Il Nucleare in Calabria? E’ Una follia.

Occorre promuovere il cambiamento e l’innovazione nelle scelte energetiche, favorire il risparmio e la maggiore efficienza e far dipendere per almeno il 20% il fabbisogno energetico da fonti rinnovabili e di ridurre del 30% le emissioni di gas che alterano il clima sulla terra.

C’è bisogno di credere in un’alternativa energetica alle fonti fossili, respingendo con forza ogni ipotesi nuclearista, credendo in una gestione diversa e sostenibile del territorio e dell’agricoltura, promuovendo la mobilità su ferro.

L’Italia e la Calabria devono dimostrare di saper partecipare a un nuovo progresso, che non è fatto né di fonti fossili, né tanto meno di nucleare. Le attuali tecnologie non hanno ancora risolto nessuno dei problemi legati al rischio d’incidenti, alla messa in sicurezza delle scorie e allo smantellamento dei vecchi impianti. L’atomo è una scelta antieconomica e insicura.

“Volete il nucleare?” A questa richiesta, formulata in tre quesiti, 8 italiani su 10 nel 1987 risposero No. il voto del referendum popolare che ha bandito la produzione di energia nucleare e reso l'Italia la prima tra le nazioni industrializzate a uscire dall'atomo.

Una strada che solo recentemente hanno seguito in Europa anche la Germania e la Spagna. Pensare di tornare indietro sarebbe folle.

Se l'Italia oggi volesse allinearsi alla produzione elettrica media UE da nucleare (30%), dovrebbe costruire 8 reattori come quello che sta realizzando la Finlandia (il più grande al mondo), oppure 8 come gli ultimi completati in Francia tra il '96 e il '99, oppure 12 di quelli più grandi in costruzione in Cina o 13 di quelli di tipologia russa.

Non esistono ad oggi soluzioni concrete al problema dello smaltimento dei rifiuti radioattivi derivanti dall’attività delle centrali. Nel nostro Paese che conta secondo l’inventario curato da Apat circa 25mila m3 di rifiuti, 250 tonnellate di combustibile irraggiato – pari al 99% della radioattività presente nel nostro Paese -, a cui vanno sommati i circa 1.500 m3 di rifiuti prodotti annualmente da ricerca, medicina e industria e i circa 80-90mila m3 di rifiuti che deriveranno dallo smantellamento delle 4 centrali e degli impianti del ciclo del combustibile. Una montagna di rifiuti che necessitano di un sicuro sito di smaltimento, che il governo Berlusconi e la Sogin alla fine del 2003 avevano pensato bene di collocare a Scanzano Ionico, in Basilicata, sbagliando nel merito (il sito non era stato studiato con rilievi sul campo, ma solo attraverso indagini bibliografiche) e nel metodo (non coinvolgendo enti locali e cittadini).

La Calabria – secondo i dati Terna del 2006 – ha una produzione netta complessiva di 8.616,70 Gwh (di cui 1.090,50 idroelettrico, 7.448,70 termoelettrico tradizionale), perdite pari a 1.041,70 Gwh quindi con un esubero di produzione di 2.035,20 Gwh rispetto ad energia richiesta di 6.565,70 Gwh.

Assurdo che la classe politica regionale non attui politiche che puntino sulle nostre risorse ma si adagi – con la dichiarazione di Loiero – ad assecondare scelte sbagliate del nuovo governo: la Calabria è una terra baciata dal sole e non punta su tale fonte naturale per dare il suo contributo energetico anche rispetto ai cambiamenti climatici. Occorre – come evidente – puntare sulle fonti rinnovabili, attuare politiche che favoriscano l’incremento della produzione di energia fotovoltaica e sul solare termico. E fra le altre cose come non tenere conto che la Calabria ha un surplus di produzione energetica e che in Calabria è stata prevista la realizzazione della centrale Termodinamica di Rubbia, a Crotone. Per cui qualsiasi strizzata d’occhio al nucleare e addirittura alla possibilità di ospitare una centrale nucleare in Calabria è illogica, folle e rappresenta uno schiaffo mortale all’ambizione tutta calabrese di produrre e vendere energia pulita e rinnovabile ricava dalle nostre immense risorse naturali. Non vorremmo che si ripetessero le stesse follie illogiche degli anni ’70 che avevano previsto la realizzazione del 5° Centro siderurgico nella Piana di Gioia Tauro.

Altre notizie:

Sebbene l'AIEA (Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica) abbia censito nel mondo, a ottobre 2007, ben 439 centrali in attività per una potenza installata di 371.647 MW, il nucleare è oggi una fonte di energia in declino. E lo è nonostante la ripresa di programmi nucleari in alcuni Paesi, nonostante la nuova ondata di consenso da parte del mondo politico alle prese con l'impennata dei prezzi del petrolio e, più recentemente, anche con la crisi del gas russo.

Secondo l'AIEA, il contributo dell'atomo al fabbisogno mondiale di energia elettrica scenderà dal 15% al 13% entro il 2030.

Oltre al problema legato alla sistemazione definitiva delle scorie, esiste anche la necessità di rendere inutilizzabile il materiale fissile di scarto per la possibile costruzione di bombe, a maggior ragione in uno scenario mondiale in cui il terrorismo globale è una minaccia attualissima. Gli impianti nucleari attivi – e lo stesso discorso vale per quelli in costruzione – se da una parte possono diventare obiettivi sensibili per i terroristi, dall’altra producono scorie dal cui trattamento viene estratto il plutonio, materia prima per la costruzione di armi a testata nucleare.

Ma veniamo al problema dei problemi su cui si continua a fare tanta propaganda, a maggior ragione in un paese come l’Italia dove la bolletta energetica è ancora molto alta, e cioè la vera quantificazione dei costi per la produzione di un KWh dal nucleare.

Nonostante da più parti si continui a spacciare il nucleare come una tra le fonti energetiche meno costose, sono sempre più numerose le ricerche sui suoi costi “veri”, che hanno infatti scoraggiato i privati dall’investire in questa tecnologia negli ultimi decenni. Non è un caso infatti che negli Stati Uniti, dove i produttori di energia elettrica sono privati, non si costruisca una centrale nucleare dalla fine degli anni ’70. Stessa cosa si può dire per gli Stati dell’Unione europea, dove il processo di liberalizzazione del mercato dell’energia è in atto, eccezion fatta per la Finlandia che ha deciso di costruire un nuovo reattore.

In effetti il basso costo del KWh da nucleare è dovuto esclusivamente all’intervento dello Stato nella chiusura del ciclo del combustibile nucleare e al non tener in conto il problema e i costi, stranamente considerati “esterni”, dello smaltimento definitivo delle scorie e dello smantellamento delle centrali. A tal proposito sono illuminanti le conclusioni della ricerca “The economic future of nuclear power” condotta dall’Università di Chicago nell’agosto 2004 per conto del Dipartimento dell’energia statunitense sui costi del nucleare confrontati con quelli relativi alla produzione termoelettrica da gas naturale e carbone. Secondo il rapporto dell’Università Usa, considerando tutti i costi, dall’investimento iniziale e dalla progettazione fino ad arrivare alla spesa per lo smaltimento delle scorie (che incide fino al 12% del prezzo totale di produzione elettrica), il primo impianto nucleare che entrerà in funzione produrrà elettricità a 47-71 dollari per MWh, escludendo qualsiasi sovvenzione statale all’industria dell’atomo, contro i 35-45 dei cicli combinati a gas naturale.

E a proposito di finanziamenti vale la pena ricordare come, stando alle stime dell’Agenzia internazionale per l’energia, dal 1992 al 2005 il nucleare da fissione ha usufruito del 46% degli investimenti in ricerca e sviluppo, quello da fusione del 12%, mentre alle rinnovabili è stato destinato solo l’11% del totale, con evidenti disparità tra le fonti a discapito di quelle veramente pulite.

Oppure il finanziamento di ben 16,5 milioni di euro in tre anni destinato alla ricerca sui reattori di quarta generazione, sul totale dei 60 previsti dall’accordo sulla ricerca energetica stipulato fra Enea e Ministero dello sviluppo economico.

Occorre poi fare i conti con le riserve di U235 (l’uranio fissile altamente radioattivo che, al ritmo di consumo attuale, è disponibile solo per qualche decennio – se la richiesta crescesse, si potrebbe riproporre una situazione del tutto simile a quella delle “guerre per il petrolio”) e con i tempi di realizzazione delle centrali. Per realizzare una nuova centrale nucleare occorrono almeno 10 anni. Un Paese come il nostro, che deve ripartire da zero nella produzione elettrica da nucleare, metterebbe in campo ingentissime risorse per una tecnologia che usa una fonte naturale – l’uranio – in via di esaurimento e che potrebbe usare per pochissime decine di anni, creando tra l’altro immensi problemi e per millenni per le generazioni future, con le scorie altamente radioattive.

A ciò è da aggiungere che la corsa al nucleare per l’aumento del costo del petrolio nulla risolve rispetto ai consumi ed alla domanda della mobilità (autovetture, trasporto su gomma, navi ed aerei).

Alcuni degli incidenti nucleari negli ultimi 50 anni

La storia del nucleare nel mondo, civile o militare che sia, è costellata da una miriade di incidenti ed esplosioni sperimentali che costituiscono ancora oggi la prima e più importante prova della sua pericolosità non solo per l'uomo, ma per l’intero pianeta.

I settori nei quali si sono verificati incidenti nella storia di questa tecnologia sono sostanzialmente tre: le applicazioni militari, energetiche e sanitarie (che per la verità rappresentano, da questo punto di vista, un ambito assai marginale).

Tra gli anni ‘50 e gli anni ‘80, solo per ricordare qualche dato, si verificano oltre un centinaio di incidenti nucleari, venti dei quali molto gravi. Sul versante militare si tratta soprattutto di sottomarini e portaerei che affondano nel Pacifico, nell'Atlantico e nel Mediterraneo portando con sé nelle profondità del mare decine di siluri e testate nucleari, mentre sul versante civile la storia dell’industria elettronucleare registra a sua volta una non irrilevante serie di eventi accidentali.

E’ il caso di sottolineare che per quanto riguarda le applicazioni civili la maggior parte degli incidenti ha riguardato i paesi tecnologicamente meno evoluti; ciò non fa tuttavia venir meno l’esigenza di predisporre, nei paesi “nucleari”, impianti, tecnologie e strumenti adeguati, sia per evitare il verificarsi di incidenti di questa natura, sia per fronteggiare i rischi dovuti al commercio illegale di materiale radioattivo. Il tentativo di operare una classificazione completa di questo genere di eventi è impresa ardua: spesso gli incidenti minori sono stati coperti dal segreto militare, o non sono mai balzati alle cronache perché semplicemente non sono stati resi di pubblico dominio, come tentarono di fare le autorità sovietiche (inutilmente, data la gravità dell’episodio) all’indomani

della catastrofe del 1986.

Alcuni fatti sono emersi soltanto dopo la fine della guerra fredda, ma solo la completa apertura degli archivi consentirà una visione precisa di quanto è successo negli ultimi decenni.

La lista “nera”, quindi, si presume molto più lunga di quella che viene qui presentata, mentre sulle conseguenze degli incidenti manca ancora oggi un dato ufficiale che consideri, non solo le morti, ma anche l'impatto sulla salute dei cittadini nel lungo periodo. Nella cronologia che segue e che non ha la pretesa di essere completa, sono stati omessi numerosi piccoli episodi occorsi in Europa negli ultimi vent’anni. In alcuni casi, accanto alla località segnalata, viene riportato l’indice di gravità dell’incidente secondo la classificazione Ines.

10 marzo 1956 – Mar Mediterraneo. Un bombardiere B-47 precipita nel Mediterraneo con a bordo due capsule di materiale fissile per la realizzazione di bombe nucleari.

27 luglio 1956 – Gran Bretagna. Un bombardiere B-47 in Gran Bretagna slitta sulla pista e va a colpire un deposito contenente sei bombe nucleari.

26 aprile 1986 – Cernobyl (Ucraina) (scala Ines 7). L'incidente nucleare in assoluto più grave di cui si abbia notizia. Il surriscaldamento provoca la fusione del nucleo del reattore e l'esplosione del vapore radioattivo, che sotto forma di una nube pari a un miliardo di miliardi di Bequerel si disperde nell'aria. Centinaia di migliaia di persone, soprattutto nella vicina Bielorussia, sono costrette a lasciare i territori contaminati.

L'intera Europa viene esposta alla nube radioattiva e per milioni di cittadini europei aumenta il rischio di contrarre tumori e leucemia. Non esistono ancora oggi dati ufficiali e definitivi sui decessi ricollegabili alla tragedia.

6 ottobre 1986 – Oceano Atlantico. Il sottomarino K-219 affonda nell’Atlantico con 34 testate nucleari a bordo.

Febbraio 1991 – Mihama (Giappone). La centrale riversa in mare 20 tonnellate di acqua altamente radioattiva

5 gennaio 2000 – Blayais (Francia) (scala Ines 2). Una tempesta provoca un incidente alla centrale di Blayais, nella Gironda, dove due dei quattro reattori vengono fermati.

L’acqua invade alcuni locali della centrale: danneggiati pompe e circuiti importanti.

27 gennaio 2000 – Giappone. Un incidente a una installazione per il riprocessamento dell’uranio in Giappone provoca livelli di radiazione 15 volte superiori alla norma in un raggio di circa 1,2 miglia. Funzionari locali segnalano che almeno 21 persone sono state esposte alle radiazioni.

15 febbraio 2000 – Indian Point (USA). Una piccola quantità di vapore radioattivo fuoriesce dal reattore Indian Point 2 vicino alla cittadina di Buchanan sul fiume Hudson, località a circa 70 chilometri da New York. La perdita di gas radioattivo costringe la società che gestisce l’impianto a chiudere la centrale e a dichiarare lo stato di allerta. La perdita è di circa mezzo metro cubo di vapori radioattivi.

10 aprile 2003 – Paks (Ungheria) (scala Ines 3). L’unità numero 2 del sito nucleare di Paks (costituito da quattro reattori è l’unico in Ungheria a 115 chilometri da Budapest) subisce il surriscaldamento e la distruzione di trenta barre di combustibile altamente radioattive. Solo un complesso intervento di raffreddamento scongiura il pericolo di un’esplosione nucleare, limitata ma incontrollata con gravi conseguenze per l’area intorno a Paks.

17 ottobre 2003 – Arcipelago de La Maddalena (Italia). Sfiorato incidente nucleare: il sottomarino americano Hartford s’incaglia nella Secca dei Monaci a poche miglia dalla base di La Maddalena dove solo l’abilità del comandante riesce a portare in porto il mezzo avariato. Il licenziamento di alcuni militari induce a pensare che il rischio corso non sia stato risibile.

9 agosto 2004 – Mihama (Giappone). Nel reattore numero 3 nell’impianto di Mihama, 350 chilometri a ovest di Tokyo, una falla provoca la fuoriuscita di vapore ad alta pressione che raggiunge i 270 gradi provoca quattro morti tra gli operai. Altri sette lavoratori vengono ricoverati in fin di vita. E’ l’incidente più tragico nella storia nucleare del Giappone. La centrale viene chiusa.

9 agosto 2004 – Shimane (Giappone). Scoppia un incendio nel settore di smaltimento delle scorie in una centrale nella prefettura di Shimane.

9 agosto 2004 – Ekushima-Daini (Giappone). L’impianto viene fermato per una perdita d’acqua dal generatore.

Aprile 2005 – Sellafield (Gran Bretagna). Viene denunciata la fuoriuscita di oltre 83mila litri di liquido radioattivo in 10 mesi a causa di una crepatura nelle condotte e di una serie di errori tecnici.

Maggio 2006 – Laboratori Enea di Casaccia (Italia). Fuoriuscita di plutonio, ammessa solo quattro mesi dopo, che ha contaminato sei persone addette allo smantellamento degli impianti.

Maggio 2006 – Mihama (Giappone). Ennesimo incidente con fuga di 400 litri di acqua radioattiva nella ex centrale nucleare di Mihama.

26 luglio 2006 – Oskarshamn (Svezia) (scala Ines 2). Corto circuito nell’impianto elettrico della centrale a 250 chilometri a sud di Stoccolma per cui due dei quattro generatori di riserva non sono stati in grado di accendersi. Vengono testate tutte le centrali nucleari del Paese e quella di Forsmark viene spenta.

7 ottobre 2006 – Kozlodui (Bulgaria). Viene intercettato un livello di radioattività venti volte superiore ai limiti consentiti e le verifiche portano a scoprire una falla in una tubazione ad alta pressione. La centrale, che sorge nei pressi del Danubio, scampa a una gravissima avaria. Secondo la stampa locale la direzione cerca di nascondere l’accaduto e di minimizzarlo nel rapporto all’Agenzia nazionale dell’Energia Atomica.

28 giugno 2007 – Kruemmel (Germania). Scoppia un incendio nella centrale nucleare di Krummel, nel nord della Germania vicino ad Amburgo. Le fiamme raggiungono la struttura che ospita il reattore e si rende necessario fermare l’attività dell’impianto. In pochi mesi si verificano avarie anche nelle centrali di Forsmark, Ringhals e Brunsbuttel.

Secondo il rapporto 2006 del ministero federale dell'Ambiente, l'impianto di Kruemmel è il più soggetto a piccoli incidenti tra le 17 centrali. Stando ai piani di uscita dal nucleare, fissati in una legge del 2002, il reattore dovrebbe essere spento al più tardi nel 2015.

16 luglio 2007 – Kashiwazaki (Giappone). La centrale nucleare di Kashiwazaki-Kariwa, la più grande del mondo che fornisce elettricità a 20 milioni di abitanti, viene chiusa in seguito ai danneggiamenti provocati dal terremoto. L’Agenzia di controllo delle attività nucleari giapponesi ammette una serie di fughe radioattive dall’impianto, ma precisa che si tratta di iodio fuoriuscito dal una valvola di scarico. Il direttore generale dell’AIEA, Mohammed El Baradei, dice che il sisma: “è stato più forte di quello per cui la centrale era stata progettata”. Il terremoto provoca un grosso incendio in un trasformatore elettrico, la fuoriuscita di 1.200 litri di acqua radioattiva che si riversano nel Mar del Giappone e una cinquantina di altri incidenti. Si teme che la faglia sismica attiva passi proprio sotto la centrale.

Ma il pericolo per la salute dell’uomo e per l’ambiente legato alla radioattività non è solo da imputare agli incidenti: non dobbiamo dimenticare infatti che tra il 1945 e il 1991 sono state effettuate 2.024 esplosioni sperimentali34, la maggior parte delle quali segrete. In tutti questi casi i primi a essere esposti sono i militari impegnati nelle operazioni, oltre naturalmente ai civili che, a loro insaputa, sono stati raggiunti delle radiazioni.

Solo in anni recenti è stato possibile valutare, almeno in parte, l’entità delle emissioni radioattive dagli impianti militari e le conseguenze sanitarie sulle popolazioni. Se i primi a testare la tecnologia nucleare sono gli Stati Uniti (negli 1950 possedevano circa 370 testate atomiche contro le 5 dei sovietici), è pur vero che negli anni seguenti alla seconda guerra mondiale tutte le potenze nucleari effettuano esperimenti volti a realizzare armi più potenti e sofisticate e che sullo scenario internazionale si affacciano, oltre agli USA e all’URSS, altre potenze dotate delle potenti armi atomiche.

Di sicuro sappiamo che in Kazakistan, tra il 1949 e il 1989, vengono effettuate 459 esplosioni nucleari per una potenza complessiva equivalente a 1.100 bombe come quella di Hiroshima. Negli Stati Uniti nell’ottobre 1994 una commissione d'inchiesta rivela esperimenti nucleari effettuati dal 1944 al 1974 su 23mila pazienti utilizzati come cavie. Dalla fine della Seconda Guerra mondiale le sperimentazioni sono continue e solo nel 1963, dopo ben 528 esplosioni nell’atmosfera, Stati Uniti, URSS e Gran Bretagna firmano il trattato per la parziale messa al bando dei test. Ma intanto la radioattività si è sparsa nell’atmosfera: i soli test nel deserto del Nevada tra il 1951 e il 1963 rilasciano 12 miliardi di curie, una radioattività equivalente a 148 volte quella provocata dalla catastrofe di Cernobyl.

Ma già nel 1965, dopo soli due anni dalla firma del primo accordo di non proliferazione nucleare, apparati militari statunitensi testano la pericolosità dell’atomo producendo una nube radioattiva di bassa intensità che si espande sui cieli di Los Angeles, interessando un’area abitata da 15 milioni di persone. Gli esperimenti francesi ordinati dal presidente Jacques Chirac tra il settembre del 1995 e il gennaio 1996 a Mururoa, il piccolo atollo della Polinesia francese nel Pacifico, hanno mostrato all’opinione pubblica come le sperimentazioni in campo nucleare siano proseguite fino ad anni recenti.

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