Per una nuova dialettica democratica

di Vittorio Lussana

La questione di un Paese soffocato da annose contrapposizioni ideologiche è assai più importante di quanto non si ritenga. Non si può continuare a far finta di non comprendere come vaste aree della sinistra italiana siano rimaste ancorate a un populismo antipolitico e anticonsumistico il quale, pur potendo essere compreso nei suoi presupposti di principio, non può rimanere arroccato dietro logiche culturali puramente antagonistiche. Ma, allo stesso modo, risulta necessario far comprendere al mondo moderato italiano come molte sue inconsapevolezze facciano riferimento a parametri di principio che sovrintendono a forme di omologazione tese a giustificare ogni contraddizione, ogni pragmatismo, ogni irrazionalità. Sarebbe dunque questa la funzione di riequilibrio politico, culturale e perfino socioeconomico che dovrebbe animare una nuova area laica, equidistante da ambedue le coalizioni in campo: dare forza e consenso a una battaglia di questo genere, a una laicità che intende lasciare alla destra il diritto di sbagliare aiutando, al contempo, la sinistra a uscire dalle vecchie secche del comunismo democratico – un vero e proprio nonsense ideologico… – dalle contraddizioni stridenti, da un’ipercriticità che finisce con l’immobilizzare ogni decisione. Proprio per Berlinguer, la parola ‘comprensione’ era quella che doveva effettivamente essere posta alla base di un ‘nuovo corso’ della politica italiana. Invece, ci ritroviamo da anni prigionieri di incongruenze e delegittimazioni reciproche, con una sinistra che entra in contraddizione con se stessa e una destra ‘pasticciona’ che finisce col licenziare una manovra ogni tre giorni. Non se ne può proprio più di questo teatrino di imbelli: serve assolutamente una camera di compensazione culturale ben distante da ogni ideologia, da ogni pregiudizio, da ogni presa di posizione ‘preconfezionata’, da ogni etichetta. Tutti lo sanno, tutti lo hanno capito. E non solamente qualche amico o qualche osservatore. Molta gente comune che ho incontrato in questi anni mi ha confessato di avere l’impressione che manchi decisamente ‘qualcosa’ al nostro attuale sistema politico: un’area politico-culturale avveduta e illuminata, che sappia essere ‘corsara’ per se stessa, ma coraggiosa nel riuscire a trascinare con sé l’intera sovrastruttura del Paese indicando alternative, innovazioni, nuovi modi di decidere, accelerando il passo sulla strada di una definitiva modernizzazione. Fateci caso: stiamo parlando di liberalismo – per via del disperato bisogno di maggiori autonomie economiche e sociali, nonché di nuove libertà pubbliche – ma anche di socialismo, a causa dell’evidente esigenza di riequilibrare la distribuzione di oneri e risorse. Ma il liberalsocialismo è la formula culturale classica di radicali e socialisti: in sostanza, stiamo parlando di Marco Pannella e Bettino Craxi, pur tenendo presente alcune ‘centrate’ profezie di Enrico Berlinguer, in particolar modo nel merito di quella questione morale che tanto riecheggia nelle nuove esigenze ‘etiche’ ricercate anche in alcuni ambienti politico-culturali della destra. Rimane persino valida la distinzione di Pier Paolo Pasolini tra sviluppo e progresso, se si vuole, poiché il primo crea suddivisione sociale, ingiustizia, squilibrio, contraddizioni stridenti, mentre il secondo porrebbe la società al riparo da ogni tentazione anarcoide, demagogica, qualunquista. Da ogni fronte politico si sta cercando di trovare una nuova sintesi, un nuovo ‘sistema dei segni’, la possibilità di produrre un discorso finalmente credibile. Ma il vero ‘binario di fondo’ della situazione rimane quello della liberaldemocrazia coniugata al socialismo, non certo quella di un ritorno all’antagonismo dei nostalgici della ‘scala mobile’ come unica alternativa al propagandismo inconcludente. Dunque, ci si decida a scegliere una tra queste opzioni: far funzionare il dibattito politico-culturale cercando nuove sintesi comuni e nuovi terreni di incontro tra le forze in campo, al fine di uscire da una politica delle ‘barricate’; oppure, proporre una nuova forza in grado di mediare tra le distinte posizioni. In sostanza: o si affrontano per lo meno le questioni su cui si può andare minimamente d’accordo lasciando quelle più controverse sullo sfondo, oppure, per favore, si ripropongano in campo alcune forze (Psi, Pri, Pli e Radicali) in grado di fornire quell’enzima culturale necessario al funzionamento del sistema democratico. Questa scelta è assai importante, soprattutto sotto il profilo culturale, a vantaggio di una maggior chiarezza del dibattito preso nel suo complesso. O si ritorna alle radici più autentiche, in grado di proporre ricette ben radicate nella storia di questo Paese, oppure ci si decide a far funzionare il sistema per quello che è. Personalmente, per puro spirito radicale – intendendo questo termine in un senso culturale prima che politico – tenderei a optare per la prima ipotesi. Ma se anche si vuol continuare ad avvitarsi intorno alle vecchie diatribe su chi ha fatto A e chi, invece, B, sui socialisti ‘ladri’ e i democristiani ‘fangosi’, sui radicali ‘cannaroli’ e i liberali ‘libertini’, sulle ‘capriole’ repubblicane e sugli errori comunisti, allora ci si decida a trovare un modo per riportare l’attuale sistema di forze politiche verso un minimo di decenza e di efficienza. Altrimenti, veramente la politica non servirà proprio più a niente. E, quel che è peggio, a nessuno. (Laici.it)

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