Nonostante tutto l’Aquila dopo il 6 aprile 2009


Ne ho scritte parecchie sul terremoto dell’Aquila e dire che non ci sono mai stata, neanche in letargo virtuale. Succede così con la Rete, anche che si pensa di essere soli e ci si ritrova in tanti e viceversa. La prima la scrissi appena mi svegliai quella mattina del 6 aprile 2009 e avevo sognato, no, era successo. Ho riportato molto spesso le solite voci, come fossi matta io e quelle che scrivevano…Laura Tarantino e Luigia ad esempio, Miss Kappa e Giusi Pitari, ed è stata casuale questa scelta al femminile aquilana: non bado al “genere” per fare comunicazione e mettere in comunicazione, noi Italia, bordello di genti e chissà chi mantiene il casinò. Nonostante tutto, non dimentichiamo Alessandra Cora e tutte le vittime di quella giornata: calamità naturali e innaturali. Alcune sere fa, era sabato, sono stata al Borgo di Sutri per una serata jazz organizzata da Cinzia Scott e ho conosciuto Cinzia Gizzi, pianista jazz e arrangiatrice, diplomata in pianoforte classico … Docente di ‘Jazz’ al Conservatorio di Musica di Messina e ora dell’Aquila. Mi è sembrato un miracolo sentirla dire che la vita è ricominciata, che c’è ancora tanto desiderio di studiare, ascoltare, vedere e fare… E anche oggi nelle prime ore del 6 aprile 2011, a due anni di distanza, riporto, anche 6 aprile 2009, due anni dopo – Un caffè nel mio giardino – di Angelo De Nicola (Il Messaggero).
Nonostante tutto, per non dimenticare mai.

Doriana Goracci


Due anni dopo: un abbraccio di luce intorno la città

Migliaia di fiaccole illuminano il lunghissimo e silenzioso corteo degli aquilani che stasera, dopo avere percorso alcune delle strade del centro, raggiungeranno Piazza Duomo per la veglia di commemorazione delle 309 vittime del terremoto che il 6 aprile 2009, alle 3.32, distrusse il capoluogo abruzzese e altri 56 comuni.
Il corteo, aperto dai gonfaloni dell’Aquila e del Giappone – nazione che ha dato un notevole contributo di solidarietà – dalla Fontana Luminosa raggiungerà la Casa dello Studente e poi la piazza centrale.
Il percorso: Viale Gran Sasso, piazza Battaglione Alpini (Fontana Luminosa), viale Malta, via Castello, via Tagliacozzo, via Strinella, via Girolamo da Vicenza (tratto compreso tra via Cecioni e il tunnel di Collemaggio), via Caldora, viale di Collemaggio, viale Crispi, via Iacobucci, viale Rendina, via XX Settembre
Ore 00.00
Partecipano il sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, e il presidente della Regione e Commissario alla Ricostruzione, Gianni Chiodi.
Ore 23.55
La fiaccolata muove i primi passi dalla Fontana Luminosa

Abruzzo24ore.tv sta seguendo in diretta l’evento con un collegamento streaming, articoli e contributi video.

Trentotto anni

6 aprile 2047
Il Parco della Memoria nella mia città è bellissimo. Noi lo chiamiamo semplicemente Parco. E’ pianeggiante, poi discende a gradoni, giardini, orti e fiori e si arriva fino alla Fontana delle 99 Cannelle. Si affaccia sui monti ed è luminoso, silenzioso e sobrio. Non statue, ma solo una fontana che diviene luminosa proprio la notte del 6 aprile. Non vi sono bar, né altre strutture ricettive solo, nascoste, le toilettes di legno. Ci si siede sulle panchine, oppure si ascolta musica dal piccolo “anfiteatro” di legno e sassi. Si contano tantissimi alberi: mandorli, lecci, aceri e pini. Un boschetto di mandorli giapponesi ricorda un 9° Richter del 2011. I servizi elettronici ci sono, ma non si vedono. A diposizione di tutti uno schermo su cui scorrono le attività della città. Ogni 6 aprile i filmati d’epoca: il 2009.
Ci sono cresciuta in quel Parco ed ho imparato a rispettarlo con i racconti di mio nonno, uno dei tanti nonni che 38 anni fa avevano circa la mia età. Mi racconta delle case e dei palazzi che sorgevano qui: via XX settembre si chiamava, ora via 6 aprile. Delle persone che ci vivevano, dei crolli e le macerie. Degli errori del passato e della forza di ripensare l’abitare in una città ferita. Non fu facile destinare un’area così grande a Parco. Ci vollero anni, baruffe e soldi.
«Ma questo regalo, Maria, è stato un regalo di tutti. Non volevano rinunciare alle loro belle case in tantissimi, né volevano accontentarsi di un’altra sistemazione. Ma questo posto non era adatto per abitarci, vi trovarono persino le macerie del 1703. I nostri avi sapevano che lì la terra era inadatta e dovemmo impararlo anche noi», nonno mi dice di imparare, dal passato, dalla storia, dagli errori. E tutti noi, nipoti e pronipoti di una catastrofe, per ricordare abbiamo bisogno dei racconti dei nonni e dei bisnonni. Il perché del Parco è la nostra storia. Ogni albero ha un significato che non ricorda solo il sacrificio di tanti innocenti, ma soprattutto l’errore di non aver sempre studiato il passato. Trema ancora la terra qui, lo sappiamo, tremerà. Per non lasciare questa terra abbiamo bisogno di capire.
Quando sono nata, il Parco già c’era e ne abbiamo tutti condiviso l’evoluzione. Quando venne inaugurato, nel 2016, si sdraiarono sui prati i pannelli fotovoltaici che alimentavano l’illuminazione e tutti i servizi. Erano pannelli giganti ma poi, nel tempo, quelli vennero sistemati sui tetti sguarniti e al loro posto arrivarono quelli moderni, più piccoli, fatti di nanomateriali e via così, fino ad arrivare alle attuali quasi invisibili “retine” sui rami degli alberi. Nascosti, tutti gli accessi all’energia del sole, la stessa che alimenta la mia “superbike”. Perché andiamo in bicicletta, ma L’Aquila è sempre in salita.
Si possono visitare i cunicoli, illuminati, che portano fino alla Basilica di Collemaggio: l’orgoglio di allora e di oggi. Con i giochi di luce del solstizio d’estate e i concerti tutto l’anno.
Il Parco stamane è affollato: c’è il sole ma fa freddo, come 38 anni fa. Noi, nipoti del terremoto, guardiamo con stupore i nonni e qualche bisnonno che tra musica e immagini ci indicano chi era questo e chi quello. E poi arriva il silenzio, quando qualcuno dice che il sisma si è portato via i nonni e i padri di allora, ma anche quelli di oggi.

Il silenzio

Il blog è fermo da tempo. Troppo. Il silenzio è voluto. Voluto perché nulla c’è da raccontare. Se non piccole cose di piccoli uomini. Cose che fanno male, ma insignificanti per i più che non sono costretti a vivere il nostro quotidiano. Addirittura, ai più, incomprensibili. Voluto perché la mia vita, le nostre vite sono ancora sospese. Come due anni fa. Grava su di loro il peso di lunghi mesi di dolore che hanno visto spegnersi la speranza. Continuare a credere in se stessi e negli altri è diventato difficile. E allora ti senti solo, quando solo non dovresti sentirti, ché le sofferenze dovrebbero unire. Ho deciso di rompere il mio silenzio perché quella notte, stanotte, mi sembra ancor più vicina. Due anni che sono un soffio. Due anni che sembrano non essere trascorsi, perché è impossibile ricostruire te stessa nell’incertezza dell’immediato e nel buio del futuro. Senza radici, senza identità, ti chiedi se resterai così per sempre. Se, per sempre, sarai solo una sopravvissuta. Ti chiedi se tornerai ad avere dei desideri che non siano solo quelli di ricostruire una comunità che è, irrimediabilmente, morta. Sola, fra coloro che vivono il tuo stesso dolore. Dietro quelle transenne, la città morta. L’odore inconfondibile della morte.La popolazione sbandata, sfiduciata, sempre più disgregata, accetta la realtà che vede come ineluttabile. Si adatta, pur soffrendo. Cerca scorciatoie. Mentre il mondo intero, intorno, muta repentinamente i suoi scenari. E tu, con il tuo dolore, ti senti un granello. Fermo, mentre tutto, fuori dalle tue mura cadenti, cambia velocemente. Il blog cambia anch’esso: si occuperà solo di me. Di me parlerà. Ché questa comunità, per ora, all’inizio del terzo anno della nuova non vita, nella quale ha scelto di relegarsi, non merita di essere raccontata. E di nuovo il silenzio, per il lutto rinnovato, mi accoglie. Benevolo. Perché il silenzio spesso cura le ferite meglio di ogni parola.

Due anni. Abbiamo smesso di contare i giorni, le settimane, i mesi ed ora siamo agli anni. Inizia il terzo.
Il 6 aprile sarà triste, sarà sommesso, sarà doloroso. 309 vittime.
A raccontare l’anno appena trascorso si fa presto, basta leggere uno degli ultimi report della Struttura per la Gestione dell’ Emergenza: quasi 38000 persone non abitano la propria casa. Oppure si può venire a L’Aquila o in qualsiasi altro centro del cratere sismico, di notte: lì dove c’era la vita, è ancora tutto buio.
Chi l’avrebbe mai detto! Due anni! Son pochi o tanti?
Sono giusti, in realtà, per sapere qualcosa del nostro destino, un cronoprogramma, un’idea di città,… Certezze o, almeno, speranze.
Vaghiamo, invece, e resistiamo, incapaci ad andar via.
Descrivere come stiamo è difficile, perché viviamo in una cornice tutta nostra, che esportare è solo illusorio. Insomma, siamo un insieme di persone del tutto peculiare, al punto che sarebbe interessante farne uno studio sociologico.
Questo insieme di persone convive con transenne e militari, da due anni. Al punto che non ci si fa più caso. Una città diroccata, la nostra città; zona rossa, invalicabile, tanto che ai varchi ci sono i militari. Da due anni. A guardia del nulla. E le zone permesse vengono chiuse. All’una di notte, per riaprire l’indomani.
All’interno di questo insieme ci sono svariati sottoinsiemi, ciascuno sottoposto a vessazioni irraccontabili. Gli abitanti dei progetti C.A.S.E. , per esempio (tralasciando il fatto che ancora non sono noti i criteri con i quali si è avuto accesso alle nuove abitazioni), non sono liberi di assentarsi (insieme o anche singolarmente) dall’alloggio per più di tre mesi, pena la revoca dell’alloggio. E se la famiglia cambia, anche per un lutto improvviso, immediatamente si viene trasferiti. La libera interpretazione delle ordinanze commissariali ha fatto sì che un altro sottoinsieme si è visto revocare il piccolo contributo mensile di autonoma sistemazione perché si è osato cambiare residenza, all’interno del cratere sismico, badate bene! O c’è chi, dopo aver abitato in una piccola parte della propria casa inagibile (classificazione E) con l’ottenimento della parziale agibilità, ora, dovendo sgomberare l’appartamento per poter finalmente iniziare i lavori di ripristino, non sa dove andare. E che dire degli eredi di case inagibili? Avranno il contributo per la ristrutturazione solo se il proprio caro è venuto a mancare entro una certa data, altrimenti nulla. E l’assurdo accanimento nei confronti di chi sta ancora in albergo fuori città? E vogliamo anche metterci chi ha casa agibile all’interno delle zone rosse? O gli orfani del terremoto, senza più famiglia, figli senza più niente per ripartire.
Ma i decisori che siedono ai tavoli per la ricostruzione sono tutti commissari o simil-commissari, nessuno è aquilano, tutti ignari delle difficoltà delle persone e sottolineo persone. Questa, però, è la prima fila dei tavoli della ricostruzione! In seconda fila i sindaci, uditori (o quasi), in terza fila i cittadini a gridare “basta commissari!”, tra i cittadini e i sindaci e tra i decisori e i sindaci le lobbies, suggeritrici, sul loggione la città morente che non ha neanche il fiato per parlare, da lontano si ode solo il fischio del vento che spazza i vicoli e entra nei portoni.
E poi c’è la nostra vita, quella di tutti: cambiata, rovesciata, rimescolata. Vaghiamo, sempre, in cerca di ricucire pezzi perduti: la quotidianità di una passeggiata, di una vetrina, di uno scambio di battute, di un cinema o di un teatro, di un concerto, degli incontri casuali, dei bar alla sera e anche di notte. E, ancora, ci sono le nostre case, alcune riabitate, altre in attesa di noi. Quelle che sono rimaste su e, quindi, sono accessibili, hanno tutte lo stesso odore, la stessa polvere. Ci trovi segni di quella notte, persino i letti disfatti: non una sciatteria, ma un desiderio di poter ricominciare daccapo, con la voglia di riaddormentarsi, in quel letto, alle 3e32 di un giorno qualsiasi. E quelle diroccate in centro, dove ancora puoi sbirciare la vita. E quelle riparate di colori sgargianti. Oppure le nuove, provvisorie, piene di oggetti sui balconi.
Siamo ancora all’Inferno: in alto il buco nero, la nostra città. A guardia tre fiere: una lince, un leone, una lupa. Brama, superbia e avidità.
Riaprire la città dicevamo e diciamo. Riaprirla vuol dire capire non solo il danno, ma anche cosa si è fatto durante questi mesi nei quali le transenne, seppur spesso abbattute, hanno continuato a dividerci dalla città, dai suoi problemi e anche tra di noi. Riaprirla vuol dire lavorare, verificando la sicurezza, smaltendo infine le macerie. E sì, perché a due anni dal sisma e ad un anno dalla rivolta delle carriole che differenziavano coppi, pietre monumentali, ferro ecc., le macerie sono ancora a terra a testimoniare tutte assieme le tre belve di cui sopra.
Entriamo così nel terzo anno dopo terremoto con una sola buona notizia: siamo ancora qui.
Cittadini senza città.

Cinzia Gizzi al piano

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