L’Encyclopaedia Britannica e il destino del libro

Dopo duecentoquarantaquattro anni Jorge Cauz, presidente della E. B. INC, ha deciso di interrompere in modo definitivo la produzione cartacea dei trentacinque volumi rilegati in pelle dell’ “Encyclopaedia Britannica”, e continuare le pubblicazioni solo in formato elettronico. La scelta di Cauz stabilisce senza dubbio uno spartiacque epocale nella lunga storia dell’editoria. C’è da dire che le enciclopedie on line, wikipedia su tutte, hanno oramai già da tempo messo irrimediabilmente in crisi le enciclopedie tradizionali, le quali sono state costrette a rincorrere, su un territorio a loro sconosciuto, questi nuovi avversari. La Treccani ad esempio, che continua ancora a pubblicare la sua versione cartacea, ha voluto e dovuto negli ultimi anni ristrutturare numerose volte il suo sito web fino a trasformarlo in un punto di riferimento imprescindibile per tutti quei naviganti italiani della Rete alla ricerca di un vocabolario performante (specie dopo l’oscuramento volontario del De Mauro on line) e di una enciclopedia più affidabile rispetto alla già citata wikipedia.
Il caso dell’ “Encyclopaedia Britannica” si va a inserire in quell’acceso dibattito che divide i fautori del libro da quelli degli e-book. A questo proposito, al di là delle ovvie considerazioni sui vantaggi economici delle “pubblicazioni immateriali”, sarebbe opportuno riflettere con maggiore attenzione sugli effetti sociali di quella che potrebbe diventare, almeno secondo alcuni, una delle principali rivoluzioni del secolo XXI. Si provi a pensare per un momento a un mondo che legga la propria cultura solo attraverso supporti digitali. Sarebbe un mondo nel quale la gran parte dell’umanità, essendo priva della strumentazione tecnologica necessaria, rimarrebbe fuori dall’apprendimento. Per molti abitanti di quei paesi che una volta venivano definiti del “terzo mondo” è infatti paradossalmente più facile imparare a leggere e a scrivere che possedere un computer usato.

La prospettata digitalizzazione della cultura potrebbe però provocare effetti destabilizzanti anche all’interno delle opulente democrazie occidentali. La millenaria civiltà libresca si fonda su un importante principio di fondo: i testi cartacei, rispetto a quelli elettronici, una volta pubblicati, non sono in alcun modo modificabili. Questo aspetto, che apparentemente può apparire un limite, rappresenta una fondamentale garanzia. Senza voler ricordare l’importanza, soprattutto in termini di uguaglianza sociale, che ha ad esempio avuto per l’umanità l’introduzione delle dodici tavole, il poter cambiare continuamente un testo pone il delicato problema di chi deve (e come) avere l’autorità per farlo (“quis custodiet ipsos custodes?”). Un libro scomodo per essere censurato deve essere materialmente distrutto, e fin quando ne esisterà una copia ci sarà sempre la possibilità che assolva al suo compito (qualunque esso sia). Un e-book invece, anche quando è blindato in un hard disk, può essere in qualsiasi momento riscritto, o addirittura cancellato, da un hacker che si rispetti. In molti ambiti, ma in fondo anche nella letteratura, il non poter modificare un testo quando si vuole, è dunque a ben vedere un elemento di forza più che una debolezza. Anche perché, pur non volendo tirare in ballo i rischi appena accennati della censura, c’è da dire che il solo fatto di non avere il modo di correggere in tempi brevi eventuali errori, costringe ad assumersi la responsabilità di ciò che si scrive e pubblica. Ma farsi carico delle proprie responsabilità sembra oggi essere diventato un atteggiamento piuttosto fuori moda, così come del resto fuori moda sono, forse già da un po’, i libri.

Roberto Colonna

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