Il giocattolo rabbioso

Scrivere una recensione di un romanzo pubblicato nel 1926, e tradotto in Italia nel 1994 da Fiorenzo Toso per il piccolo editore Le mani, sarebbe senza dubbio un’operazione discutibile. Il romanzo in que-stione, “El juguete rabioso” dell’argentino Roberto Arlt, è uno di quei capolavori della letteratura che si scoprono quasi per caso anche perché, stranamente, è pressoché sconosciuto alla gran parte dei lettori del nostro paese. Ciò nonostante, lo ripeto, mi sembra un atto di imperdonabile arroganza provare a re-censire un romanzo con quasi un secolo di storia. Mi limiterò pertanto a qualche considerazione sulle pagine che chiudono questo libro davvero speciale, sperando così di stimolare la curiosità dello sventu-rato navigante della Rete che si è, per caso o per scelta, imbattuto in questo articolo. Prima di assolvere questo compito, abuserò ancora per un po’ della pazienza di chi legge con un’ultima, breve, premessa: in questa sede non intendo spendere neanche una parola sulla personalità di Roberto Arlt, non perché questo autore straordinario non meriti, anzi; ma perché posso permettermi in tutta tranquillità di rinvia-re alla splendida monografia di Loris Tassi dal titolo “Variazioni sul tema della lettura. L'opera di Ro-berto Arlt”, uscita per Aracne nel 2007.
“Il giocattolo rabbioso” è costruito sulle vicende del suo protagonista, Silvio Astier, il quale, dopo una serie di umili esperienze lavorative ed esistenziali, per quanto ancora giovanissimo, si trova davanti a un bivio terribile: tentare il colpo della vita o tradire l’amico, lo Zoppo, che ha proposto il colpo?
Lo Zoppo ha infatti organizzato un piano quasi perfetto: dopo aver individuato un ricco ingegne-re, Arsenio Vitri, ha non solo ricavato una copia della chiave della sua cassaforte, ma ha anche saputo che in quella cassaforte è stata da poco depositata una ingente somma di danaro. Non resta altro da fare che aspettare che l’ignaro Vitri esca di casa e, con la complicità della domestica, rubare il “malloppo”. Astier, dopo essere stato invitato dallo Zoppo a partecipare, sulle prime accetta, ma subito dopo nella sua mente si alternano pensieri contrastanti:

E se lo denunciassi [lo Zoppo] (…).
Se lo faccio distruggerò la vita dell’uomo più nobile che abbia mai conosciuto. Se lo faccio mi condanno per sempre. E sarò solo, come Giuda Iscariota. Porterò una pena per tutta la vita.
Perché no? (…) Io non ho colpa.
Canaglia… sei una canaglia.
Io non ho colpa.
Ah canaglia… canaglia.
Non m’importa e sarò bello nella parte di Giuda Iscariota
(R. Arlt, “Il giocattolo rabbioso”, 2007, pp. 137-139).

E quando il lettore è oramai sicuro che Astier non tradirà lo Zoppo, – con un rapido cambio sce-na – il protagonista denuncia direttamente a Vitri il piano ordito ai suoi danni. Lo Zoppo è arrestato, così come la domestica. Il sogno di grandezza di Astier, che all’inizio del romanzo era idealizzato nelle figure e nelle gesta di José Maria, Rocambole o Don Jaime il Barbuto, è sublimato attraverso un mo-mento di “sporca” giustizia. Astier, tradendo l’amico, macchia irrimediabilmente con il marchio dell’infamia la sua coscienza, ma, allo stesso tempo, compie anche un atto di “liberazione” che gli per-metterà di affermare la sua «incoscienza gioiosa». Del resto la scelta di Arlt di far nominare, più volte, quasi ossessivamente, il nome di Giuda Iscariota al suo personaggio, non è casuale. Giuda come Astier tradisce. Il tradimento è un’azione terribile, di quelle per le quali si perde la dignità. Sovente il tradimen-to svela i connotati di una personalità (spesso celata dietro le forme eleganti dell’ipocrisia) mediocre, debole e arida, priva di qualsiasi etica se non quella del raggiungimento del proprio utile. In Giuda, così come in Astier, però il tradimento è qualcosa di diverso, perde la sua connotazione negativa e si eleva a metafora del coraggio. La figura dell’Iscariota è esemplificativa. Per dirla con Borges, Giuda, «si ritenne indegno di essere buono» e «rinunciò all’onore, al bene, alla pace, al regno dei cieli, come altri, meno e-roicamente, rinunciarono al piacere. Premeditò con terribile lucidità le sue colpe» e «scelse quelle colpe non visitate da alcuna virtù: l’abuso di fiducia (Giovanni, 12, 6) e la delazione» (J. L. Borges, “Finzioni”, 2003, p. 142).
Allo stesso modo, Astier tradendo l’amico, materialmente non ottiene nulla, probabilmente perde una grande occasione per arricchirsi, ma comprende il valore della vita. Il suo gesto è una sorta di puri-ficazione: solo sporcandosi l’anima potrà finalmente riconoscere la differenza tra bene e male; solo do-po questa scelta, apparentemente vile, avrà chiaro il significato del dolore; solo dopo questo purgatorio potrà riuscire ad amare profondamente la vita. Questa prospettiva sembra essere confermata nel dialo-go finale tra Astier e Vitri:

– Ma lei aveva previsto che un giorno sarebbe diventato come Giuda?
– No, ma adesso sono tranquillo. Andrò per la vita come se fossi morto. Così vedo la vita come un grande deserto giallo.
– Non la preoccupa questa situazione?
– Perché? È così grande la vita… Un momento fa mi era sembrato che ciò che ho fat-to fosse previsto da diecimila anni; poi ho creduto che il mondo si aprisse in due, che tutto diventasse di un colore più puro, e che noi uomini non fossimo così sciagurati. (…) C’è una verità, si, ed è che so che la vita sarà sempre straordinariamente bella, per me. Non so se la gente sentirà la forza della vita così come la sento io, ma in me c’è una gioia (…). Io credo che Dio sia la gioia di vivere»
(R. Arlt, op. cit., pp. 147-148).

Lontano dunque da ogni intento auto-assolutorio, il protagonista del romanzo arltiano in realtà non trova la soluzione dei suoi problemi e meno che mai la chiave di volta per essere felice. Tuttavia, proprio perché la vita è qualcosa in continua trasformazione, Astier non può far altro che amarla e con-tinuare a vivere per come sa, con semplicità e trasparenza. Questa condizione certo non riabilita Astier dalla sua colpa (morale, più che giuridica), di cui anzi porterà, come già detto, per sempre la “cicatrice”, ma lo rende umano e consapevole dei suoi limiti e di quelli del mondo.

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