur grave errore di correre alle urne per risarcire il danno subito dal Pd e dal suo leader in occasione del referendum, dall’altro finisce per far perdere tempo prezioso dopo che già tutto il 2016 se n’è andato dietro alle manie di grandezza (riforma costituzionale e legge elettorale) renziste.
Guardate che diciamo queste cose a malincuore, visto che fin dall’inizio siamo stati molto favorevoli al governo Gentiloni. Tuttavia, di fronte all’empasse, non possiamo tacere. Se questo esecutivo è nato per evitare che il Paese rimanesse vittima del risultato del referendum e della sconsiderata voglia di rivincita di chi l’aveva perso, ora non può attardarsi ad aspettare i risultati delle primarie e del congresso del Pd, né tantomeno finire impantanato nelle guerre che tra scissione, scontro tra candidati alla segreteria e pratiche barocche per la ridefinizione della geografia interna, stanno trasformando quel partito in un caso di harakiri collettivo. Né può farsi inghiottire in queste sabbie mobili il Parlamento, cui spettava (spetta) come compito fondamentale quello di dare subito al Paese una normativa decente, e coerente, tra Camera e Senato, per poter votare.
Domanda polemicamente il nostro amico Gianfranco Pasquino: il Pd alla Camera ha la maggioranza assoluta dei seggi, perché non avanza la proposta del Mattarellum? Noi non siamo convinti che sia quella la legge migliore, continuando a preferire, specie in questo bipolarismo bastardo che divide i populisti-sovranisti da coloro che, almeno sulla carta, non lo sono, uno schema alla tedesca. Ma capiamo, e approviamo, la provocazione di Pasquino: il Pd si assuma la responsabilità di prendere l’iniziativa. Si dirà: ma finché non si saprà in che mani finisce il Pd, come si fa a prendere un’iniziativa così importante? Per carità, è vero, ma non meno vero è che quella decisione spetta al Parlamento e che i parlamentari Democrat possono e devono avere una loro autonomia rispetto al partito. Tanto più su un tema così basilare per il buon funzionamento della democrazia.
Vedete, questo impasto micidiale di inerzie, lentezze, indecisionismi, vacuità programmatiche e fragilità politiche, non solo impedisce di governare il Paese come la dimensione e profondità dei problemi richiederebbe, ma rappresenta il migliore terreno di coltura per far crescere elettoralmente l’albero storto del populismo. I sondaggi valgono quel che valgono, ma quando segnalano tendenze pericolose, dovrebbero scattare tutti i campanelli d’allarme possibili. Invece sembra prevalere un fatalismo narcotizzante. A cui, noi, testardamente, non vogliamo piegarci.
Segnaliamo, inoltre, l'articolo a firma Enrico Cisnetto uscito sulla Rivista Paradoxa
Serve una nuova Bretton Woods
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