Senza ira né di invidia per procedere nella speranza. Lettera agli aquilani nel terzo anniversario dal sisma.

Di Carlo Di Stanislao
“Invidia e teste vuote vanno sempre assieme”
Pindaro

“L'indignazione morale è invidia con l'aureola”
Herbert George Wells
“L'indignazione morale è in molti casi al 2 per cento morale, al 48 per cento indignazione, e al 50 per cento invidia”
Vittorio De Sica
E’ raro che si possa elaborare il lutto da soli, perché per esprimere a pieno tute le proprie emozioni si ha bisogno di qualcuno, di essere ascoltati e compresi, accompagnati con empatia da una persona o da un gruppo che fungano da “contenitore”.
Ed è questa unità attraverso la condivisione che è soprattutto mancata in città a tre anni dal sisma.
Oggi, nel giorno dei sepolcri, la terza fiaccolata per le 309 vittime sarà quanto mai dolorosa e si svolgerà come un nero serpente che con lingue di fuoco attraverserà il centro dissolto della città che esiste, in un luogo tanto caro quanto autenticamente dimenticato.
Ci sarà chi piange, chi silenziosamente recrimina ed impreca e chi, ancora, in quello sciamare mesto, non batterà ciglio, convinto che i morti si ricordano soprattutto andando avanti, personalmente, penosamente e con coraggio, senza attendere solo aiuti dagli altri.
Ci sarà anche Barca fra gli aquilani, a segnalare la sensibilità del governo.
Ma credo sia giunta l’ora di lanciarlo noi un segnale nella direzione di una vera ricostruzione.
C.R. Rogers (1970) ha sottolineato l’importanza dell’empatia nel rapporto di relazione d’aiuto – approccio centrato sulla persona – e nel rapporto terapeutico –Terapia centrata sul cliente – in cui la comprensione non avviene a livello “gnosico” ma “patico” dove determinate emozioni che non appartengono ai propri vissuti possono essere comprese e valutate per estensione delle proprie esperienze.
La capacità empatica è considerata una delle condizioni necessarie e sufficienti affinché la relazione d’aiuto risulti efficace.
Ed è proprio questa condivisione emotiva che manca adesso, più dei soldi, più dei progetti, nella nostra comunità.
Le divisioni ed i rancori, già avvertiti il 7 aprile di tre anni fa, sono cresciuti come cani ringhiosi, che hanno circondato ed ucciso le nostre anime.
L’empatia è definita come la capacità di immergersi nel mondo personale del cliente ”come se” fosse nostro senza mai perdere la qualità del “come se”: sentire l’ira, la paura, il turbamento, senza aggiungervi la nostra ira, la nostra paura, il nostro turbamento.
Ma è accaduto esattamente il contrario in questa nostra comunità, divisa su tutto, irosa verso chiunque non sia lui stesso, incapace di accordi ed equilibri, tanto da presentare nove candidati sindaci e ben 700 canditati in un momento che vorrebbe invece unità.
La divisione ed il rancore sono i due veleni delle società e delle anime che la compongono, veleni che generano ira e rivalità e che impediscono ogni progresso.
E poi c’è stata l’invidia, flagello crescente in una società predisposta, postideologica e competitiva, con la frustrazione che nasce dal confronto con chi ha (o si crede abbia) più di noi (più ricchezza, più successo, più potere).
Gli invidiosi si scrutano reciprocamente, timorosi di restare indietro nella corsa all'autoaffermazione e pronti ad abbassarsi, a colpirsi, a denigrarsi l'un l'altro in un gioco di maldicenze e di vendette senza fine.
Ma l'invidia è anche il meccanismo di difesa – umano, troppo umano – che si adotta per mascherare l'insicurezza radicale di cui tutti soffrono. Nella profonda analisi che ne dà Alberoni,in suo libro dello scorso anno, l'invidia è la manifestazione, innocente e insieme socialmente riprovata, della solitudine dell'individuo, della perdita di un rapporto autentico con gli altri, con la società.
Allora io credo sia giunto il momento di dire tutta la verità e dirla a tutti: nelle preghiere di questi giorni, nelle celebrazioni e nei cortei, ciò che va fatto è empatizzare con gli altri e recuperare più fiducia in sé stessi.
Accade, infatti, non di rado che ci siano persone che patiscono e lamentano scarsa stima e fiducia in se stessi e che ne rivendicano il pronto recupero o rafforzamento, come se quella auspicata (più autostima e più fiducia in sè) fosse condizione ovvia e scontata, un diritto.
In realtà è probabile che chi non trova fiducia in se stesso stia cercando, più o meno consapevolmente, più validi presupposti e nuovo fondamento alla propria fiducia e stima di sé.
Spesso l'individuo nel suo procedere si affida e aderisce ad altro da sé da cui si lascia definire e portare: ruoli, senso comune, convalida esterna, assunzione di modalità gradite ai più ed applaudite, conoscenze e modi di pensare assorbiti e ripetuti.
Chi non trova fiducia in se stesso è spesso un individuo che si è limitato a riprodurre qualcosa di già confezionato, a inseguire e a misurarsi più col consenso e la considerazione d'altri che col proprio sguardo, a fronteggiare e a superare prove e esami esterni, ad andar di corsa verso traguardi già segnati, più che a dare spazio e impegno a ricerca e a verifiche proprie.
Con una maturità di facciata, pur cercando, in affanno, di stare al passo con gli altri, sente di stentare.
Sempre più si acuisce in lui il senso di inadeguatezza, subordinando la considerazione di sè, del proprio valore al paragone con altri, facendo degli altri ancora e sempre più il suo metro di misura, il suo modello.
La stima di se stesso, rivendicata come fosse ovvia e dovuta, manca dunque spesso del suo valido motivo e fondamento. Non per caso l'interiorità, la parte di sè più acuta e consapevole, quella profonda, toglie e nega percezione di sicurezza interna e di fiducia e tiene ferma questa posizione, malgrado le lagne. Non lo fa per deficit o per malattia, lo fa per amore di verità, per saggezza e per consegnare finalmente il pungolo e il compito di porre riparo a quel vuoto di sè e di propria sostanza e creatività, per spingere finalmente a generarla e a costruirla.
Il profondo non crea mai situazioni di sofferenza e di crisi inutilmente o sciaguratamente.
Ed il profondo ritrovato e condiviso, vincono il torpore di una comunità che ancora attende e non sa muoversi verso nessuna direzione.
Nel Bosco della Memoria che sarà realizzato a Roio occorrerà erigere un immagine, statua o altro, che ci ricordi che la storia evita di far smarrire il filo della propria esistenza ed il centro del proprio equilibrio, ma, soprattutto, ci lega l’un l’altro, al’interno di comunità coese, che condividono sogni, bisogni ed ideali.
Una statua o effige o scritta che dica, a noi stessi e a tutti, che anche là dove l’attualità più incompatibile impera (come diceva Calvino) e dove avendo é superato la propria rovina e potendo esibire la propria grandezza mutila e recuperata in modo più affascinante della piena integrità, è solo la memoria di unità e di empatia che fa si che una società non sia solo un insieme di persone e di nomi.

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