di Enrico Cisnetto
PER UN NUOVO MIRACOLO ECONOMICO
PRIMA DI TUTTO SERVE LA STABILITÀ POLITICA
DRAGHI VESTA I PANNI DI LA MALFA
E CON CORAGGIO LANCI UN GRANDE PIANO
Ho l’impressione che in questo momento nel Paese il particulare di gucciardiniana memoria – che rimane egoismo anche quando indossa gli abiti della correttezza formale – stia prevalendo sulla generosità politica e istituzionale. Per esempio, capisco perfettamente le ragioni che stanno spingendo Sergio Mattarella ad evitare di essere coinvolto in un secondo mandato presidenziale. Al di là di quelle strettamente personali – la stanchezza, dopo 7 anni difficili e avendo superato la soglia degli 80, è condizione più che comprensibile – ha fondamento costituzionale il desiderio, che nel suo caso è quasi un’ossessione, di non trasformare in prassi l’eccezione rappresentata dal mandato bis di Giorgio Napolitano. Il riferimento fatto l’altro giorno da Mattarella, ricordando la figura di Giovanni Leone, alla necessità di introdurre nel nostro ordinamento la “non rieleggibilità del presidente della Repubblica, con la conseguente eliminazione del semestre bianco” – che appunto fu segnalata dal giurista napoletano, che un’ingiusta campagna ostile costrinse a lasciare il Colle anzitempo – la dice lunga sui sentimenti che lo animano. Come ha scritto Ugo Magri, ormai diventato il numero uno tra i giornalisti quirinalisti, quello di Mattarella è stato “un modo garbato per segnalare l’inopportunità di un bis che lo dovesse riguardare”. Mi permetto sommessamente di osservare che la circostanza per cui Egli potrebbe e dovrebbe “restare in carica” – uso volutamente un’espressione sbagliata perché rende l’idea di ciò che intendo dire, ben sapendo che non potrebbe che trattarsi di una rielezione a mandato pieno – è di altra natura rispetto a quella, figlia del marasma politico, che portò al Napolitano bis. Qui, come ho già scritto altre volte, c’è di mezzo il fatto che sul Parlamento che a fine gennaio eleggerà il Capo dello Stato, pur formalmente legittimato a farlo, grava un handicap politicamente e istituzionalmente rilevantissimo: è destinato nel giro di un anno (o anche prima se la legislatura si concludesse anticipatamente) a cambiare la sua fisionomia per via della legge (sciagurata, ma in vigore) che ne riduce di un terzo i componenti. Ha senso che un presidente destinato a restare in carica sette anni venga scelto da una Camera e da un Senato che di lì a poco non saranno più quelli? Non è una ragione istituzionalmente rilevante e sufficiente per indurre il Presidente al sacrificio di un anno? Perché sarebbe evidente che, adottando questa motivazione, il suo nuovo mandato, pur formalmente pieno, avrebbe come ovvia data di scadenza le elezioni e la nascita del nuovo “Parlamento ridotto”.
Poi, certo, ci sarebbero anche le ragioni della “stabilità” da assicurare al Paese a militare a favore di questo sacrificio. Ma queste somigliano di più a quelle ragioni politiche da cui, comprensibilmente, Mattarella vuole stare lontano. E che peraltro spetta più al Presidente del Consiglio, assicurare. Ecco, a proposito di generosità, questo della stabilità sarebbe il motivo alto e nobile che dovrebbe indurre Mario Draghi a restare a palazzo Chigi, rompendo subito ogni indugio. O meglio, si tratterebbe di ricompiere l’atto di generosità che aveva fatto a febbraio scorso accettando, in piena crisi pandemica, di assumersi l’onere di andare al governo. È vero, la scelta di Mattarella di ritirarsi, apparentemente irreversibile, gli apre le porte del Quirinale. Ma, da un lato, non gliele spalanca, perché la grande palude dei parlamentari – moltissimi dei quali sanno di non avere chances di rielezione, non fosse altro per la riduzione del numero dei seggi – teme che la caduta del governo conseguente alla sua eventuale nomina porti alle elezioni anticipate che nessuno vuole per la semplice ragione (egoistica) che perderebbero i benefici previdenziali (scattano solo a settembre 2022). E ciò lo esporrebbe al rischio di non farcela al primo turno, cosa che Draghi considera esiziale, perchè non è difficile immaginare che nella sua testa ci sia il cosiddetto “modello Ciampi”, che appunto passò alla prima votazione perché accompagnato da un vastissimo consenso politico e parlamentare. Dall’altro lato, il non possumus di Mattarella lascia ricadere sul presidente del Consiglio l’intero onere della continuità politica e di governo da assicurare all’Italia proprio mentre deve produrre il massimo sforzo sia per evitare il ritorno di fiamma della pandemia – che altrove, in Europa, ha rialzato la testa in modo preoccupante – sia per rendere stabile la crescita economica, al di là del rimbalzo di quest’anno e in parte del prossimo.
Finora l’onere della stabilità è stato equamente diviso tra i due presidenti, ma adesso occorre che, pur con un protagonista diverso, questa responsabilità repubblicana duale continui. Come? Mancando Mattarella, e rimanendo Draghi a palazzo Chigi, il nuovo Capo dello Stato andrebbe pescato, per evitare il Vietnam, nel piccolo recinto delle “riserve della Repubblica”. E qui gli unici due nomi rimasti sono quelli di Giuliano Amato e Sabino Cassese. Ai quali, viste anche le rispettive età (83 e 86 anni), ci si potrebbe limitare a chiedere di stare al Colle fino all’insediamento del “parlamento ridotto”, cioè poco più di un anno (sempre rispettando il vincolo formale dell’assegnazione del mandato pieno). Più complicato, invece, sarebbe sostituire Draghi alla guida del governo se optasse per il Quirinale. Chiunque dovesse essere, si troverebbe vittima di fibrillazioni politiche moltiplicate enne rispetto a quelle, già pesanti, di cui è vittima Draghi ora.
Ma qui, a questo proposito, va fatto un altro ragionamento. Non è un mistero che stia crescendo in modo esponenziale l’irritazione di Draghi per il clima di “frenetico immobilismo” (copyright Stefano Folli) che si è creato. Le ripetute prudenze, quando non l’eccesso di compromessi, hanno finito col caratterizzare l’azione dell’esecutivo dopo le azzeccate scelte iniziali, specie sulla campagna vaccinale. Lo si è visto sulla manovra fiscale come sulle pensioni, sul rifinanziamento del reddito di cittadinanza come sul disegno di legge sulla concorrenza, tutti tasselli importanti del grande puzzle di riforme strutturali promesse all’Europa e decisive per far uscire il Paese dal lungo letargo del declino, e sui quali la mediazione è stata tanto faticosa quanto poco produttiva. E il rischio è che la cosa si ripeta, in peggio, ora che la macchina della spesa del Pnrr si mette in moto. Passando così dalle mediazioni alla paralisi. Ma imprecare contro la rissosità dei partiti, figlia di una (in)cultura politica deprimente, non serve a nulla. Occorre riuscire, pur rispettandoli, a sottrar loro il diritto di veto, o almeno il suo abuso. E per farlo bisogna che Draghi cambi spartito e suoni una musica diversa da quella suonata fin qui. Non fosse altro perché una volta chiusa la parentesi del Quirinale, se lui fosse rimasto al suo posto di presidente del Consiglio non potrebbe più riproporre lo schema iniziale del super tecnico prestato alla politica in crisi, che per definizione ha vita corta.
Insomma, c’è bisogno di un Draghi più politico, o meglio portatore di un grande disegno politico di riscatto del Paese. Un Draghi lamalfiano. La suggestione mi è venuta l’altra mattina partecipando alla Camera alla rievocazione della figura del grande Ugo in occasione della presentazione del nuovo portale in cui la Fondazione intitolata a suo nome ha messo tutta la documentazione, enorme, che possiede. Alla presenza del Capo dello Stato, dei presidenti dei due rami del Parlamento e di moltissime altre autorità, Giorgio La Malfa ha messo in relazione la famosa “Nota Aggiuntiva”, che suo padre redasse nel maggio 1962 come ministro del Bilancio del governo Fanfani (quello che aprì la strada alla formazione del primo centrosinistra), con i giorni nostri. Questo perché in essa si faceva riferimento alla forte crescita dell’economia italiana del 1961 non con toni trionfalistici, ma sottolineando la preoccupazione che la politica economica si desse “carico della predisposizione di tutti quei mezzi atti a rendere stabile il processo di sviluppo” altrimenti “le contraddizioni non risolte lo avrebbero bloccato”. Come poi avvenne, esaurendo di lì a poco la spinta del miracolo economico degli anni Cinquanta. Ed è evidente l’analogia: stiamo attraversando una fase di ripresa di portata per molti versi inaspettata, ma senza le riforme e le giuste scelte di politica economica sarà impossibile darle continuità. E il primo presupposto della continuità è la stabilità politica. Ecco il rischio che corriamo se s’interrompe il percorso di Draghi. Ma ecco perché deve essere proprio il presidente del Consiglio, non solo a fugare i dubbi circa le intenzioni sul Quirinale, che il suo silenzio inevitabilmente genera, ma anche e soprattutto a lanciare – lamalfianamente – un programma di governo da “miracolo economico” che riguardi il tempo che manca al termine della legislatura ma che inevitabilmente guardi anche oltre. Perché, come ha magistralmente detto Giorgio La Malfa, “serve una continuità politica e di politica economica che non si misura in giorni o mesi, ma in anni”. Forza e coraggio, dunque.