Il 21 settembre 2007, nel corso dell’udienza ai partecipanti all’incontro promosso dall’Internazionale Democratica di Centro e Democratico-Cristiana (IDC), presieduta dall’On. Pier Ferdinando Casini, Benedetto XVI ha chiesto ai presenti di adoperarsi “a far sì che non si diffondano, né si rafforzino ideologie che possono oscurare o confondere le coscienze e veicolare una illusoria visione della verità e del bene”.
di Elio Rindone
Parole inquietanti
Queste parole mi sembrano davvero inquietanti: sarebbe un errore, infatti, sottovalutare la portata della richiesta, pare ben accolta da molti dei presenti, di impedire che si diffondano – o che si rafforzino se già diffuse – le ideologie che possono ‘oscurare o confondere le coscienze’ riguardo alla verità e al bene, e cioè in pratica tutte le ideologie che non sono in consonanza con la dottrina cristiana. Che nell’ottica vaticana non ci siano concezioni filosofiche, religiose, morali differenti, che possono reciprocamente arricchirsi in un cordiale confronto o che possono almeno convivere all’interno di una società pluralistica lo sapevamo già. Ma la pretesa che non siano messe in circolazione idee erronee, cioè non gradite al Vaticano, costituisce un vero e proprio attentato alle regole democratiche.
Questo, infatti, è con tutta evidenza il significato delle parole del papa: egli non si rivolge a un’assemblea di studiosi, esortandoli a impegnarsi per confutare tesi ritenute incompatibili col cristianesimo, ma a uomini politici. E con quali armi costoro possono combattere l’errore? Certo non con gli argomenti della ragione bensì con quelli del potere. Benedetto XVI chiede dunque di utilizzare le leve del potere per contrastare la diffusione di ‘una illusoria visione della verità e del bene’. Esclusi, almeno per il momento, l’ergastolo e la pena di morte, non è difficile immaginare a quali simpatici provvedimenti si possa fare ricorso: togliere i finanziamenti ad istituzioni culturali e dirottarli verso altre, oscurare siti internet, rafforzare la censura televisiva, intimidire i giornalisti, privare della cattedra professori non allineati e controllare i libri di testo.
Timori eccessivi? Non direi, se ci rendiamo conto di quanto forte sia l’interesse del potere a controllare le idee. E non solo nei regimi totalitari di cui l’Europa del ’900 ha fatto triste esperienza: nei Paesi democratici, infatti, non si considera di buon gusto reprimere il dissenso con la tortura o col lager e la presenza di più centri di potere impedisce un’assoluta uniformità, ma ciò non toglie che con metodi più soft si faccia di tutto per imporre una determinata visione del mondo, lasciando alle altre spazi solo marginali.
Oggi come ieri
Credo che si possa affermare che la chiesa romana solleciti i politici cristiani ad agire proprio in questa direzione, perché è consapevole che il suo patrimonio di idee e di valori non ha la capacità di imporsi laddove non sia sostenuto dalla forza dello Stato, come dimostra la progressiva scristianizzazione dell’Europa verificatasi negli ultimi decenni. Del resto, questa non è una novità: oggi come ieri, le gerarchie ecclesiastiche sono atterrite dal libero confronto delle idee, e non bisogna lasciarsi ingannare dal loro riconoscimento del valore della democrazia; riconoscimento alquanto tardivo, se si pensa che ancora Pio IX invitava i cattolici francesi a combattere quella “piaga orrenda che affligge l’umana società, e che chiamasi suffragio universale”(Discorso ai pellegrini francesi, 5/5/1874).
Da quando, con l’editto di Teodosio del 380, il cattolicesimo è diventato religione di stato le gerarchie ecclesiastiche in effetti hanno stretto un’alleanza, che vorrebbero indissolubile, col potere politico. Abituata nel medioevo a controllare i fedeli con l’aiuto dell’impero, quando nel ’500 questo non riesce a soffocare la rivolta luterana, la chiesa cattolica persevera nell’uso di metodi già collaudati: la condanna dell’eresia e la punizione degli eretici ad opera del tribunale dell’Inquisizione. Ai vecchi rimedi, semmai, se ne aggiungono di nuovi, specialmente ad opera del cardinal Carafa, chiamato da Paolo III a presiedere la Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione o Sant'Uffizio e poi divenuto papa col nome di Paolo IV. Alla sua iniziativa si debbono, infatti, oltre all’istituzione del Ghetto di Roma, la riorganizzazione della censura sulla stampa e la compilazione ad opera del Sant’Uffizio dell’Indice dei libri proibiti.
Non di rado il semplice possesso di un’opera inserita nell’Indice era motivo sufficiente per pronunciare una condanna per eresia, a cui faceva seguito nei Paesi cattolici l’irrogazione della pena da parte dell’autorità temporale. La gamma degli autori proibiti, poi, era assai varia: si andava da Giovanni Boccaccio a Lorenzo Valla, da Girolamo Savonarola a Erasmo da Rotterdam, per non parlare di Lutero e di Calvino; ed erano proibite le traduzioni in volgare della bibbia, alla quale, quindi, non poteva avere accesso la stragrande maggioranza dei cattolici, che ovviamente ignorava il latino.
Quando poi, nell’Ottocento, si affermano le idee liberali e lo stato rinuncia ad imporre la religione, rifiutando la condizione di braccio secolare dell’autorità ecclesiastica, Pio IX non esita a condannare la separazione tra stato e chiesa, che priverebbe il papato del sostegno di cui ha goduto per secoli. Prigioniero di una lunga tradizione, nel Sillabo egli rifiuta la modernità nascente e continua a rivendicare i privilegi del passato, pretendendo ad esempio che la religione cattolica rimanga “l’unica religione dello Stato”(LXXVII), che “la scienza delle cose filosofiche e dei costumi, e altresì le leggi civili” restino sottomesse “alla divina rivelazione e all’autorità della chiesa”(LVII) e che in materia di istruzione pubblica sia riconosciuto il diritto dell’autorità religiosa “di intromettersi nella disciplina delle scuole, nella direzione degli studi, nella collazione dei gradi, nella scelta e nell’approvazione dei maestri”(XLV).
Incoerenza evangelica
Che gli ultimi due pontificati siano in assoluta continuità con tale tradizione plurisecolare mi pare difficile negarlo. Semmai è il caso di chiedersi se questa tradizione sia coerente col messaggio evangelico originario. Per la verità, pare che Gesù non abbia cercato l’appoggio del potere per imporre il suo stile di vita ma abbia fatto una proposta che poteva essere accolta o rifiutata: “Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi”(Matteo 10, 14). Non si può diventare realmente suoi discepoli che per libera scelta.
E tra questi discepoli egli non ha incoraggiato uno spirito settario, non ha formato un gruppo chiuso, geloso della propria identità, intento ad assicurarsi privilegi e ricompense in virtù della fedeltà al maestro; anzi, li ha invitati a sentirsi fratelli di tutti gli uomini impegnati a fare del bene, anche se costoro operano al di fuori della sua cerchia, “perché chi non è contro di voi, è per voi”(Luca 9, 50).
Stando ai vangeli, poi, niente era più lontano dalla mentalità di Gesù dell’attaccamento a una dottrina religiosa da contrapporre alle altre, condannate come eretiche. Le differenze tra credenti ortodossi e Samaritani eretici vengono da lui relativizzate, perché è necessario superare le appartenenze cultuali dato che “è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché il Padre cerca tali adoratori”(Giovanni 4, 23).
E addirittura il vangelo presenta come modello da imitare non il sacerdote o il levita, e cioè i rappresentanti ufficiali della religione che per dottrina e coerenza di vita dovrebbero essere d’esempio per tutti, ma proprio l’eretico, il Samaritano che si fa carico di un’umanità sofferente: la parabola si conclude, infatti, con l’invito che Gesù rivolge al dottore della legge, e cioè, come oggi potremmo dire, a un custode dell’ortodossia: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”(Luca 10, 37).
I discepoli di Gesù sono dunque invitati a rifiutare le tradizionali contrapposizioni: ortodosso-eretico, amico-nemico. Anima le pagine del vangelo una grande apertura verso tutti gli uomini, buoni o malvagi che siano: “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”(Matteo 5, 43-44). Si tratta, evidentemente, di un amore incondizionato, che rifiuta l’idea di ripagare l’altro con la stessa moneta, un puro dono che non discrimina nessuno perché non pretende di essere ricambiato: “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra”(ivi 5, 38-39).
Non pare quindi conforme allo spirito evangelico basare i rapporti umani sul criterio della reciprocità, perché “se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete?”(ivi 5, 46). Eppure è proprio questo il criterio che secondo Benedetto XVI deve ispirare i rapporti dei cristiani con i seguaci delle altre religioni. In un discorso rivolto il 25 settembre 2006 agli ambasciatori dei Paesi a maggioranza musulmana, in seguito alle critiche suscitate dalla sua famosa ‘lectio magistralis’ di Ratisbona, il papa, citando il suo predecessore, poneva la reciprocità come condizione del dialogo: “Come il papa Giovanni Paolo II affermava nel suo memorabile discorso ai giovani a Casablanca, in Marocco, il rispetto e il dialogo richiedono la reciprocità in tutti i campi, soprattutto per quanto concerne le libertà fondamentali e più particolarmente la libertà religiosa”. I cristiani dovrebbero essere tolleranti solo con chi lo è a sua volta e i governi dei Paesi a maggioranza cristiana dovrebbero dunque, per esempio, impedire ai musulmani di costruire delle moschee dato che in Arabia Saudita i cristiani non possono costruire le loro chiese? A rigor di logica, sono queste le scelte coerenti con le parole del papa.
Obiettivo teocrazia
Difesa della presunta identità cristiana dell’Europa, atteggiamento di superiorità nei confronti delle altre tradizioni culturali e religiose, alleanza con i partiti, anche i meno presentabili, disposti a sostenere le sue pretese egemoniche: queste sembrano le linee caratterizzanti l’attuale politica vaticana. Incapace di influire sulla coscienza dei credenti, la gerarchia ecclesiastica si rivolge ai governi e ai parlamenti perché impongano per legge i valori della tradizione cristiana, spacciati per valori fondati sulla natura, ed esige l’assoluta obbedienza dei politici cattolici non solo riguardo ai grandi principi morali ma anche, almeno in Italia, dettando la linea da seguire per l’applicazione di quei principi al campo delle concrete scelte politiche.
Eppure il Vaticano II, riconoscendo che i pastori della chiesa non sono “sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta”, invitava i laici ad assumersi le loro responsabilità: certo, “per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia, altri fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, come succede abbastanza spesso e legittimamente”. Ammessa la liceità del pluralismo nel campo delle risposte ai problemi che si presentano nella società, se ne traeva la logica conclusione: “nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa”(Gaudium et spes n. 43).
E invece oggi, chiusa la parentesi conciliare che sanciva l’autonomia dei laici, i politici cattolici, privati del diritto di operare secondo il proprio giudizio nelle situazioni concrete, sono ridotti a longa manus della gerarchia, che intende servirsene per esercitare il proprio potere su tutta la società. Trascorsi pochi decenni dal Vaticano II, i pastori tornano a considerarsi, in un delirio di onniscienza, esperti in ogni campo: detentori dell’unica verità, sono pronti, per il bene dei cittadini, a far di tutto per imporla a credenti e non credenti.
Al potere politico essi assegnano ormai apertamente il compito della ricostruzione di una società fondata sui valori cristiani. E poiché la presenza di prospettive culturali e religiose differenti è incompatibile con tale obiettivo, si capisce come Benedetto XVI non si stanchi di combattere proprio il pluralismo di idee e di valori che caratterizza l’Europa, bollandolo come relativismo.
Dichiarazioni dell’ONU
Ma è altrettanto ovvio che, per chi considera tale pluralismo come una ricchezza irrinunciabile e la libertà di pensiero e di espressione come preziosa conquista della modernità, il progetto vaticano, lungi dal costituire il rimedio al disorientamento della società contemporanea, rappresenta invece un rigurgito di intolleranza che sino a pochi decenni fa appariva, nei Paesi imbevuti di cultura liberal-democratica, semplicemente inimmaginabile.
Cultura che si esprimeva, ad esempio, nella Dichiarazione sull'eliminazione di tutte le forme d'intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o il credo, adottata dalle Nazioni Unite il 25/11/1981. Questa dichiarazione impegnava solennemente “tutti gli Stati”(art. 4.1) a prevenire ed eliminare qualsiasi tipo di discriminazione e di intolleranza, e cioè “ogni forma di distinzione, di esclusione, di restrizione o di preferenza basate sulla religione o il credo, avente per scopo o per effetto la soppressione o la limitazione del riconoscimento, del godimento o dell'esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali su una base di eguaglianza”(art. 2.2).
I partiti cristiani non sono invitati dal papa proprio a porre in atto, violando il principio di eguaglianza, forme di restrizione per le ideologie che, a giudizio del Vaticano, possono ‘confondere le coscienze’ e a creare condizioni preferenziali per la diffusione delle verità cristiane? Eppure solo poche voci si levano a denunciare la carica di intolleranza contenuta nelle rivendicazioni pontificie, rimarcando come queste siano scandalosamente in contrasto con le migliori acquisizioni della modernità sancite dai documenti delle Nazioni Unite: è questa la preoccupante riprova di quanto progressivamente si siano ristretti gli spazi della libera informazione.
Pochi anni dopo ritornava ancora sulla questione la Conferenza Generale dell’UNESCO, l’agenzia dell’ONU per l’educazione, la scienza e la cultura, con una Dichiarazione sul principio di tolleranza (16/11/1995), che definiva la tolleranza come “il rispetto, l’accettazione e l’apprezzamento della ricchezza e della diversità delle culture del nostro mondo, delle nostre modalità d’espressione e dei nostri modi di esprimere la nostra qualità di esseri umani. E’ incoraggiata dalla conoscenza, dall’apertura mentale, dalla comunicazione e dalla libertà di opinione, di coscienza e di fede. La tolleranza è l’armonia nella differenza”(art 1.1). Il pluralismo culturale non è qui condannato come relativismo ma al contrario considerato naturale espressione ‘della ricchezza e della diversità delle culture del nostro mondo’, varietà di espressioni che non produce cacofonia ma ‘armonia nella differenza’.
E non si parla affatto di ideologie che diffondono una ‘illusoria visione della verità e del bene’, e che perciò vanno contrastate o, tutt’al più, accettate di malavoglia se non se ne può fare a meno; la tolleranza è intesa, invece, come elementare riconoscimento del diritto di cittadinanza per ogni espressione culturale e religiosa: “la tolleranza non è né concessione, né accondiscendenza, né compiacenza. La tolleranza è, prima di tutto, un atteggiamento attivo, animato dal riconoscimento dei diritti universali della persona umana e delle libertà fondamentali dell’altro”(art 1.2).
Il presupposto che sta alla base di simili posizioni è ovviamente che nessun individuo come nessuna istituzione politica o religiosa è in possesso della verità assoluta, presunzione questa semplicemente incompatibile col confronto libero e paritario delle idee che è a fondamento di una convivenza democratica: infatti “la tolleranza è la chiave di volta dei diritti dell’uomo, del pluralismo (incluso il pluralismo culturale), della democrazia e dello Stato di diritto. Essa implica il rifiuto del dogmatismo e dell’assolutismo”(art 1.3).
Intollerabile intolleranza
Ma è proprio la riaffermazione dell’unicità della chiesa romana che, caratterizzando il pontificato di Benedetto XVI, lo pone in antitesi con la modernità. Ancora nel 2000 la gerarchia cattolica non intende minimamente rinunciare a quell’assolutismo dogmatico che, come abbiamo sopra ricordato, non ha alcun fondamento nel vangelo e di cui i credenti più illuminati si sono liberati da tempo. Già nel ’700 Lessing relativizzava – in un poema drammatico ben presto censurato, Nathan il saggio – la pretesa di unicità del cristianesimo rispetto all’ebraismo e all’islam, riprendendo la novella del padre che lascia ai figli tre anelli, uno originale e due imitati con tale perfezione da renderli indistinguibili dal primo.
L’opera invitava a riconoscere la saggezza della scelta paterna: “accettate la cosa come sta; ciascuno di voi ebbe il suo anello direttamente dal padre, ciascuno di voi lo ritenga quello vero. È possibile che il padre non abbia voluto tollerar oltre nel suo casato la tirannia di quell’unico anello; è certo che egli vi ha amati del pari tutti e tre, poiché non volle umiliarne due per esaltarne un terzo. Sta bene! Emulate or voi quel suo amore incorruttibile e scevro di pregiudizi! Gareggiate tra voi nel metter in evidenza la virtù dell’anello! Assecondate questa virtù colla mitezza, colla sopportazione cordiale, colla carità del prossimo, colla rassegnazione al volere di Dio”(G. E. Lessing, Nathan il saggio, in Teatro, Torino 1981, p. 252).
Questa saggezza, se non è apprezzata dagli attuali vertici vaticani, è compresa da un numero crescente di semplici fedeli che davvero mostrano la virtù dell’anello con la mitezza, il dialogo fraterno con non cattolici e non credenti, l’amore per gli ultimi. Proprio questi semplici fedeli possono dare un contributo rilevante per sconfiggere il progetto di restaurazione teocratica della gerarchia. Infatti lo scontro fra le istanze laiche e liberali e le forze confessionali e illiberali probabilmente non sarà mai deciso una volta per tutte e oggi, specialmente in Italia, queste ultime trovano alcuni dei più pericolosi rappresentanti proprio in Vaticano: è urgente perciò che si impegnino per combatterle tutti coloro che, credenti o no, vogliono che non il cristianesimo ma proprio la capacità di liberarsi dalle pretese dogmatiche delle varie ideologie sia la caratteristica dell’Europa.(Italia Laica)