C’è pragmatismo e pragmatismo. Quello che abbiamo potuto vedere in scena su Sky con il confronto all’americana (troppo) tra i cinque candidati alle cosiddette primarie della sinistra – per cosa e tra chi non è chiaro – è pragmatismo vuoto. Privo di analisi retrostante, di approfondimento, di studio. Ma soprattutto, privo di proposta.
Insomma, è andata in scena una sinistra variegata ma complessivamente povera di idee e di progetti, che cerca di evitare di appiattirsi sull’austerità montiana, pur volendo ben più della destra difendere il governo Monti, e nello stesso tempo tenta di non scivolare nel populismo becero (salvo Vendola, ma più per accondiscendere al suo stile narrativo, peraltro penalizzato dalla tempistica stretta, che non per autentico spirito radicale), pur essendone attratta per ragioni elettorali. Non si tratta di essere nostalgici di confronti come quelli tra Amendola e Ingrao – quell’Italia non c’è più, e il valore degli uomini in campo oggi è infinitamente più basso, occorre farsene una ragione – ma di pretendere che tanto la diagnosi quanto la terapia abbiano un minimo di valore aggiunto.
Allora sarebbe da consigliare alla sinistra che è stata marxista e che non lo è più – purtroppo non per convinzione ma per convenienza, o se si vuole, sopravvivenza – e pure a quella che lo è tuttora per la paura di dover fare i conti con la storia, di leggere ciò che Giorgio La Malfa e PierGiorgio Gawronski hanno scritto giovedì sul Sole 24 Ore, e magari di fare lo sforzo di compulsare il World Economic Outlook report del Fondo Monetario che in quell’articolo è citato. Troveranno che per la politica economica dell’Italia e dell’Europa una “terza via” tra il rigore fine a se stesso e la spesa pubblica senza controllo c’è, ha dei padri nobili come Keynes, ed è molto più di sinistra del “liberismo alla moda” (ricordiamo il libro di Giavazzi e Alesina?). Una linea sì pragmatica, rispetto a scuole di pensiero fortemente ideologiche, ma intelligentemente anticonformista, originale, fuori da schemi che hanno già mostrato ampiamente la corda.
Dalla sinistra, specie quella che intende rottamare il vecchio, ci aspettiamo che si dicano al Paese quattro cose semplici ma nette. Primo: siamo ancora in piena emergenza, non solo perché cominciano a vedersi le conseguenze sociali – e purtroppo sempre più si vedranno, le violenze di mercoledì sono solo un assaggio – della crisi che fin qui c’è stata, ma perché essa rischia di protrarsi e financo di peggiorare. Nessuno, quindi, è autorizzato a dire che i sacrifici sono già stati fatti e che il tema ora è quello di ripagarli. Trattasi di bugia non solo inutile, ma pure molto dannosa. Secondo: la ricetta fin qui usata, tutta basata sull’azzeramento del deficit, è sbagliata. Questo non vuol dire che si può o addirittura si deve rinunciare al risanamento finanziario, ma che nel perseguirlo occorre cambiare strategia, usando il patrimonio per aggredire il debito. Terzo: la ripresa non basta evocarla, ma occorrono risorse pubbliche e private da mettere in campo. E, coraggiosamente, occorre dire che molti degli attori economici che finora hanno calcato la scena non sono funzionali e comunque non saranno in grado di resistere, che bisogna cambiare il vecchio modello di sviluppo basato sull’imprenditorialità diffusa a favore di uno imperniato su medio-grande dimensione, innovazione di processo e di prodotto, export, turismo e cultura “industrializzati”. Quarto: l’Europa se vuole salvare l’euro deve avere un governo federale, e se vuole salvare il benessere acquisito deve cambiare politica economica.
Tutto questo noi di Società Aperta amiamo chiamarlo un “progetto liberal-keynesiano”, senza avere paura della contraddizione, peraltro fittizia. Un piano non congiunturale su come uscire dalla recessione e tornare a crescere che, naturalmente, potrebbero far proprio anche i moderati. Anzi, che sarebbe davvero realizzabile se le forze riformiste e quelle moderate lo condividessero e si assumessero in solido la responsabilità di trasformarlo in un programma di governo.
Ma a sinistra, e non solo dalla kermesse tv dell’altra sera, non si vede avvisaglia di questa intenzione. Anzi, l’idea (infondata) di aver già vinto le prossime elezioni rende ancor più difficile che qualche intelligenza accenda la lampadina. Mentre nel campo avverso, il vuoto pneumatico è assordante. Quanto al governo, sembra aver deciso di evitare la riflessione sulle opzioni strutturali, accontentandosi di tenere la barra più ferma possibile nella dimensione breve – e per fortuna, visto che le proposte alternative sono tutte di sapore elettoralistico – quasi che speri che i prossimi cinque mesi passino il più in fretta possibile. Eppure questo canovaccio è l’unico su cui si può costruire una legislatura di vera svolta. E se Monti vuole dare un senso all’ultimo scorcio di questa, forse farebbe bene a imporlo alla discussione pubblica.
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