Un rimpianto per Ricciarelli ed un premio per Lo Cascio, in un’Italia da emendare

E’ morto ieri a solo 58 anni, sconfitto, alla fine, da quellamalattia a cui aveva dedicato pagine memorabili in “Il dolore perfetto” (Mondadori, 2004), vincendo lo Strega: un doppio trapianto di Cuore e Polmoni, in Inghilterra, negli anni ’90, Ugo Riccarelli, già addetto stamnpa di Veltroni quando fu sindaco di Roma, autore di molti scritti pervasi da profondo senso della storicità.
Era un uomo assieme fragile e tenace Ugo Riccarelli ed uno scrittore capace di pagine di rara forza ed autenticità, fino al’ultimo, fino a “L’amore graffia il mondo” (Mondadori, 2012), nella cinquina finalista per il premio Campiello 2013 o nel progetto, per il Teatro di Roma, “Giganti di carta”, per far rivivere i grandi autori del Novecento.
Nato nel 1954 in una cittadina della cintura torinese (quella stessa di Pavese e dio Soldati), Riccarelli era uno scrittore sapiente ed elegante ed una persona straordinaria capace di reagire a ogni avversità, che aveva studiato Filosofia presso l’Università di Torino, superando tutti gli esami, ma non sostenendo l’esame di Laurea e che, dopo essersi occupato di azione e promozione culturale in campo scolastico e teatrale ed aperto un cineclub, fondando un gruppo teatrale e lavorando in biblioteche civiche, aveva esordito in letteratuura nel 1995, per Feltrinelli, con “Le scarpe appese al cuore”, racconto di una rinascita, narrazione di come all'origine di una malattia ci sia sempre un profondo disagio interiore, del modo in cui la sofferenza può essere allo stesso tempo la prigione di una vita ma anche l'occasione meditata del riscatto e della rigenerazione.
Sono seguiti “Un uomo che forse si chiamava Schulz “(Piemme 1998), premiato con il Selezione Campiello e, nella traduzione francese, con il Prix Wizo, “Stramonio” (Piemme 2000 e Einaudi 2009), “Il dolore” perfetto (Mondadori 2004) vincitore del Premio Stregae, nella traduzione spagnola, del Campiello Europeo; “Un mare di nulla” (Mondadori 2006), “Comallamore” (Mondadori 2009), “Ricucire la vita” (Piemme 2011) e “L’amore graffia il mondo” (Mondadori 2012), oltre alle raccolte di racconti “L’Angelo di Coppi” (Mondadori 2002), “Pensieri crudeli” (Perrone 2006) e “Diletto” (Voland 2009).
Un uomo che, a suo modo, ha semprte cercato una dimensione ideale e che ricorda il protagonista del film di Luigi Lo Cascio “La città ideale”, che ho potuto premiare, in collegamento telefonico con l’autore impegnato nelle riprese dell’ultimo un film di Pupi Avati, sabato notte, dal palco di Roseto degli Abruzzi, a comnclusione della XVIII edizione di “Opera Prima”, fra gli applausi del pubblico e della giuria popolare e nella piena soddisfazione del direttore artistico Tonino Valerii.
Ugo Riccarelli, nel 2010, aveva scritto, assieme a Marco Baliani “La Repubblica di un solo giorno”, testo dedicato alla storia della Repubblica Romana del 1849, messo in scena dallo stesso Baliani e uscito anche sotto forma di romanzo per Mondadori nel 2011, in cui sottolineava il valore dei sogni e delle utopie e, attraverso un prezioso viaggio nella scrittura, ricca di suggestioni e così sinuosa da catturare il lettore, mostra, come fa Lo Cascio per immagini al cinema, la brutalità della Storia, il senso di inferiorità di chi si comporta secondo le regole e mettendo in primo piano le relazioni e all’ultimo l'affermazione di sé.
L’esordio alla regia di Luigi Lo Cascio (uno tra nostri migliori attori attuali), è un film sobrio, approdato quasi in punta di piedi nelle sale cinematografiche, che mostra l’annientamento di una persona qualunque quando, dalla sera alla mattina, si trova a dover giustificare ogni azione e ogni lemma espresso difronte alle autorità, col risultato che in poco tempo distrugge con le proprie mani tutta la sua vita.
L’atmosfgera è kafkiana, con una narrazione semplice ed estremamente efficace, volta a dimostrare come le azioni possano essere percepite differentemente a seconda del coinvolgimento, delle emozioni e soprattutto delle convinzioni; e come possa essere difficile (anzi, talvolta impossibile) provare in un’aula di giustizia le più diffuse e banali azioni quotidiane, con un finale che converte Kafka nel “così è se vi pare” e l’uomo qualunque, nel figlio dell’uomo senza qualità di Musil, un essere che, sconfitto, non è vinto, grazie al condursi ad una “passività attiva” (ben diversa da una nichilistica e decadente “passività passiva”), con la convinzione che a realtà non ha nulla di necessario né tantomeno, di definitivo ma è solo il concreto quanto momentaneo cristallizzarsi degli infiniti possibili che prima furono e che poi saranno.
A tratti il protagonista (che si chiama Grassadonia, come uno degli autori di “Salvo”, film in cui Lo Cascio ha partecipato e che ha apprezzato moltissimo, tanto che ha chiesto che a ritirare la “Rosa d’Oro” a Roseto fosse la protagonista femminile Sara Serraiocco), ricorda quello di “Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia” di Leonardo Sciascia, pubblicato per la prima volta nel 1977 da Einaudi e ispirato all'omonima opera di Voltaire, serena espressione della verità in contrasto continuo con la ipocrisia che permea le normali relazioni delle persone e delle istituzioni, etichettato come imbecille dalla gente comune e continuamente minacciato (si pensi nel film al tempa della “cattura” che la sua inquilina continuamente dipinge) da una società che sulle ipocrisie si è costruita.
Il sottotitolo del romanzo di Sciascia, avrebbe potuto essere: “ come salvare la propria infanzia e cioè se stessi”, non l'infanzia quale mondo chiuso cui ripiegare, un po' alla Proust, tanto per intenderci, bensì lo slancio esistenziale che, in quegli anni, verso il mondo della vita e della cultura, della vita che è cultura e della cultura che è vita, ci porta.
E nei sogni del protagonista della “Città Ideale” tutto questo è evidente, con in più, anche se il finale è a Parlermo, la capicità di superare l’errore di Sciascia ed altri grandi intellettuali isolani, di predentere che con la sicilinità si possa dare una definizione di caratteri distintivi nei confronti della letteratura e del costume nazionale, con un misto di orgoglio e di ansia di trovare una collocazione, compagnia, somiglianza, segni di onore e, al tempo stesso, il pericolo della solitudine, dell'impossibilità di avere una collocazione, un punto di riferimento in Europa, avendo, in qualche misura, allontanato molto al di là dello Stretto l'Italia e la tradizione italiana; e il brivido di sospetto di una follia isolana, che nasce ed è coltivata nella stessa rivendicazione della “sicilianità” non soltanto letteraria, ma anche di visione del mondo, con un omaggio, in ultima analisi, alle idee che Tomasi di Lampedusa mette in bocca al suo principe di Salina.
Alla fine nel film di Lo Cascio è l’Italia tutta a non funzionare, col protagonista, Michele Grassadonia, che è l’emblema (come accade per i protagonisti degli ultimi film di Paolo Sorrentino e Roberto Andò), della sinistra italiana, velleitaria e moralista, ma poi fallace al confronto con la realtà.
Il film di Lo Cascio, in una stagione magra di titoli davvero buoni e innovativi, è un noir doloroso e dolente che graffia l'anima dei benpensanti, che si dipana come un polizziesco ma è una indagine esistenziale, politica, filosofica e soprattutto emotiva, raccontata con un linguaggio nuovo e allo stesso tempo classico, una parabola illuminante e inquietante in cui si inseriscono due donne: la madre (Aida Burruano, che lo è anche nella vita) e la bellissima Catrinel Marlon, due figure salvifiche nella discesa all’inferno del protagonista.
Come salvifica è la figura di Rita in “Salvo”, ricostruzione filologica e commistione di generi per raccontare, attraverso un film di mafia, una doppia redensione ed anche “Tutto parla di te”, nuova riflessione dell'ottima Alina Marazzi ( che ci aveva già conquistato, anni fa, con lo splendido “Un'ora sola ti vorrei”), che guarda alla figura archetipica della genitrice per demolirne l'ideale anacronistico, santificazione divenuta gabbia, per ricostruirla raccontando chi odia i propri figli per troppo amore, paura e solitudine; sicché dopo Cattani e le due Comencini, si torna sulla figura della donna come essere umano “obbligato” a vivere in felicità la condizione speciale ma complicatissima della maternità, con una sorta di Caronte-Virgilio che sul proprio viso (quello di Chalotte Rampling) vive e disegna tante piccole e grandi tragedie quotidiane.
Entrambi questi film, (come anche l’ultimo di Corsicato o “Salvo”, che con lui condivide anche il montaggio, curato dalla moglie di Lo Cascio, Desideria Rayne), forse troppo sofisticati per i normali spettatori, ma che certamente appartegano a quella categoria che resiste all’usura del tempo e che, anzi, col tempo assumono contorni più chiari e valore maggiore.
Riccarelli nei suoi libri e Lo Cascio nel suo film, richiamano in fondo ad una idealità urbana ed umana che ci ricorda che siamo stati capaci, cinque secoli fa, di utopie splendide e propulsive come quella Rinascimentale, che, come ricordato lo scorso aprile ad Urbino dalla mostra “le città quasi ideali”, si sono nel tempo convertite in incubi disfunzionali ed invivibili, con città (per dirla con Walter Siti) che “si suicidano” (come L’Aquila), anche senza terremoti, perché il possesso è posto al di sopra delle relazioni e l’interesse al di sopra delle regole, con una politica che si occupa solo di giustificare se stessa, che non riesce a trovare il modo di pensare a trovare fondi per la ripresa ed il lavoro e neanche per il piano di ammodernamento wi-fi e che ha fatto giungere, secondo Eurostat, il debito pubblico al 130,3%, con continui fatti di corruzione (l’ultimo stamani, con i carabinieri del Noe hanno effettuato sette arresti, su richiesta della Procura di Roma, per l'accusa di corruzione in atti giudiziari), pochezza istituzionale, ignavia e pressapochismo, quando non di veri e propri comportamenti illegali, che hanno prodotto, in poco tempo, un grave danneggiamento della nostra immagine nel mondo, non già, come dice il presidente Napolitano, per “pressioni e interferenze dall'estero” o per presunti vari Wikileaks agguerriti contro i segreti nostrani; ma, appunto, per incapacità, corruzione e malafede.
In un paese che si impelaga malamente in un caso come quello Shalabayeva e consente che restino impunite le “ingiurie razziste indecenti” di Calderoli, che è il Vice Presidente del Senato, non c’è davvero molto da sperare circa un prossimo, futuro recupero di dignità, prima ancora che di opportunità lavorative ed esistenziali.
I nostri politici sono riusciti, rapidamente ed in silenzio, ad emendare il previsto taglio sulle auto blu (156.000, mentre l’Inghilterra ne prevede 5.000), ad istituire un nuovo posto fisso da commissario per la spending review con compenso di 5 mlioni in 4 anni; senza risolvere i problemi relativi ad Imu, Iva, Provincie, detassazione del lavoro e via discorrendo.
“Il dolore perfetto” di Riccarello, vede come protagonista il Maestro, un uomo che da Sarpi giunge in Toscana, un giovane anarchico, che qui conosce la vedova Bartoli da cui avrà molti figli e affronta gli anni sullo sfondo dei grandi eventi sociali e politici, dalle guerre agli eroismi, dalle carneficine alle carestie, accorgendosi che i contadini hanno “volti meno spigolosi, le facce più aperte al sorriso, quasi che la bellezza del paesaggio, la dolcezza dei poggi che digradavano verso una pianura tenera come bambagia avesse mitigato anche i suoi abitanti, avesse spalancato loro la porta della vita”.
Ma i nostri paesaggi sono distrutti, le nostre città abbondonate al degrato ed i nostri volti cupi, contratti e pieni di risentimento.
Dal prossimo sabato e sino all’8 agosto, a Gubbio, una doppia personale di Giovanni Cumbat e Alberto Baumann, dal titolo emblematico” Se l’arte non c’è si crea”, per dimostrare che l’arte può salvare il mondo e non soltanto per rieducare l’uomo, ma anche per la riqualificazione di alcuni materiali di scarto.
Chiedeemo agli artisti come fare per riqualificare il materiale umano di questo paese alla deriva, ma già diffidiamo circa possibili risposte.

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