IL DECONDIZIONAMENTO CONSUMISTICO

Il Processo di Individuazione

Gli adulti educatori devono affrontare, provocare, sfidare l’intrinseca coesione apparentemente indissolubile del gruppo per intervenire dove poi subentrerà un consequenziale e naturale scioglimento, una scissione interna sofferta, perturbatrice e foriera di sentimenti nostalgici di abbandono da parte dei componenti dell’insieme collettivo che diventerà col tempo dis-pari ed assumerà gli aspetti ed i caratteri intrinseci di un gruppo amicale, non più di pari, con la perdita dolorosa di alcuni elementi e l’acquisizione spontanea o voluta di altri, imparando così ad elaborare la sofferenza emotiva della separazione, il trauma del distacco affettivo, a convivere con il dolore della solitudine, con la fatica, le difficoltà dell’esistere, assimilando e trasformando tali stati d’animo in risorse positive, valoriali, creative e ricreative, per accettare la propria identità e proiettarla in un futuro possibile, realizzabile, attuabile, concreto.
L’educatore si assume la responsabilità di un ruolo scomodo finalizzato all’esecuzione di un compito disgregante, perturbatore, che infastidisce, creando momenti di frattura che disorientano, frangenti di scarto, situazioni di intolleranza, condizioni di pesante disagio, sentimenti di recondita insofferenza e ostilità, provocando laceranti e dannosi incidenti di percorso, affinchè il gruppo si attribuisca finalmente una nuova identità, una rinnovata configurazione che acceleri il processo di crescita, favorendo occasioni per innestare la dinamica processuale di disgregazione, creando propizi fenomeni di individualizzazione ed individuazione dei destini, oltre le barriere intersoggettive e i muri caratteriali, oltre le difficoltà, le diversità intergenerazionali, l’intolleranza ostile, sradicando convinzioni precostituite, declassando divi inconsistenti e miti preconfezionati, attraverso una “funzione di ‘decondizionamento’ dai massmedia, proponendo ambienti sociali di ‘disintossicazione’ dalla commercializzazione dei messaggi consumistici”, per formare uomini e donne liberi e consapevoli. Chi in gioventù è formato da tale esperienza di dinamica processuale, inevitabile a livello gruppale, affronta in futuro la vita con un accentuato senso di individualità, soggettività e conseguente stimolo progettuale. Quindi gli elementi del gruppo transitano dalla coesione interna ad un processo di individuazione, di emancipazione soggettiva, dove “identificarsi”, individuarsi, come sostiene la psicanalisi junghiana, significa dividersi, disgregarsi, separarsi dall’insieme, dalla matrice, dal tutto complessivo e omnicomprensivo.
La società contemporanea ha bisogno di processi di individuazione perché attraversa un periodo a forte rischio di standardizzazione ed omologazione, secondo dinamiche ed operazioni perverse imposte dal sistema, dai mezzi di comunicazione massmediale, volti a sradicare il senso di dignità individuale, personale, il valore ed il significato di una dimensione a livello intimo, personale, interiore, attraverso meccanismi mercificatori di omologazione, per cui la vita interiore, segreta, intima dell’individuo si rivela a rischio di appiattimento, di standardizzazione.
La funzione pedagogica dell’adulto educatore consiste quindi nel creare ostacoli invalicabili nel gruppo, che implicano resa, accettazione, sconfitta, rassegnazione, come gravi e irrimediabili incidenti di percorso, fratture emotive ed affettive, al fine di instaurare, avviare il processo di individuazione che si ottiene, per esempio, trasformando un insieme collettivo di pari, di coetanei e avviando una progettualità futura, una prospettiva interna al gruppo per sperimentare un senso unitario ed un significato sotteso, finalizzati ad una meta ad uno scopo e obiettivo da raggiungere, con un portato valoriale intrinseco.
Il lavoro di strada si compie allontanando, dissociando i ragazzi dal luogo abituale di incontro, di ritrovo consueto del gruppo, generando uno “spiazzamento” affettivo, emotivo e cognitivo, introducendo la novità, la diversità, l’alterità, inserendo nel gruppo “accidenti” tutelati dall’educatore che introduce, tramite un atteggiamento dialogico aperto, di interscambio, esperienze di novità, di pensiero, di parole, messaggi e simboli che altrimenti verrebbero respinti e non si integrerebbero con progetti che apportino interrogativi, dubbi, perplessità, ricorrendo anche ad una serie di mezzi e strumenti a carattere artistico, espressivo, ludico/ricreativo e sportivo.
La prospettiva pedagogica per avviare e realizzare il processo di emancipazione individuale tramite lo spiazzamento a livello emotivo, cognitivo ed affettivo, utilizza il metodo autobiografico, l’approccio narrativo, per cui la relazione si fonda sul racconto e l’importanza di comprendere le storie di vita altrui, per accoglierle, valorizzarle, interiorizzarle, facendone tesoro.
La pedagogia narrativa permette di accedere alle storie dei singoli elementi, degli individui appartenenti al gruppo, dove la commistione delle vicende narrate ed ascoltate non deve perdere il profilo del contenuto esperienziale, del senso sotteso e del significato intrinseco che accomuna e rende partecipi all’altruità. La specificità della competenza pedagogica consiste appunto nel raccogliere, rievocare, riconnettere, rimembrare e relazionare storie e resoconti di eventi che il gruppo non ha mai ascoltato veramente con interesse, prestando attenzione al contenuto e all’implicito significato, attualizzando così la trasposizione nella modernità dell’antica funzione narrativa degli aedi, griot, poi cantastorie e cantori che narrano, rievocano vicende per inserirsi in gruppi e comunità, attraverso l’esposizione narrativa di storie ed eventi di vita che vengono riattualizzati, riesumati dal passato, rievocati, e di rimando rilanciati per ottenere l’incontro, l’appuntamento abituale, al fine di riincontrarsi e ritrovarsi, in una prospettiva rinnovata di cambiamento, attraverso l’obiettivo fondamentale, il focus educativo del recupero della memoria passata, personale e collettiva, sottesa alle implicite e consequenziali dinamiche metabletiche dell’autonarrazione.
Così nel gruppo, con l’apporto della “pedagogia della memoria”, attraverso il ricordo fecondo di idee, l’educatore innesta processi di autoriflessione, rimemorizzazione dell’accaduto nel passato personale, da dove attingere per rianimare e sviluppare una consapevole dimensione progettuale, decisionale autogestita ed autoamministrata, in una prospettiva finalmente individuale, non più d’insieme.
La scrittura di sé, la poesia, la narrazione, secondo l’apporto e contributo autobiografico, attraverso la pedagogia della memoria narrativa del passato, risultano pratiche creative che costituiscono notevoli e significative occasioni di interiorizzazione di valori e di introspezione, dove la forza motrice dell’educazione consista nell’innestare lo stimolo del recupero e della rivalutazione di una risorsa interiore, di una forma mentis creativa e ricreativa, catartica perché rigenerante, nel risveglio di una coscienza personale, individuale, di cui ogni storia costituisce un’esperienza, una vita ed un dialogo interiori che possano riunire, fare incontrare, in comunità, in affinità, per recuperare il proprio sé, per ritrovarsi soggettivamente ed individualmente, imparando a tollerare ed elaborare condizioni inevitabili di solitudine esistenziale, pur appartenendo ad un insieme. “Uno sforzo di memoria autobiografica con uno straordinario valore educativo e culturale nella sua concreta pratica di formazione ed educazione permanente, che mira ad ottenere il fondamentale obiettivo di recuperare e tutelare le specificità delle esperienze soggettive e la loro unicità, che sa creare un argine diffuso e condiviso contro la violenta pervasività del pensiero unico veicolato dai massmedia e dall’uniformazione delle coscienze che la cultura consumistica ha l’esigenza di ottenere. Contro l’ipocrisia e la falsa coscienza di una rappresentazione virtuale dell’esistenza, dove saltimbanchi, buffoni ed imbonitori uniformano la cultura popolare nel nulla televisivo. Contro l’eliminazione di ogni differenza, contro una visione dove ogni cosa ne vale un’altra, contro un insipiente e fallimentare appiattimento della prospettiva storica su un presente ricorrente in modo ossessivo come unico luogo di concretezza del mercato, contro una prospettiva che valorizza solo ciò che possiede un valore immediato ed economico”.

Sembra assurdo trattare del disagio invisibile di fronte a queste manifestazioni visibilissime di malessere (i suicidi, il caso Parini). Prevenire il disagio è difficile soprattutto nella città degli interessi, come Milano o come altre grandi città. Infatti Milano è al primo posto della produttività della Nazione. Produrre tanto, costa molto caro, non soltanto in termini economici, nel senso che Milano è la città più costosa del mondo e noi donne sappiamo quanto costi il lavoro femminile, ma anche in termini di relazionalità famigliare, difficoltosa anche per quanto concerne la qualità di vita.
Sembra una città senza sogno che vive il suo disagio privata di speranza nel cambiamento del futuro, senza capacità di trasformarsi e potenzialità di rinnovamento. Milano paga in termini costosi questo eccesso di produttività oltre il limite della qualità della vita. Il fatto più rilevante è la mancanza di tempo, l’impossibilità di dialogo con i figli; occorre sempre l’occasione giusta, perché la vita di un ragazzo non può essere riassunta a fine settimana. Adesso i ragazzi non sanno più spiegare il tipo di lavoro, l’impiego del proprio genitore, la cosiddetta new economy non è raccontabile e quindi è venuto meno questo filo rosso di passaggio tra le generazioni, di scambio della visione del mondo attraverso il racconto, la narrazione, giorno per giorno, anche della confidenza dei problemi lavorativi. Così compare una famiglia breve, di poche parole e di vacue speranze. Si dice che i giovani non hanno valori come sostiene il giudice del tribunale per i minori Livia Pomodoro, perché questa è una società che non desidera e non protende a valori alti, a ideali e idealità con un minimo d’orizzonte d’attesa, pochissimo respiro utopico, senza un mondo ideale al quale tendere e quindi anche i valori rimangono testimonianza dello stile di numerose famiglie, con una modalità quotidiana di porgersi, di atteggiarsi, priva di grandi valori da trasmettere, perché dopo il crollo delle grandi ideologie che hanno contraddistinto il secolo scorso, rimane ben poco da porgere in termini di idealità. Si tratta dunque di procedere a vista, di parlare dei problemi di breve durata, di dare esempi di buon comportamento, chiedendo poi ai ragazzi di disegnare una propria soggettività, al di fuori degli schemi della tradizione, perché gli stampi tradizionali di formazione della personalità sono andati distrutte. La mancanza di un’identità generazionale e di un’appartenenza al collettivo vengono meno per l’assenza di momenti di aggregazione, quindi occorrerebbe trovare altri percorsi per la produzione della soggettività, diversi da quelli della tradizione che non valgono più. Così i giovani sono chiamati ad un compito creativo, di generazione e creatività di sé che non è da tutti, perché occorre possedere dei talenti, delle passioni, degli interessi, perché attribuiscono identità al soggetto. Il problema di un educatore è scoprire nel ragazzo i suoi punti di forza, i suoi piaceri, le propensioni, le predisposizioni, il talento, i desideri, il piacere e tutto questo è estremamente aggregante, può diventare quell’elemento intorno a cui si coagula l’identità creativa stessa. Tale processo di personalità autogestita, creativa, mitopoietica dove in fondo ogni ragazzo deve forgiare la sua figura, il suo mito personale, si scontra invece con l’investimento totale della famiglia sulle presunte abilità e i molto reconditi talenti giovanili. Chi riceve la proiezione dell’immaginario altrui si sente gravato anche perché proprio nella costruzione di sé, come atteggiamento riflessivo, porta dentro implicitamente il modo con cui gli altri lo percepiscono e le richieste che gli altri gli pongono e impongono. Subentra il pensiero onnipotente in un’oscillazione ossessiva che tende da un polo di impotenza, a un polo di onnipotenza in cui “tutto subito” è possibile ottenere. In tutto questo manca il procedimento riflessivo, l’autoriflessione, quello che Bion chiama il “punto zero” in cui l’oscillazione di potenza si stabilizza, si ferma, aspettando un equilibrio. Ma nella famiglia comune il tutto risulta molto vorticoso, le richieste e le pretese insistenti, in un incalzare ossessivo e continuo di rimproveri, per cui il punto riflessivo, il punto fermo non si incontra mai. Si avverte questa accelerazione continua delle richieste altrui che in fine vengono interiorizzate quali pretese e fatte proprie. La vergogna è una delle più antiche forme di costruzione dell’identità personale collettiva. La morale occidentale si forma sulla vergogna, diversa dalla colpa, perché colui che ha trasmesso una trasgressione anche se compiuta non intenzionalmente, nel mondo arcaico è ugualmente colpevole perché ha danneggiato la collettività portandovi il miasma, il male, la malattia, che è diventato male della collettività. Come Edipo deve abbandonare Tebe per colpa sua infestata dalla peste. La colpa con il cristianesimo diventa interiore, si interiorizza progressivamente nel “senso di colpa” di cui citava Freud. Esiste un processo di progressiva interiorizzazione del mondo (Freud). Quello che una volta era esterno, viene introiettato progressivamente. La colpa è diventata un’istanza psichica di cui si risponde di fronte al super-io. Ai tempi di Freud la colpa si riassume nello schema edipico e il super-io trasmette un divieto a cui il soggetto risponde con la grande induzione, con l’interdizione assoluta dell’etica antica, con il divieto ancestrale del “Io non devo!”. La famiglia contemporanea è invece più permissiva, più morbida, più ammissiva, molto meno conflittuale. Gli ultimi conflitti sono stati quelli intergenerazionali della contestazione studentesca, ma dopo questo i rapporti si sono come pacificati. Quindi all’ ”Io non devo!” è subentrata un’altra forma di autointerdizione, che è “Io non posso!”, ossia non ce la faccio a rispondere ai desideri, alle aspettative, ai voti dei genitori, con un senso di inadeguatezza, di inanità, di sconforto da parte dei ragazzi che molte volte rinunciano alla contesa, all’affermazione di sé, proprio per mancanza di autostima, per stanchezza, perché sono stati posti di fronte a compiti impossibili, in cui la vergogna si è trasformata in senso di inanità, di malessere, di inadeguatezza, appunto di un disagio spesso invisibile. Occorre rivalutare il senso di vergogna come istanza del limite alle pretese imposte, come un punto fermo del buon senso orientativo verso le scelte, di un saper essere, più che di un saper fare onnicomprensivo ed onnipotente, la vergogna quale significato della realtà interiore che permetta ancora di stupirci, anche se non più adolescenti, di cercare, di credere, di idealizzare, di costruire l’identità pur tenendo presente il confine culturale tra noi e l’altro.

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